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Ostiglia. Storia di Bepo e Ieia
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Ostiglia. Storia di Bepo e Ieia

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Una storia vera. 15 aprile 1945: un cacciabombardiere americano colpì la casa della famiglia Scattolon a Piombino Dese, in provincia di Padova. Questo libro narra le vicissitudini di una famiglia contadina che visse nella metà del '900, la cui esistenza finì per intrecciarsi con le vicende storiche e politiche della dittatura fascista. E' anche un racconto che rievoca una vita rurale perduta nel tempo, fatta di rituali, usanze e pratiche quotidiane descritti fin nei minimi particolari e infine un esempio di coraggio, di solidarietà, di fervida unione degli sforzi di fronte a una guerra dalle proporzioni immani, che arrivò a devastare anche il loro piccolo mondo.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 12, 2019
ISBN9788831609036
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    Ostiglia. Storia di Bepo e Ieia - Chiara Feltrin

    EINSTEIN

    PRIMA PARTE

    Mappa della Casa alle Albare nel territorio di Piombino Dese, in provincia di Padova.

    Disegno di Antonio Gornizai (1715-16) su commissione di Andrea Cornaro.

    Ipotesi ricostruttiva Casa alle Albare: pianta e prospetti.

    (Architetto Filippo Miatto) 2008.

    Ipotesi ricostruttiva Casa alle Albare: assonometria e spaccato assonometrico.

    (Architetto Filippo Miatto) 2008

    Prospetto sud Casa alle Albare. Porzione sopravvissuta al bombardamento aereo del 1945.

    Foto anni 1970.

    Le campane suonavano a festa in quel rigido mattino di febbraio del 1926.

    Una coppia di sposi sfilava lungo la strada nel piccolo comune di Torreselle, seguita da un corteo festante di parenti e amici. Secondo la tradizione, lo sposo, la mattina delle nozze, raggiungeva la casa dei genitori della sposa, dove nel frattempo si era già radunato un drappello di invitati. Da qui, il corteo nuziale partiva per raggiungere la chiesa.

    In testa, la sposa e il padre di lei, lo sposo e la madre di lui e i testimoni della coppia. La mamma della sposa non partecipava alle nozze: per lei quell’evento era una sorta di lutto. Quando una figlia si sposava, abbandonava la casa dei genitori e andava a vivere con il marito in casa dei suoceri. Non c’erano mezzi veloci, come le automobili, che permettessero di spostarsi con rapidità, quindi per la mamma anche pochi chilometri di distanza dalla nuova casa della figlia spesso rappresentavano un grande distacco fisico oltre che morale.

    Lo sposo, che proveniva da Piombino Dese, il paesino adiacente, era partito presto a bordo di un carretto trainato da un mulo. Il cielo era grigio e l’aria pungente sferzava il volto come una carezza ghiacciata.

    Le due parrocchie distavano poco più di tre chilometri, quindi i parenti dello sposo erano giunti nel piazzale chi in bicicletta, chi con i carri, la maggior parte a piedi. Dal sagrato si udivano le ruote dei carri che si avvicinavano scricchiolando sulla strada sterrata e il vocio dei passanti che ammiravano e commentavano il gran raduno.

    Una volta riunito nel sagrato, il corteo accedette ordinatamente in chiesa dagli ingressi laterali, dove il sacerdote era in attesa di iniziare la funzione religiosa. Finita la cerimonia, il gruppo uscì questa volta dalla porta centrale e procedette come uno sciame brulicante di api lungo la via principale del paese, verso la casa degli sposi. L’atmosfera era diventata un giubilo di risate e grida di gioia, accompagnati dal lancio di frumento sulla coppia come auspicio di prosperità. Lo sfilare nel cuore del paese diventava inoltre un’occasione per mostrare con orgoglio ai compaesani la celebrazione del matrimonio;  i familiari degli sposi si fermavano a salutare tutti i conoscenti che incontravano lungo il tragitto.

    La sposa, Maria, era infreddolita ma raggiante nel suo abito semplice, preparato con cura per l’evento, e tutti la guardavano con ammirazione. Gli occhi castani brillavano dall’emozione e i tratti delicati del viso la facevano sembrare una creatura angelica. Aveva la corporatura minuta, che poteva ispirare fragilità: eppure quella piccola donna era capace di lavorare per dieci o dodici ore al giorno senza mostrare il minimo segno di cedimento. In paese era nota per la sua bontà e pazienza, qualità apprezzabili nella società contadina del dopoguerra che viveva ai limiti della povertà. In questa realtà l’aiuto reciproco e la generosità d’animo erano spesso qualità indispensabili per la sopravvivenza. Quel giorno l’unica protagonista era lei, felice accanto al suo sposo Silvio, il ragazzo più affascinante che avesse mai incontrato.

    Silvio era un bel giovane, alto un metro e ottantadue, dagli occhi azzurri chiarissimi e l’espressione benevola di chi accetta gli eventi della vita e cerca di scorgerne sempre il lato positivo per andare avanti. Era più taciturno di Maria. A volte sembrava preoccupato per qualche pensiero che gli passava per la mente, ma aveva una forza di volontà incrollabile. Anche Silvio indossava un abito elegante, scuro e dal tessuto spesso, realizzato appositamente per il matrimonio. Era un abito che gli sarebbe rimasto per tutta la vita, il leggendario abito da festa.

    Marito e moglie raggiunsero la porta della loro futura abitazione a Piombino Dese, che era la casa dei genitori dello sposo, seguiti dal corteo di invitati, le cui voci erano diventate grida entusiaste d’incitamento che riecheggiavano dietro di loro e si spargevano in tutto il vicinato.

    Non esistevano cortei di automobili che strombazzavano, né banchetti di nozze, né tantomeno bomboniere, un lusso impensabile per una famiglia di poveri contadini da generazioni. La festa nuziale si svolgeva in modo semplice, con un andirivieni di amici e parenti nella casa degli sposi.

    Come voleva l’usanza, la coppia raggiunse l’ingresso della camera da letto. Silvio prese in braccio la sposa ed entrò simulando un salto. Il rituale era un augurio per la loro nuova vita, dopodiché si ritornava ai festeggiamenti. I doni di nozze consistevano in prodotti della natura: uova, verdure, dolci rigorosamente casalinghi, o del pollame, omaggio pregiato e molto gradito. Non esisteva neppure il viaggio di nozze: il massimo a cui si poteva aspirare era il semplice tragitto a piedi dalla chiesa alla casa, già di per sé un momento che gli sposi avrebbero ricordato per tutta la vita.

    Ma per Silvio e Maria era finalmente arrivato il momento di rimanere da soli per la prima volta. La convivenza tra fidanzati non era neppure concepibile e i colombini dovevano accontentarsi di vedersi solo dopo la messa della domenica, o in stalla durante i momenti di riunione sotto gli occhi vigili di suoceri e genitori. Inoltre la coppia, per ufficializzare la propria unione, prima dei Patti Lateranensi del 1929 doveva sposarsi una seconda volta secondo il rito civile.

    Non era opportuno che passasse troppo tempo nel regolarizzare l’atto in base alla legge, per non incorrere nel rischio del peccato mortale. Nel caso una coppia si fosse unita con rito civile, i giovani dovevano tornare alle rispettive case finché non avessero compiuto il matrimonio religioso.

    Un altro rituale importante era l’esposizione del corredo di nozze della sposa. La dote era un’usanza che risaliva al periodo medioevale e consisteva nell’inventario dei beni che il padre della sposa consegnava al padre dello sposo. Anticamente, più alto era il valore della stima del corredo, più salivano le virtù morali della sposa. La dote passava di proprietà al marito che aveva l’obbligo di provvedere alla sua manutenzione e conservazione. L’inventario doveva essere firmato dai fidanzati, poiché in caso di morte della moglie, il corredo sarebbe passato in mano ai figli, mentre in caso di assenza di eredi, parte della dote doveva essere restituito alla famiglia della sposa.

    Maria portava con sé un misero corredo di lenzuola e biancheria, che aveva preparato con le sue mani  grazie agli insegnamenti e alle direttive della madre, al lume delle lanterne durante le lunghe veglie invernali. Quel dono era intriso di sacrificio, tempo, impegno e dedizione; per cui il valore simbolico era immenso rispetto al modico valore commerciale. E in ogni caso per Silvio, cominciare una nuova vita assieme a Maria non aveva prezzo.

    Il matrimonio per amore, infatti, era una pratica che esisteva solo tra la povera gente. Per le classi sociali più elevate, le doti diventavano dei veri e propri scambi di fortune. Il matrimonio era uno strumento sociale in cui la famiglia dello sposo cercava di ottenere condizioni vantaggiose e la famiglia della sposa cercava di alzare il prezzo dello scambio. Gli sposi non venivano neppure interpellati, anzi, le nozze che tenevano in considerazione i sentimenti dei due giovani erano considerate sconvenienti. Le unioni erano accordi attraverso i quali poteva aumentare il prestigio della casata, in cui si univano i patrimoni, si consolidavano le alleanze, che sarebbero state perfezionate dalla nascita degli eredi.

    Capitava anche che i matrimoni venissero organizzati per saldare debiti di gioco o per salvare le finanze della famiglia, grazie alla dote ricevuta. In tutto questo, poco importava se gli sposi mal si tolleravano. Avrebbero imparato ad accettare il nuovo ruolo e ben venga se l’amore fosse arrivato in un secondo momento.

    Per  secoli aveva sempre funzionato così.

    Ma non per Silvio e Maria.

    La casa di Silvio Scattolon si trovava alla periferia di Piombino Dese, un paese in provincia di Padova.

    Si trattava di una costruzione molto ampia, che ospitava altre cinque famiglie risiedenti in settori separati, per un totale che superava le cinquanta persone. Gli Scattolon avevano ereditato la casa dai loro antenati che di generazione in generazione continuavano a vivere in quelle vecchie mura e a trasmettere a nipoti e discendenti il vecchio mestiere del contadino.

    Le origini del fabbricato pare che fossero addirittura attribuibili a un disegno del grande architetto rinascimentale Andrea Palladio. I documenti testimoniano che nel lontano 1553 la famiglia Cornaro aveva commissionato all’architetto la costruzione di un annesso di Villa Cornaro, che servisse per ospitare il gastaldo, la moglie e la loro figlia. La costruzione chiamata Possession alle Albare venne edificata partendo dalla ristrutturazione di un edificio già esistente, situato a un chilometro e mezzo dalla villa.

    Il fabbricato all’epoca di Silvio aveva una pianta a forma di L rovesciata, costruito in mattoni con la copertura in coppi e intonacato solo negli ambienti interni. L’ipotesi ricostruttiva più accreditata è che l’edificio inizialmente ospitasse lungo la parte interna della L un colonnato sormontato da archi a tutto sesto. Probabilmente l’immenso porticato aveva la funzione di ospitare le carrozze e rifocillare i cavalli. Il lato lungo, infatti, fiancheggiava il piccolo tratto di una via di comunicazione che da sud a nord conduceva al vicino paese di Torreselle, anch’esso di proprietà dei Cornaro.

    Successivamente la famiglia del gastaldo fu trasferita nei nuovi blocchi aggiunti ai lati di Villa Cornaro, assieme a massare e servitori, probabilmente per facilitare al sovrintendente le operazioni di gestione della tenuta in assenza del conte. Il porticato sul lato corto della Casa alle Albare, cioè quello rivolto a sud, fu chiuso tamponando i vuoti con un muro di mattoni in modo da permettere un ampliamento degli interni e consentire di alloggiarvi le famiglie di contadini che lavoravano per i Cornaro.

    Il complesso racchiudeva al suo interno l’aia, un enorme spiazzo con la fontana al centro, dove si svolgevano i lavori quotidiani, si scaricavano i carri, ci si ritrovava con il vicinato, si ascoltavano i richiami dei venditori di passaggio e le massaie lavavano i panni nell’acqua della fontana. La proprietà in tempi successivi era passata al conte Marcello da Levada, per il quale passarono a lavorare anche tutti gli abitanti di quella casa.

    Silvio abitava con la sua famiglia nell’angolo ad est, all’incrocio dei due corpi rettangolari.

    Maria non credeva ai suoi occhi mentre varcava la porta di quella che sarebbe stata d’ora in avanti la sua casa. Nonostante si trattasse di un’abitazione modesta di contadini, il fabbricato era grande e aveva un aspetto dignitoso, perfino gradevole.

    Il corpo sul lato est era interamente adibito a stalla e fienile, che assieme alla fontana erano gli unici elementi in comune con le altre famiglie. Era percorso da un portico con gli archi a tutto sesto in mattoni a vista, gradevole eco dell’architettura palladiana, dove si ricoveravano gli attrezzi agricoli e dove d’estate si poteva trovare riparo all’ombra dal sole cocente.

    Ma non era solo l’imponenza a impressionare Maria, perché c’era un’altra cosa che per lei era un’assoluta novità: la corrente elettrica. La famiglia Scattolon era l’unica in tutta la zona ad avere la corrente elettrica che serviva per illuminare le stanze. All’epoca gli allacciamenti alla rete elettrica erano disponibili nei centri cittadini, ma per le case nelle periferie di campagna erano troppo costosi. Per illuminare si utilizzavano lampade a petrolio, mentre le candele di cera erano rare perché più costose e chi ne possedeva una stava ben attento a non consumarla troppo velocemente.

    Anche l’acqua potabile era un bene indispensabile, ma non alla facile portata di tutti. Molti comuni avevano costruito reti idriche che servivano le strade principali, dove avevano collocato alcune fontane pubbliche.

    La famiglia Scattolon disponeva di una fontana a getto continuo, ma non tutti avevano la possibilità di avere la fontana a due passi, così i meno fortunati dovevano percorrere anche diverse centinaia di metri per riempire i secchi alla sorgente più vicina.

    Nelle campagne di un secolo fa si poteva anche bere l’acqua direttamente dai fossi: non esisteva l’inquinamento derivante dagli scarichi industriali, né le esalazioni di carburante delle auto che oggi impregnano l’aria e anneriscono gli alberi dei viali. Nei fossi ci si faceva addirittura il bagno nelle giornate afose d’estate, senza alcun rischio per la salute.

    Come se non fossero bastate l’acqua di fronte a casa e l’elettricità, la famiglia di Silvio aveva un’altra importantissima fortuna: il maiale (porseo).

    Il maiale era un elemento vitale per le famiglie contadine, una certezza per il periodo invernale, nonché una fonte essenziale di cibo in un mondo in cui non erano ancora stati inventati i frigoriferi e quindi la possibilità di conservare la carne nel tempo. Il maiale veniva accudito e ingrassato per mesi e quando veniva il momento di ucciderlo (copar el porseo), partecipavano tutti i componenti della famiglia come fosse un rito religioso.

    Per tanti, soprattutto i bambini, quel sacrificio poteva sembrare una pratica crudele, eppure il maiale rappresentava una dispensa di grassi e proteine necessarie per integrare un’alimentazione prevalentemente vegetariana. Era una vera e propria scorta alimentare che poteva durare per tutto l’anno, in quanto le carni venivano conservate mediante antichi processi di salatura e affumicatura. Inoltre del maiale non si buttava via niente: il lardo veniva recuperato e conservato per insaporire le pietanze. E non solo: le massaie preparavano un sapone casalingo con il grasso di maiale, bollito e profumato con delle erbe, vi univano la soda caustica e versavano il composto in stampi di legno. Una volta raffreddato il sapone veniva utilizzato per lavare i panni, sgrassare le stoviglie e anche per l’igiene personale, per lavarsi le mani e farsi il bagno, addirittura come dentifricio.

    Maria sapeva fin troppo bene che cosa significasse la fame, la sensazione dello stomaco che si restringeva e la debolezza fisica che sopraffaceva il corpo. Il porseo, che oggi non si alleva quasi più nei cortili delle abitazioni, per lei rappresentava la benedizione di una vita migliore.

    Maria era nata il 14 luglio 1901 a Torreselle, piccola frazione di Piombino Dese, in una modesta casa rurale, il casone.

    L’abitazione era un blocco rettangolare con i muri di mattoni, il tetto composto da un’intelaiatura in legno e una copertura in paglia. Con i piccoli fori rettangolari come finestre e il camino sporgente, ricordava una capanna.

    La copertura in paglia non assicurava una buona impermeabilità, e a causa della totale assenza di isolamento termico, la casa si raffreddava e si scaldava velocemente. L’interno era diviso in due soli ambienti: la cucina e una camera dove dormiva tutta la famiglia. Avevano una stalla, anche se decisamente più piccola rispetto a quella della famiglia Scattolon. Nei periodi invernali, le stanze erano talmente fredde che si andava a dormire su pagliericci sistemati alla buona nella stalla, resa più tiepida grazie al calore emanato dagli animali.

    Maria viveva assieme ai genitori e undici fratelli in quasi assoluta povertà. Tutto quello che avevano era un campo di terra da coltivare, un’asina (mussa), due mucche e qualche gallina. In certi periodi si arrivava davvero a patire la fame, tanto che lei, con un velo di tristezza, avrebbe raccontato molti anni più tardi ai propri figli che era rimasta piccola, perché non c’era niente da mangiare.

    La sorella, che lavorava come domestica presso la casa di un proprietario terriero, riusciva a portare a casa di tanto in tanto qualche scarto di pane. Spesso il pane aveva già

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