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Italia o morte
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Italia o morte

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Il 12 settembre 1919 Gabriele D’Annunzio occupa con un migliaio di uomini il porto adriatico di Fiume. In pochi giorni il suo esercito di “disertori” si moltiplica.
È una sfida al mondo intero.
Nei mesi precedenti all’Impresa umana una serie di discorsi, scritti e poemetti del Vate, che vennero raccolti nel volume Il sudore di sangue (Mondadori, 1931), testimonia il senso di appartenenza, nonché l’arditismo e l’italico furore che consentì alle legioni di D’Annunzio di occupare Fiume. Italia o morte è il più attuale, denso, e significativo tra questi ed è il fulcro della selezione qui proposta.
In un momento storico in cui l’amor patrio viene vilipeso di continuo, vale la pena di riflettere sugli uomini e sulle gesta che permettono tutt’ora al popolo italiano di affermare il proprio orgoglio.
LanguageItaliano
Release dateFeb 19, 2019
ISBN9788832521757
Italia o morte
Author

Gabriele D'Annunzio

Gabriele D’Annunzio (1863-1938) was an Italian poet, playwright, soldier, and political figure. Born in Pescara, Abruzzo, D’Annunzio was the son of the mayor, a wealthy landowner. He published his first book of poems at sixteen, launching his career as a leading Italian artist of his time. In 1891, he published his first novel, A Child of Pleasure, followed by Giovanni Episcopo (1891) and L’innocente (1892), which earned him a reputation among leading European critics as a member of the Italian avant-garde. By the end of the nineteenth century, he turned his efforts to writing for the stage with such tragedies as La Gioconda (1899) and Francesca da Rimini (1902). Radicalized during the First World War, D’Annunzio used his experience as a decorated fighter pilot to spread his increasingly nationalist ideology. In 1919, he spearheaded the takeover of the city of Fiume, which had been ceded at the Paris Peace Conference. As the leader of the Italian Regency of Carnaro, he sought to establish an independent authoritarian state and to support other separatist movements around the globe, but was forced to surrender to Italy in December 1920. Despite his failure, D’Annunzio inspired Mussolini’s National Fascist Party, which built on the violent tactics and corporatist system advocated by the poet and his allies. Toward the end of his life, D’Annunzio was named Prince of Montenevoso by King Victor Emmanuel III and served as the president of the Royal Academy of Italy.

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    Italia o morte - Gabriele D'Annunzio

    GABRIELE D’ANNUNZIO

    Italia o morte

    Italia o morte

    Gabriele D’Annunzio

    © Idrovolante Edizioni

    Tutti i diritti riservati

    Direttore editoriale: Roberto Alfatti Appetiti

    Responsabile attività editoriali: Daniele Dell’Orco

    1a edizione – settembre 2018

    www.idrovolanteedizioni.it

    idrovolante.edizioni@gmail.com

    Saggio introduttivo

    contro le ingiustizie,

    a difesa del tricolore

    Un redivivo Giolitti lancia l'ultimatum.

    Il Vate parla per tutti: la Fiume redenta non si abbandona. Un avamposto di ordine, giustizia e rettitudine strappato dai disertori in avanti, come li chiamò Marinetti, al cannibalismo delle iene inglesi, americane, francesi. Un manipolo di soldati aveva cercato di riprendersi quello che i diplomatici avevano sacrificato sull'altare di Versailles. E che i politici avevano ignorato con viltà. Almeno fino al 25 agosto 1919, quando i Granatieri di Sardegna, allontanati dalla città per aver difeso le donne italiane col tricolore strappato dai democratici d'Oltralpe, scrissero a D'Annunzio:

    Sono i Granatieri di Sardegna che Vi parlano. È Fiume che per le loro bocche vi parla. Quando, nella notte del 25 agosto, i granatieri lasciarono Fiume, Voi, che pur ne sarete stato ragguagliato, non potete immaginare quale fremito di entusiasmo patriottico abbia invaso il cuore del popolo tutto di Fiume… Noi abbiamo giurato sulla memoria di tutti i morti per l'unità d'Italia: Fiume o morte! e manterremo, perché i granatieri hanno una fede sola e una parola sola. L'Italia non è compiuta. In un ultimo sforzo la compiremo.

    Il Vate è un uomo fuori dal tempo. Scultore di parole, mette su carta solo quello che non può tradurre in azione. Che poi azione lo diventa comunque, negli spiriti di chi legge.

    Lui però, che vive di estasi e di estetica, che la modernità lasciata in eredità dalle macerie e dai massacri sistematici della Prima Guerra Mondiale non la comprende, o meglio la rifiuta, con tutto il suo volgare e freddo calcolo, vuole ancora combattere. Non importa che siano imprese facili, difficili, utili, pindariche. Lui ha volato su Vienna, ha perso un occhio sui cieli di Grado, ha beffato il naviglio austro-ungarico a Buccari. Nel cuore di D'Annunzio il bello incontra il giusto. E cosa c'è di più estatico che difendere dal giogo straniero i civili dimenticati dai salotti del potere?

    Il Comandante parte.

    Il 12 settembre 1919 saluta la Santa Entrata a Fiume:

    Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile, Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione... Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, credo di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d'Italia proclamando l'annessione di Fiume.

    L'italietta di Nitti, però, è concettualmente incapace di comprendere l'eroismo. Non avrebbe riconosciuto un eroe nemmeno se si fosse presentato sul Vittoriano volando avvolto da un mantello rosso. Per tutta risposta taglia i viveri ai compatrioti, colpevoli di aver voluto gridare Viva l'Italia. A Nitti, al contrario, la capacità di discernere un traditore non è mai mancata. Nomina commissario straordinario per la Venezia-Giulia, con il compito di risolvere la situazione, un certo Pietro Badoglio.

    Quel Pietro Badoglio. Il nuovo commissario straordinario fa gettare dei volantini su Fiume in cui si minacciano i legionari di essere considerati disertori e quindi di poter essere puniti dai Tribunali militari. I patrioti che vengono tacciati di diserzione dai traditori. Un classico.

    A maggio del 1920 torna al governo, si diceva, Giolitti. Impaurito dai tentativi, veri o presunti, di rovesciarlo che avevano come base proprio la Reggenza del Carnaro, si affretta a firmare il Trattato di Rapallo con la Jugoslavia e a spedire l'esercito per cacciare a suon di bombe i legionari da Fiume, il 24 dicembre.

    Il giorno dello stallo.

    Le truppe regolari marciano verso Fiume lungo i binari ferroviari. Il poeta ordina ai suoi uomini di ripiegare verso la città. Vuole un conflitto, ma semmai con il vomito dell’avvoltoio, ossia la vecchia Austria, o con i guardiani di porci slavi, non certo contro l’esercito della sua amata Patria. Verso sera, con gli ufficiali comunque pronti alla battaglia, un’esplosione scuote il ristorante in cui tutti si ritrovano per cenare. D’Annunzio aveva fatto saltare in aria il ponte che conduceva a Sussak. Le unità fiumane, impazienti, posizionano i mitraglieri sulle terrazze affacciate sulla strada e rimangono in attesa ascoltando una donna che, in una casa vicina, canta una canzone degli Arditi.

    Quella notte iniziano i combattimenti che nell'estetica di D'Annunzio significano gloria. E sangue, certamente. Ma sangue versato per una giusta causa. Si rivolge di continuo alle truppe, ordinando loro di andarsene se non fossero state felici di essere massacrate. Deplora i soldati dell’esercito regolare che avevano incrudelito sui morti per sconfiggere i fratelli italiani. Si lancia in una serie di litanie:

    A chi la vittoria? A noi! A chi la vittoria? Agli eroi!

    Nel più profondo dell'animo, però, resta un uomo da prima linea. Non certo uno stratega. Mentre la battaglia imperversa, il Vate è frenetico. Corre verso i proiettili, è votato al martirio. Cerca la bella morte. Solo l'intervento degli ufficiali gli impedisce di uscire dal Palazzo del governatore. Invia dei messaggi alla Divina Marchesa, Luisa Casati, sua moglie.

    Nelle prime ore della mattina di Natale le scrive che gli assassini, come chiama le truppe lealiste, avrebbero attaccato alle sei e mezzo e che Fiume avrebbe resistito. Non sarebbe occorso molto tempo. L’avrebbe raggiunta per pranzo.

    Un ottimismo totalmente infondato.

    La mattina del 25 dicembre, la cavalleria regolare attaccò dalle colline sopra la città, sbaragliando la resistenza degli Arditi a cavallo. Nel porto comparvero alcune torpediniere, con le mitragliatrici puntate sui moli. Alla periferia di Fiume, gli Arditi spararono dalle case contro soldati accovacciati dietro muretti. Quando fu colpito un arsenale, si scatenò un’esplosione devastante. Una nuvola di fumo nero oscurò il mare. Quel pomeriggio, D’Annunzio pianse per i legionari morti e feriti, e scrisse a Luisa che da quel momento in poi l’avrebbe amata ancora di più, perché il dolore acuisce e ravviva l’amore. Nonostante il fuoco e il rumore, tuttavia, si trattò di una battaglia tiepida. Gli ufficiali di entrambe le parti rovinarono l’effetto sorpresa urlando avvertimenti al nemico e implorandolo di non avanzare: non volevano essere costretti a sparare. Comisso regalo la rivoltella a un amico, affermando che non avrebbe potuto usarla a distanza perché non aveva una buona mira, e da vicino avrei abbracciato il mio avversario. In tre giorni di combattimento furono uccisi trentatré uomini in totale¹.

    Verso la sera del 26, quando il tramonto, come osserva D’Annunzio, tinse il mare e il cielo di rosso sangue, la nave da guerra Andrea Doria spara contro il Palazzo. Una granata frantuma una finestra dell’alloggio del Comandante ed esplode nella stanza sotto quella in cui si trovava il poeta. Lui, seduto a un tavolo, viene scagliato via e resta temporaneamente tramortito. Viene trasportato in una casa invisibile dal lungomare, ma quando i civili lo vedono, ferito, pensano che non ci sia più nulla fare.

    L'idolo è caduto.

    Le donne bussano alla porta del sindaco, implorando di persuadere il poeta ad arrendersi per risparmiare i bambini, prima che le granate continuino a piovere. Questi, il vescovo e i membri del Consiglio nazionale supplicano il poeta di salvare la città e i suoi abitanti ammettendo la sconfitta. Lui esita. Tom Antongini, in Vita segreta di Gabriele D'Annunzio, sostiene che, incapace di prendere una decisione, il Vate abbia fatto testa o croce.

    Aveva spronato la folla centinaia di volte a urlare: Fiume o morte!, Italia o morte!. Si era preparato al pensiero di combattere fino alla fine: le truppe italiane che entrarono a Fiume in seguito trovarono munizioni sufficienti perché la Legione continuasse a sparare per settimane. La morte eroica che D’Annunzio aveva vagheggiato così spesso era imminente. La corona del martire era già sospesa sopra la sua testa. Tuttavia, quando i cannoni dell’Andrea Doria si apprestano a sparare ancora, il lancio della moneta risulta favorevole alla capitolazione. Fiume si risparmia il tragico splendore. L’apostolo della morte e della gloria è costretto a scegliere la vita: L’ho offerta cento e cento volte nella mia guerra, sorridendo dice, e ha ragione. Sarebbe stato lieto di morire, aggiunge, ma il popolo italiano, distratto dalle gozzoviglie natalizie, è indegno di un simile sacrificio. Non aveva mai creduto che gli italiani avrebbero fatto fuoco contro di lui.

    Quando lo fecero, perse in un istante sia la magica invulnerabilità che gli aveva permesso di passare incolume tra l’esercito nemico nel giorno della Santa entrata sia la capacità di ingannare se stesso. Quasi un anno esatto dopo che i fiumani avevano espresso con il plebiscito la riluttanza a sacrificarsi per lui, la bomba dell’Andrea Doria infrange l’illusione della loro remissività. I legionari depongono le armi con riluttanza. Furiosi per il tradimento del loro popolo, si chiedono come abbiano potuto le truppe italiane accettare di combattere contro di loro? Perché gli italiani non abbiano protestato contro l’attacco? Perché abbiano permesso che i fiumani venissero massacrati?

    Si strappano i galloni dalle uniformi e li sostituiscono con i francobolli di Fiume. D’Annunzio li raduna nella piazza principale. Il cielo è cupo. Vedendo il vessillo che aveva donato alla Disperata, si ferma e ordina agli uomini di tenersi pronti.

    Una voce risponde: Ma non abbiamo ancora fatto niente, Comandante!.

    E non c'è più nulla da fare.

    Il 2 gennaio D’Annunzio guida un corteo funebre formato da diverse migliaia di persone fino al cimitero sulle alture sopra la città per rendere omaggio e degna sepoltura alle bare dei 33 uomini uccisi durante il Natale di sangue.

    Al momento del suo addio alla città, il 18 gennaio 1921, non sono in pochi gli ufficiali ad abbandonarsi al pianto. Il leader del fascio di Trieste supplica per avere il permesso di inginocchiarsi tra la polvere sul ciglio della strada e baciargli le mani. Quella sera, tra la nebbia e il freddo, approda a Venezia. Non vuole riposare. Ha bisogno di continuare una lotta tutta sua. Un'avventura tutta sua. Il Notturno, iniziato quando era rimasto cieco cinque anni prima, deve essere rivisto e ampliato. Aveva ancora fame di piacere, quel piacere estatico che traeva dall’esercizio delle proprie doti letterarie: Avido di silenzio dopo tanto rumore, e di pace dopo tanta guerra scrisse a De Ambris.

    Nel 1931 Mondadori raccoglie in un lavoro di Giorgio Zanetti dal titolo Il Sudore di sangue, scritti, discorsi e poemetti del Vate. Della selezione che abbiamo voluto riscoprire, dei versi scritti nei mesi immediatamente antecedenti alla presa di Fiume, il titolo scelto è come il più attuale e significativo tra tutti: Italia o morte. D'Annunzio, a 80 anni dalla scomparsa, dispensa patriottismo.

    Quello di cui l'Italia, giovane eppure stanca, eccellente eppure disunita, straricca eppure depredata, avrebbe davvero bisogno. Le giornate di guerra civile fiumana sono ben lontane, ma oggi come allora il fronte interno è tutt'altro che chiuso. E pure l'essenza dello scontro è sempre quella: calcolo contro eroismo, bellezza contro diplomazia, Italia contro antitalia.

    Il palio però c'è la sopravvivenza, di tutti. Di tutto un popolo che ha dimenticato cosa possa significare essere comunità. E che, il tricolore, è tornato ad ostracizzarlo, nella peggiore e vile tra le ingiustizie. Quella che il Vate avrebbe combattuto fino alla bella morte che non ha avuto.

    D’Annunzio una volta disse: Dove sono io, c'è l’Italia. Un inno alla motivazione, alla lotta, alla resurrezione. All'amore. Disperato, ma pur sempre amore.

    Daniele Dell'Orco


    1 Lucy Hughes-Hallett, Gabriele D’Annunzio: l’uomo, il poeta, il sogno di una vita come opera d’arte, Rizzoli, Milano 2014.

    avvertimento del proscritto invitto

    Lascio raccogliere i miei discorsi romani in cui è disegnata e preparata l’azione che oggi conduco e che condurrò sino al termine prefisso. Sono documenti di perfetta unità interiore, cioè di stile.

    Non ho da togliere una parola né da mutare una cadenza. Il mio giudizio degli uomini e delle sorti è confermato. E, se niuno fu mai profeta in patria, io sono in patria profeta.

    Dell’aver molto parlato ho, davanti a me medesimo, fatto ammenda con l’aver molto operato.

    Volli la guerra, e la guerra feci senza respiro. Avendo incitato il popolo alla nuova lotta, ho preso nella nuova lotta il posto più pericoloso.

    Nessuno me lo toglierà. Come fui capo nella battaglia, sarò capo nella piazza e in qualunque altro luogo.

    Preferisco la più cupa sciagura all’onta di una Italia dove ogni giorno è derisa

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