Istantanea di una farfalla
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Istantanea di una farfalla - Alessandra Giardinieri
Alessandra
PROLOGO
Una lacrima scende giù per la guancia. Brucia.
Sono stupita e turbata dalla sensazione di tanto calore, concentrato in un minuscolo punto della pelle.
Sorrido. E, per un attimo, mi ritrovo ad ironizzare per una fantasia tanto sciocca in un momento come questo.
Un lampo, e gli occhi di nuovo severi osservano il riflesso stampato sulla finestra, un fermo immagine duro e spietato su una vita spezzata.
Fuori è buio. Piove. Rimango immobile a fissare una goccia che, sola, solca il vetro e segue un percorso tortuoso per arrivare a terra.
– Sembra la storia della mia vita. Cin cin. – Alzo il bicchiere e brindo, cinica, senza bere.
Lo rimetto giù.
Il cervello mi comanda di lasciarlo cadere a terra, ma la mia mano non molla la presa, in una lotta impari tra due titani.
Un sorriso sprezzante mi attraversa la bocca e fa fremere un angolo delle labbra.
Ma è solo un momento.
Di nuovo una lacrima. E questa volta sento che scivola incerta e si sofferma un poco, come presa da chissà quale ostacolo.
Difficoltà insormontabili ovunque. Non riesco a trovare una strada. Mi sento soffocare.
Intorno a me avverto solo il brusio di quelli che vogliono per forza darmi consigli su come comportarmi, e vorrebbero spingermi ad andare avanti, a non rimanere immobile.
– Datti da fare, Ivonne. Rimettiti in carreggiata, Ivonne. Tu sei una tipa tosta, non è da te mollare. – Divago in maniera farneticante.
Pensieri senza senso, in un caos a tutto tondo.
Angela me lo dice sempre che io rumino, rumino, rumino.
Sì, è vero. Non è che non abbia ragione.
Basta un nonnulla per farmi entrare in un turbinio di pensieri, un vortice di ricordi, anche di un’estrema banalità, ma tanto sovrapposti da rievocare alla mente quel mucchietto di foglietti azzurri impilati in maniera maniacale dalla signora Cesira, quella della droghiera non lontana da casa.
Me la ricordo come se fosse qui, ora.
Vestita tutti i giorni con lo stesso camice da lavoro amaranto, inamidato a puntino.
Mi sono sempre chiesta se ne avesse una collezione.
Era sempre pettinata perfettamente, con i capelli da pin- up, raccolti sulla nuca con due forcine luccicanti di strass a basso costo, unico vezzo di una donna che, ai miei occhi di bambina, appariva vecchia e in gabbia, seduta dietro a quel piccolo bancone tondeggiante vicino all’uscita.
La guardavo curiosa dalla mia posizione privilegiata, posta più in basso rispetto alla sua mole di donna di altri tempi. Schermata al suo sguardo dal fianco di mia madre, all’epoca porto sicuro dal mondo degli adulti, la osservavo e cercavo di cogliere nei suoi occhi un bagliore di vita, in un’esistenza che, invece, appariva estremamente triste.
Per tanto tempo, ho creduto che fosse monca della mano sinistra perché, come un automa, usava solo quella destra.
La mano, immobile e mollemente appoggiata sulla divisa impeccabile che le scendeva sulle gambe, era come trattenuta da chissà quale forza misteriosa posta sotto il minuscolo bancone.
L’altra al contrario, per una sorta di contrappasso, si agitava avanti e indietro, nel movimento, quasi rituale, dell’impilare quei rettangoli azzurri su di uno spillone, stancamente e inesorabilmente per tutto il giorno.
Avrei voluto chiederne qualcuno di quei foglietti per farne una collezione ma, all’epoca, ero troppo timida anche solo per guardarla in viso.
Eppure, quel semplice e fugace incontro con le sue rughe e gli occhi tristemente all’ingiù, mi faceva volare in un mondo tutto mio, composto di domande senza alcuna risposta.
Non riuscivo a capacitarmi come una persona, che ai miei giovanissimi occhi non sembrava tanto più vecchia di mia madre, così diversa da lei, riuscisse a sopravvivere tutto il giorno, seduta in quel modo, e soprattutto come non scoppiasse di noia, a forza di muoversi avanti e indietro, come presa nel meccanismo di una catena di montaggio.
E intanto i piccoli ritagli azzurri smettevano di essere centinaia, per diventare un unico blocco, da non raccapezzarsi più sul perché fossero stati messi proprio lì.
Un giorno, avevo circa dieci anni, nella drogheria era entrato un signore che non avevo mai visto, molto distinto e galante nei modi.
La Cesira, costipata sul viso e balbettante, per un attimo aveva avuto un movimento lieve che aveva rivelato la presenza dell’arto mancante.
Il che mi aveva fatto letteralmente saltare e rivedere la visione che avevo di lei.
Fu allora che immaginai, con uno sforzo pindarico, che la donna avesse deciso di compiere volontariamente l’immane sforzo di rimanere ferma con il braccio e la mano sinistra, spinta da chissà quale fioretto a San Francesco.
Del resto, questo capitava anche a me quando, avendo bisogno di un ʺaiutinoʺ per una sfilza di necessità, mi raccomandavo lagnosamente ai Santi più disparati per far innamorare il più bello della scuola, per non subire un’interrogazione molesta o per ottenere il permesso di non andare alle lezioni di danza.
E avevo maliziosamente sorriso all’idea che fosse bastata una distrazione (e che distrazione!) per far scomporre la Cesira, rivelandone un ardore inaspettato sotto la cenere della sua esistenza sempre uguale a se stessa.
Non so da quanto tempo sto così, in piedi, davanti al vetro. La mia camera è inondata dal buio. Eppure, mi sento avvolta e protetta dentro la mia coperta di Linus.
Nessuno può vedermi ed accorgersi di me. Sono invisibile. Un brivido di piacere mi percorre la schiena.
Con gli occhi fissi oltre la finestra, come una falena, sono attirata da un bagliore ad intermittenza. Mi attrae ed io mi lascio catturare, ammaliata da un colore così caldo e rassicurante.
Non avevo mai fatto caso che il marciapiede di fronte, di giorno sempre brulicante di persone e pieno di vita per il viavai dovuto alla fermata della metropolitana, a notte fonda fosse comunque attraversato da sconosciuti che, in questo momento, ai miei occhi, si rivelano anime in pena del Purgatorio.
Effettivamente, affaccendata a scrivere tesine e preparare lezioni per l’indomani, non mi sono mai accorta della frenesia notturna, immaginando, al contrario, che, calato il velo scuro sulla città, il quartiere ritrovasse la calma ed assaporasse il riposo dei ʺgiustiʺ.
Il rumore sordo di ferraglia del camion per la raccolta della spazzatura mi riporta alla realtà.
– Ecco, l’ho fatto di nuovo. La testa ha ricominciato a correre nella prateria dei miei pensieri e non accenna a fermarsi. Sto scoppiando. –
Mi giro lenta e la mia scrivania, coperta da tutti quei fogli, pieni di appunti scritti a mano che tanto fanno ridere Brando, misticamente mi ricorda l’altare illuminato in fondo ad una chiesa.
– Dovrei decidermi ad utilizzare il computer. Brando me l’ha regalato da diversi mesi ed io, a malapena, ho capito come impostare la pagina. – Sospiro mesta.
Mi prende in giro ogni santo giorno.
Non si capacita come sia possibile che una donna contemporanea e così piena di interessi ed attenta alle novità di ogni genere, sia totalmente refrattaria all’uso di un tale ausilio.
Sorride incredulo e gesticola con gesti ampi e teatrali ed io non so dove guardare.
Arrossisco e non riesco a distogliere lo sguardo, saltellando con gli occhi tra i suoi denti, così perfetti come dei confettini messi in fila l’uno vicino all’altro, mentre contemplo le sue mani aristocratiche nel loro movimento da consumato pianista.
Di nuovo gli occhi si fanno umidi ma, stavolta, ne segue un rivolo muto.
– Continuo a parlare al presente e non dovrei. –
Dentro di me scoppia il boato di un urlo, come un terremoto che squarcia il sonno e si porta dietro un dolore, fatto di silenzio e morte.
Mi accascio, seduta sul bordo del letto, inebetita e con lo sguardo fisso su una piccola foto, scattata davanti a quel vecchio rifugio per alpinisti, di cui ora non riesco nemmeno a ricordare il nome.
Sguardi felici, soltanto leggermente intimiditi da una fotocamera troppo vicina, per essere propriamente naturali.
In realtà, a ben vedere, gli occhi di Brando rivelano un bagliore divertito e compiaciuto, ben sapendo che, nell’attimo dello scatto, non avrei potuto divincolarmi per togliere la sua mano insinuatasi a forza, e chissà come, sotto la mia camicetta leggera.
Istantanea di un atomo di vita, di un fremito durato un’eternità ma, al tempo stesso, rapido e fugace come il batter d’ali di una farfalla.
CAPITOLO 1
– Ivonne, dove sei? Sbrigati, dannazione! Ti sto chiamando da un’ora e sento sempre l’eco della tua segreteria telefonica. Corri, sta per iniziare il seminario. Sono arrivati quasi tutti. Manchi solo tu! –
Apro gli occhi con un calma estrema, mi stiracchio come un felino steso al sole all’ora della siesta, e vengo attirata da un uccellino intirizzito, appoggiato sul davanzale della mia finestra, che sembra avvolto in un paltò giallo e verde più grande di lui.
Non la smette di pigolare.
Forse ha fame, ma è troppo pigro per alzarsi in volo in un clima così rigido. E io sorrido sorniona, al pensiero di essere ancora nel mio letto caldo.
Salto tra le coperte. Il cuore impazzito e gli occhi strabuzzati come quelli di un muppet.
In una frazione di secondo, guardo la sveglia e mi rendo conto del mio ritardo.
– Proprio oggi! –
Afferro il cellulare, cercando di capire dove questo strumento infernale abbia miseramente fallito nel suo compito di suonare alla giusta ora.
Sette messaggi in segreteria. E tutti di Angela. Nemmeno li ascolto.
– So già cosa mi avrà tuonato. – Bofonchio con lo sguardo accigliato e preoccupato nello stesso tempo.
Mi infilo nella doccia e ne esco in tre minuti. Lavare i denti, infilare un tailler preso a caso dall’armadio, passare il kajal sugli occhi e, almeno, stendere un velo del mio rossetto preferito: un’operazione di cinque minuti.
– Non ho tempo di andare con la mia macchina. Troppo traffico. Vada per il taxi. Almeno in auto avrò il tempo per ripassare il mio discorso di apertura. Oddio che figuraccia. Il mio primo intervento da coordinatore ed io arriverò in ritardo. La Facoltà non mi affiderà altri incarichi. –
– Ma dove eri finita? – Urla a bassa voce Angela, tirandomi per un braccio, pensando di passare inosservata per il sorriso stampato a bella mostra sul viso contratto. – Ti stanno aspettando tutti. Non sapevo più come intrattenerli. Ho dato fondo a tutti i riassunti possibili sulle esperienze che abbiamo sviluppato, per non farli interrogare sul tuo ritardo. –
La guardo in faccia, lei che gesticola con le sue espressioni buffe dettate da un quasi impercettibile strabismo di Venere, ed io stralunata al punto giusto, con i capelli ancora più ribelli del solito, come i peli della schiena di un gatto terrorizzato.
Farfuglio parole senza senso, mentre entro a grandi passi nell’aula gremita di persone, tutte con lo sguardo interrogativo rivolto verso di me.
– Penseranno che sono una pazza. Beh, effettivamente maturerei anch’io questa idea. –
Il pensiero di me, come una donna vittoriana affetta da isteria, mi fa sorridere e la tensione si scioglie un poco.
Questo è sufficiente per darmi modo di ricompormi, assumendo una posizione più eretta e meno scimmiesca.
Allontano una ciocca di capelli penzolante sopra il mio naso e, lentamente, appoggio il materiale sul tavolo.
–