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A sud
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A sud

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About this ebook

Jacopo è un giovane disoccupato che sbarca il lunario vendendo la mobilia di casa e grazie a qualche soldo che gli passano gli anziani genitori. In un pomeriggio di noia, con l’estate incipiente che comincia a scaldare la città, si rifugia in una mostra di fotografie e lì conosce Anna. È un colpo di fulmine e i due passano la notte insieme a casa di lei. Anna divide l’appartamento con Nastassja, una bellissima ragazza russa di poche parole, con un talento smisurato per la fotografia e la passione per il sud. Qualche giorno dopo, Jacopo scopre che Anna è a capo di una banda di rapinatori e accetta di partecipare al colpo alle poste con l’incarico di fare il palo. Nel frattempo la ragazza russa parte per il sud, senza telefono al seguito e senza dire dove. La rapina naufraga tragicamente ma Jacopo riesce a defilarsi e a passare inosservato. Purtroppo per lui, Nastassja gli aveva scattato numerose fotografie in compagnia di Anna e si è portata via la vecchia macchina fotografica analogica con l’intenzione di fare una mostra.
Jacopo deve rintracciare Nastassja e recuperare il rullino con le foto compromettenti, che dimostrerebbero senza ombra di dubbio la sua complicità con i rapinatori. Nastassja, che non ha detto a nessuno dove avesse intenzione di andare e che ha un concetto di sud che racchiude un’area compresa dalla Lunigiana all’Africa subsahariana, è partita senza nemmeno salutare il suo fidanzato. Spinto dalla disperazione e dalla paura e con poche, sommarie indicazioni, Jacopo comincia un viaggio alla ricerca di Nastassja, con un’auto sgangherata presa a prestito da un amico e con le idee confuse. In compagnia di vecchia musica, con pochi soldi in tasca e con la paura di non fare in tempo a salvarsi, viaggia attraverso la provincia italiana, conosce la notte, la bellezza incantata del paese e l’amore. A sud, più a sud di quello che avrebbe voluto, forse c’è la soluzione del suo problema…
LanguageItaliano
Release dateMar 1, 2019
ISBN9788832923704
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    A sud - Roberto Capocristi

    35.

    1

    Gol!

    Il grido mi colpisce all’improvviso, fa l’effetto di una secchiata d’acqua gelata.

    Mi alzo con le gambe di marmo e mi trascino fino alla finestra.

    La polvere si è inghiottita il campo da calcio. Dopo poco mezza squadra buca la nuvola e va ad abbracciarsi nell’area di rigore. Gli avversari, mani ai fianchi e testa bassa, si spostano come farebbero con una mandria di lebbrosi. L’arbitro, un omino con due spalle strette e i pantaloncini che scendono sotto le ginocchia, fa la figura di un attaccapanni a buon mercato. Sbraita, si agita, richiama i giocatori alla disciplina ma ottiene solo di essere ignorato.

    Con gli occhi pieni di sole me ne ritorno a letto e mi sforzo di non sentire quel baccano.

    Sento Mario che passeggia nel corridoio, col suo passo difettoso come un cuore vecchio.

    Se fossi stato bene, se la testa non mi fosse pesata come una pietra, se il gusto in bocca non fosse somigliato all’acido della batteria, sarei andato anch’io a giocare. Da ragazzo avevo una castagna di destro non indifferente. Anche di sinistro non me la cavavo male e anzi, potevo vantare quel dribbling ubriacante che faceva perdere la tramontana un po’ a tutti.

    Gol.

    Sul muro c’è la foto di Anna.

    Era stata scattata con un bianco e nero ricercato, nel soggiorno di casa sua. Era una mattina d’estate, presto, con il sole ancora basso che filtrava dalle finestre e le indorava l’abbronzatura sulla fronte. I capelli, neri corvini, erano trattenuti da un paio di occhiali e una ciocca sfuggita alla disciplina si interrompeva al termine del sopracciglio.

    Stava bene, Anna, e stava per uscire, con la canottiera leggera che calamitava l’occhio e la morbida linea delle spalle solo interrotta dalla bretella scura della borsetta. Sullo sfondo, tenuto sapientemente fuori fuoco, si intuiva la porta chiusa della camera da letto. Io ero di là, addormentato dietro i pixel confusi da quella lente che si era concentrata solo sulla sua bellezza, sul suo meraviglioso sorriso.

    Mi giro assieme al cigolio del materasso, ignoro il mal di testa e mi tiro la coperta addosso. Credo che un cavallo da miniera alla fine del lavoro abbia buone possibilità di sentirsi meglio di me questo pomeriggio, ammesso che ancora esistano i cavalli da miniera.

    Metto in atto i soliti accorgimenti per prendere sonno.

    Fingo di essere su un’astronave alla deriva da qualche parte della galassia, mi perdo nella contemplazione di un mare lattiginoso di stelle, scorgo lontano una nebulosa che vira nelle mille sfumature del viola, mi sforzo di sentire il borbottio sommesso dei motori.

    Nulla.

    Anna, Anna e ancora Anna.

    Sono perseguitato da quella donna, dal suo modo di parlare, da quell’odore di buona salute che trasudava dalla pelle, dal paio di occhi scuri che catturavano lo sguardo nella loro rete.

    E niente, se avete il tempo e la voglia di stare a sentire una storia, io non riesco a dormire, e ho tutto il tempo che volete per raccontarvela.

    2

    Il palo. Avrei dovuto solamente fare il palo.

    Non era nulla di complicato, non occorreva esperienza o una speciale qualifica in materia di malavita.

    Il palo, di solito, è il più coglione della banda. Si piazza fuori, finge di aspettare qualcuno, di passare lì per caso o di essersi perso, e osserva. Il palo deve solo capire se la vecchietta con la testa nella borsa del mercato è uno sbirro che sta chiamando rinforzi o se quell’auto, nera col parafango bollato, è già passata cinque minuti prima e non si capisce perché debba passare ancora.

    Anna mi aveva spiegato il ruolo del palo nei minimi particolari.

    Era sufficiente fingersi disinteressato a tutto quello che mi circondava, evitare di girarmi e fare rotolare gli occhi dietro a un bel culo, stare attento a non andare in escandescenza se un cafone lampadato se ne fosse infischiato delle strisce pedonali o del semaforo fisso sul rosso. Bastava drizzare le orecchie e immaginarsi con un gigantesco radar al posto delle corna.

    Così aveva detto. E poi avevamo scopato.

    Quel giorno era successo due volte. Anna chiedeva sempre la replica e per me, quasi quarantenne e con qualche migliaio di Marlboro finite in cenere fra le mie labbra, era stato un mezzo miracolo.

    Lo so. Porto bene i miei anni.

    La maggior parte delle persone mi chiede se io abbia trentatré o al massimo trentaquattro primavere. Alla domanda rispondo che ne ho trentotto, aggiungendomi quell’anno in più che mi illude di avere preso per il culo il tempo. Del resto, se non avessi dimostrato qualche anno di meno, con Anna non avrei avuto nessuna possibilità.

    Era estate, all’inizio.

    Avevo in tasca qualche soldo in più del solito perché mi ero venduto la camera dei miei genitori a prezzo di realizzo: armadio a specchio, cassettiera, letto con materasso praticamente nuovo, giraffa di un metro in teak dipinta a mano e cassapanca in legno massello. L’avevano comprata senza lesinare spese, appena andati in pensione. Qualche mese dopo si erano accorti di vivere in un paese senza prospettive e che, le loro misere mensilità da mille euro scarsi, non sarebbero state sufficienti nemmeno per pagarsi una callista decente. Senza fare troppi calcoli erano partiti per il Portogallo, sistemandosi in un monolocale vista mare con il riscaldamento a gettone. A me era rimasta la casa e la promessa di andare a trovarli a spese loro almeno una volta l’anno.

    Il primo Natale mi ero rifiutato e li avevo fatti tornare per una settimana.

    Il secondo e il terzo mi ero prenotato un volo low cost ed ero andato a Lisbona a raccontare che tutto andava bene, mentre i pezzi dell’arredamento prendevano via via la porta verso destinazioni nuove e i soldi del mio conto in banca cominciavano a finire.

    Per rispetto del cuore di mio padre, fatto a pezzi dalla diastolica trascurata per vent’anni, e per non cozzare contro il brutto carattere della mamma, raccontai balle fino allo sfinimento, fingendo di essere ancora il capo dell’ufficio personale alla ditta di sacchetti e di avere una fidanzata fissa, rimasta ogni volta a casa per certi problemi in famiglia, dovuti alla demenza senile della povera nonna e a certi intoppi con la commercialista.

    E proprio perché avevo qualche soldo in più quel pomeriggio ciondolai per le vie del centro, trovandomi a fissare le vetrine delle mutande in franchising e dell’high tech con la medesima, preoccupante indifferenza. Mi permisi una prima birra e poi una seconda, feci un pensierino per un paio di pantaloni nuovi e mi portai a casa per quindici euro un vinile degli Osanna: Milano Calibro 9, con Luis Bacalov che aveva scritto un capolavoro e loro che avevano dato la dannata sensazione di sapere sempre dove mettere le mani.

    Stanco e con il traffico che si stava innervosendo, controllai l’elenco prezzi sulla bacheca all’esterno, mi infilai per sette euro alla mostra fotografica di Elliot Erwitt e provai due brividi: il primo per l’aria condizionata spinta fino alle estreme conseguenze e il secondo per lei, Anna.

    Fissava la foto del ragazzino nero con la pistola puntata alla tempia: sorriso sghembo, camicia a quadri e pantaloni tenuti sotto le ascelle con le bretelle.

    Lei invece era bellissima.

    Si era truccata, non so come, con un ombretto che esasperava la profondità degli occhi, e la bocca era fotografata in un’espressione stupita e la pelle riluceva sotto quei faretti che avrebbero messo in imbarazzo mezza umanità e la maglietta leggera, di un rosso amaranto fuori moda, la proiettava di diritto nella sezione speciale delle meraviglie e…

    E attaccò discorso lei, senza che nemmeno dovessi inventarmi un passato da legionario, un portafoglio gonfio come lo stomaco di un ruminante o uno yacht ormeggiato nel porto più vicino. A quel punto il sacchetto con il disco mi parve fastidioso.

    Meglio l’altra, non ti pare? Inclinò la testa in direzione del pannello a fianco.

    Il bambino, questa volta bianco e biondo, era fotografato dietro al vetro di un’auto bucato da un proiettile. Nel centro del piccolo foro e della ragnatela che si dipartiva in un’infinità di diramazioni, si nascondeva l’occhio destro del bambino, mentre il sinistro esprimeva assieme preoccupazione e tristezza. La mezza figura inclinata descriveva un angolo di trenta gradi circa, nobilitando ancor più l’inquadratura.

    Non so. Mi sforzai di non sembrare troppo accomodante. Anche quella del soldato con gli occhiali a specchio mi sembra un bello scatto…

    Te ne intendi? Si girò, provocandomi contemporaneamente imbarazzo ed eccitazione.

    Be’ no, ma il senso del bello dovremmo averlo tutti innato, o almeno spero.

    Anna lanciò un’occhiata alla foto dei soldati. Hai ragione, ha un bel tiro pure questa. La superò facendo scorrere il dito sulla superficie del vetro. Perdigiorno?

    In che senso? Il suo sorriso arrivò abbastanza in ritardo da farmi preoccupare.

    Nel senso che hai il pomeriggio libero, si vede. Chi oggi ha lavorato sta cuocendo in macchina o si sta strozzando di noccioline al bar. L’arte, le foto i quadri, non gli importa niente a nessuno, ormai…

    Effettivamente, guardandosi intorno, il grosso salone era immerso dentro un’atmosfera post-atomica, fatto salvo per un inserviente che si stava scaccolando all’interno del profondo passaggio, convinto di non essere visto. Be’ sì, disoccupato in cerca di stimoli.

    Essere disoccupati è una grande opportunità, non credi? Se hai un po’ di amor proprio leggi, vai al cinema, ti diletti per sembrare qualcosa di meglio. Vai alla mostra di Elliot Erwitt…

    Quella c’era, pensai di rispondere, ma ritrattai con qualcosa di più leccato. Avevo visto un documentario una volta e allora son venuto a dare un’occhiata…

    Finse di assecondarmi, ma si vedeva che mi stava prendendo in giro.

    I miei pensieri, confusi come se fosse esplosa una bomba a mezzo metro dalla mia trincea, si arenarono in una palude pericolosa. In quelle acque melmose, di solito, le belle donne sanno muoversi come coccodrilli mentre gli uomini fanno spesso la figura degli agnelli affondati nel fango. Il Cristo in croce con il pannello pubblicitario della Pepsi sullo sfondo, mi colpì come un calcio nelle palle.

    Ho un’amica che fotografa. Ha un talento assurdo. Sta con un fotografo di modelle e gli ha rubato il mestiere come nessuna.

    3-2-1-0. Nessuna risposta intelligente da dare, senso dell’umorismo in ritirata e simpatia ai minimi storici. Quando la vidi sommergermi con i suoi enormi occhi neri, mi resi conto che le dovevo una risposta. Ah sì? E come si chiama?

    È molto bella. Rise. Sempre, sistematicamente strafatta, ma pur sempre molto bella.

    Persi il controllo: ormeggi saltati, acqua nella stiva e fiamme sul ponte. A guardare bene pareva di intravedere un calamaro gigante aggirarsi tra i marosi. Anche tu lo sei…

    Nastassja.

    Mi passai la mano sui pantaloni per asciugare il sudore e gliela sporsi. Jacopo…

    Le labbra rosse si dischiusero in un bel sorriso. Tutta l’arcata superiore dei denti si mise a brillare dietro al rossetto.

    Anna!

    Scossi la testa dietro uno sguardo ebete, come se mi avessero aspirato il cervello con una cannuccia.

    Nastassja è la mia amica molto bella e io sono Anna.

    Okay, Anna. Prendiamo un aperitivo? Quella cosa delle noccioline che ti strozzano mi ha fatto venire fame.

    E Elliot?

    Scusa?

    L’uomo con la testa di cane, la ragazza dietro al bicchiere, l’alano con il chihuahua. Mi guardò con occhi severi. Tutta la serie con Che Guevara? Niente, non ti interessa più niente?

    Come se un dio cattivo avesse messo una moneta nel mio cranio per farmi fare la peggiore della cazzate, lasciai che un’occhiata andasse a ficcarsi nell’infossatura dei seni che compariva nel gioco di luci e ombre della maglietta.

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