Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Dimentica la notte
Dimentica la notte
Dimentica la notte
Ebook367 pages5 hours

Dimentica la notte

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

È decapitato. Appeso al soffitto di un locale, la posizione macabra del corpo che ricorda vagamente quella di un Cristo crocifisso. È solo un ragazzo. È la prima vittima, e forse non sarà l'ultima. A Rimini, mentre l'arrivo della primavera sta per portare via gli ultimi ricordi del freddo invernale, il caso viene affidato a Noelia Basetti, giovane ispettore di polizia. Quando, dopo pochi giorni, un altro ragazzo viene ucciso, prende corpo l'ipotesi di un serial killer, di un assassino mostruoso e smisurato, di una mente fredda divorata da un odio primordiale. In una gara spietata contro gli eventi, Noelia Basetti dovrà scandagliare il passato delle due vittime, e nel frattempo tentare di penetrare nella mente dell'omicida.
LanguageItaliano
PublisherAlter Ego
Release dateFeb 5, 2019
ISBN9788893331388
Dimentica la notte

Related to Dimentica la notte

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Dimentica la notte

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Dimentica la notte - Sara Ferri

    Rossetti)

    Prologo

    La strada scivola veloce mentre la radio diffonde le note di Youth of the Nation dei p.o.d., il suono camuffato dalle nostre risate che si diffondono nell’abitacolo. L’afrore che proviene dai nostri borsoni è così forte da obbligarmi a tenere il finestrino aperto.

    La mano di Anto si allunga per passarmi lo spinello. Inspiro una profonda boccata e l’aroma dolciastro della marijuana mi entra in gola, nelle narici, fino a spandersi in testa, pulsando a ritmo di musica. Una risata involontaria mi esce dalla gola, risultando grottesca alle mie stesse orecchie. Appena il fumo raggiunge lo stomaco, i morsi della fame si fanno più pressanti. In questo momento potrei mangiarmi un manzo intero.

    Mi sporgo leggermente in avanti per chiedere se qualcuno abbia voglia di una pizza. Avevo programmato di tornare a casa per cena, ma alla fine il gruppo ha prevalso. È stata sufficiente una veloce chiamata a mia madre per dirle che sarei rimasto fuori con i ragazzi.

    Faccio un ultimo tiro alla canna prima di sporgermi attraverso lo spazio tra i sedili e passarla a Jack, alla guida. Anto, però, seduto al posto del passeggero, è più veloce e l’agguanta per primo. La punta infuocata arde per alcuni secondi mentre aspira con avidità.

    «Passami ’sta canna, cazzo!» sbraita Jack.

    «Stai calmo, tocca a me adesso» risponde Anto.

    «Oh, ma stai fuori? È il mio turno. Passami quella canna o ti faccio scendere». Jack dà un piccolo strattone al volante, facendo sbandare l’auto.

    Nell’abitacolo le nostre risate sono accompagnate dal rumore degli pneumatici che stridono sull’asfalto. Il mio corpo ciondola in balia dei movimenti. Il suono delle nostre voci è come un cingolato su una strada acciottolata. Mi rimbalza in testa, stordendomi.

    «Cristo, sono fuori, ragazzi!» ammetto, voltandomi verso il finestrino e sbirciando il mio riflesso deformato. «Sembro uno zombie. E adesso cosa racconto a mia madre?».

    «Dille che ti è entrato lo shampoo negli occhi».

    L’idea di Anto suona così poco convincente da strapparci una risata fumosa. Anto tossisce fuori il fumo, in preda all’ilarità. Mi sporgo attraverso l’abitacolo.

    «Oh, lascia un tiro a Jack! Non ho altra Maria. Questa è l’ultima…».

    La mia voce richiama l’attenzione dei due, mentre le mie mani afferrano ciò che rimane dello spinello, ma quell’istante in più, quell’attimo di trambusto che si è creato, induce Jack a voltare la testa, distogliendo lo sguardo dalla strada.

    «Merda!» grida.

    Attraverso lo specchietto retrovisore, guardo i suoi occhi che si riducono a due fessure nel momento in cui incontrano qualcosa sulla carreggiata.

    «Attento!» strillo.

    Le mani di Anto corrono al volante, afferrandolo. «Frena, porca puttana!».

    È questione di attimi.

    Mentre il mio fiato esce caldo in quest’abitacolo fumoso e maleodorante, tutto cambia. Apro e chiudo gli occhi, nel momento in cui le risate vengono sostituite dalle grida. Il sorriso che muore in bocca, l’allegria che si spegne nei nostri visi, lasciando il posto al panico. Gli occhi di Jack sono piantati sulla strada. Sento spegnersi la sua risata, mentre il piede preme sul freno. Mi aggrappo al poggiatesta. L’auto cozza contro qualcosa che non riesco a vedere. Non so identificare il suono né la sua origine. I freni mordono l’asfalto, nel vano tentativo di fermare la corsa. Sento la testa seguire la direzione presa dalla macchina, che carambola per alcuni metri, spinta dalla forza centrifuga, prima di sbattere contro il marciapiede.

    L’auto oscilla, quindi si inclina. Sembra sfidare le leggi della fisica poi, finalmente, si ferma.

    Boccheggio.

    Riprendo il controllo dei sensi in tempo per capire se il pericolo sia ancora imminente. Non sento odore di benzina nell’abitacolo.

    Appena sono di nuovo in grado di farlo, mi muovo, sondando il mio corpo in cerca di danni. Mi rendo conto di non avere nulla di rotto, quindi apro lo sportello e mi lascio cadere fuori, appoggiandomi al marciapiede. Un conato acido, che a stento riesco a trattenere, mi risale in gola.

    Uno dietro l’altro i miei compagni mi seguono. La mano destra di Anto è appoggiata sul gomito sinistro, il braccio molle come quello di un fantoccio. Un taglio sulla fronte lascia colare un rivolo di sangue sulla sua faccia atterrita. Lo sguardo smarrito.

    Jack spalanca la portiera e si lascia scivolare fuori, arrancando fino al cordolo della strada. In ginocchio, la testa protesa nell’erba. I suoi conati echeggiano nel silenzio che ci circonda.

    Respirando a fatica giro intorno al cofano. L’urto ha piegato la carrozzeria di tutto il lato sinistro. «Jack?». Lo raggiungo, per controllare le sue condizioni. Qualche piccolo graffio e un ematoma che si allarga sulla guancia destra sono gli unici indizi di quanto accaduto.

    «Gesù, che cosa abbiamo colpito?» commento.

    «Ho visto qualcosa… sembrava uno scooter o una bicicletta, proprio sul bordo della strada. Io… io credo che tu l’abbia preso in pieno!» risponde Anto, rivolto a Jack.

    Chiudo gli occhi. Il rumore della lamiera che urta qualcosa, il fragore del metallo che si piega e un suono indistinto, ma che difficilmente dimenticherò, mi entra in testa: un urlo rapido e acuto. Una voce che non appartiene a nessuno di noi tre.

    «Puttana troia!». Incrocio il loro sguardo, imprecando.

    Jack, con fatica, si allontana dall’auto, diretto al campo che costeggia la strada.

    «Dove vai?» chiedo, correndogli dietro.

    Anto ci segue a distanza. I miei piedi percorrono i pochi metri che mi separano dal bordo erboso oltre il marciapiede. Il buio è così profondo da nascondere ogni cosa, ma, anche da qui, riesco a scorgere una sagoma.

    Quella che sembra essere la ruota di una bicicletta gira per inerzia in mezzo al campo. Un piccolo albero, lì a fianco, ha il tronco spezzato di netto. Avanzo nell’erba fino alle caviglie, quando la mano di Anto mi blocca.

    «Dove cazzo vai?».

    «Là sotto c’è qualcuno» rispondo senza nemmeno voltarmi. «Lo abbiamo preso in pieno. È là, anche se non si vede».

    Rimango fermo un istante. Non sono certo di voler vedere cosa si trova nell’erba. Mio Dio, non ci credo, potremmo davvero aver ucciso qualcuno.

    Al mio fianco, Jack scruta nell’oscurità davanti a noi. Il suo volto è di un pallore quasi irreale. «Hai ragione. Dobbiamo controllare».

    «Ci arresteranno…» mormora Anto, più al buio che a qualcuno in particolare.

    Lo guardo sconvolto. «Ma… è stato un incidente! Jack… Jack non lo ha visto!» urlo, la voce resa stridula dal panico. Mi muovo come in preda a un attacco epilettico, gracchiando contro il buio. I miei piedi fendono l’aria a colpire un immaginario avversario. Anto si avvicina cercando di placarmi. Lo strattono facendolo rotolare a terra.

    «Un incidente un cazzo! Stavo guardando dietro e poi… diciamolo: siamo tutti fuori! Abbiamo appena fumato la seconda canna. Appena arriveremo in ospedale la polizia ci farà le analisi. La Maria rimane in circolo per una settimana, lo sapete o no? Cosa credi che diranno i tuoi genitori?». La voce di Jack sembra quella di un automa. Si rivolge a me, gli occhi spalancati dalla paura. «E i tuoi? Tuo padre ti farà il culo!».

    Un singhiozzo strozzato mi esce mentre immagino nel dettaglio quanto accadrà a breve. Le parole di Jack diventano tangibili e quello che sembrava solo un incubo diventa realtà, spietata e senza uscita.

    La mia vita, e quella di tutti noi, sarà finita.

    «Quindi che facciamo?» chiedo.

    Jack, ora seduto a terra, mi rivolge uno sguardo carico di paura. Si prende la testa tra le mani ciondolando avanti e indietro, la voce ridotta a un sibilo, mentre singhiozza.

    Anto, carponi sull’erba, sembra soppesare la mia domanda. Poi, svelto, si mette in piedi e si dirige verso il campo.

    «Dove vai?».

    «Fammi dare un’occhiata».

    «E se ti vedesse e se fosse davvero ancora vivo? Ti riconoscerebbe!».

    «Smettila! Porca puttana, stai zitto! Non urlare o ci sentiranno tutti nel giro di dieci chilometri. Sposta la macchina, nel frattempo. Se passa qualcuno non deve vederci qui».

    In un impeto di paura corro verso l’auto e salgo, lasciando gli altri fuori. Il motore singhiozza mentre si accende; poi, sembra prendere i giusti giri e inizia a muoversi. La parcheggio poco distante, dietro un albero che la nasconde dalla carreggiata. Torno sui miei passi, ma Anto e Jack, in piedi sul ciglio, mi bloccano. Il colore è sparito dai loro volti.

    «È una ragazza. È… è giovane, ma non c’è più nulla da fare» dice Anto. Scuote la testa. «Merda».

    In questo momento, in questo preciso istante, mentre ognuno di noi è chiuso nei propri pensieri, tutto assume un aspetto diverso. Lo sento nell’aria, lo leggo dai loro occhi: la nostra vita compie un balzo in avanti. Approda dritta all’età adulta, a un’età in cui l’innocenza giovanile lascia il posto alla consapevolezza, alle conseguenze dei propri gesti.

    Mentre i nostri occhi si incontrano, in silenzio, lo avverto: siamo coscienti che quello che è appena successo ci legherà per sempre. Senza dire una parola, percorriamo i pochi metri che ci separano dall’auto. Mi lascio cadere sul sedile posteriore, come se il corpo, ora, portasse con sé il peso di quanto accaduto. Jack, di nuovo alla guida, accende il motore e si immette in strada.

    Un’ultima occhiata al marciapiede, prima di guardare di nuovo avanti. Una lacrima mi scorre lungo la guancia, giù, fino in bocca. Ha il sapore ferroso di una goccia di sangue.

    Rimini, 18 marzo 2016

    1

    La definizione in linea d’aria mi ha sempre dato un senso di vuoto, d’impotenza. Come di qualcosa che sia raggiungibile solo con il pensiero, un luogo dove approdare con la mente, e non con il corpo.

    Guardando a sud, al di là di quella distesa arida e secca di asfalto e auto, posso solo immaginarla, la mia città. Mentre io, qui a Rimini, mi districo nel traffico cittadino, mio padre ogni settimana mi aggiorna su tutto ciò che succede a Pesaro. Mi manca immensamente quella piccola metropoli, così provinciale nelle sue opinioni, così poco multietnica, così diversa da milioni di altre delle stesse dimensioni.

    Tuttavia, prima di partire per Rimini, ho notato piccoli ma inconfondibili segnali di cambiamento: di recente, Pesaro ha mostrato il suo lato oscuro. Un cancro marcescente che nessuno pensava di avere sotto il culo. I benpensanti hanno dovuto rivedere le loro opinioni, da quando anche la loro idilliaca città è stata interessata da una serie di omicidi.

    Senza rendermene conto mi sono ritrovata coinvolta in una scia di sangue, quella lasciata dall’assassino. La prima vittima, Arianna, era stata una mia compagna di scuola. La sua morte ha segnato il punto di non ritorno per me. La svolta necessaria a uscire dal circolo vizioso in cui ero entrata. Obbligata a guardare l’immagine triste che lo specchio mi ha restituito, ho deciso di cambiare, in meglio. Ma non è stato semplice. Ne porto ancora addosso i segni. Ho perso un amico, conosciuto l’amore e rischiato di morire; tutto in poche frenetiche settimane. Così, al termine delle indagini e dopo il corso di addestramento in polizia, ho sentito il bisogno di cambiare aria. E Rimini, con il suo smog e la cacofonia perenne di traffico, feste, luci e discoteche era quello che ci voleva per riprendermi. Le serate in giro per i locali, il nuovo ambiente di lavoro e i nuovi colleghi… tutto questo mi ha indotto a perdere la routine quotidiana, mi ha ridato una vita. Nonostante la nostalgia di casa, mi sento come se fossi uscita da un lungo letargo.

    Quando mi rendo conto che lo squillo nella mia testa si propaga anche per l’ufficio, metabolizzo l’idea che quel suono provenga dal telefono. Alzo la cornetta, aspettandomi un cazziatone dal mio capo. Da un paio di giorni vago sopra i fogli depositati sulla scrivania, come un avvoltoio su un animale morente, senza fare alcun passo in avanti con l’indagine che mi ha assegnato.

    «Sì, pronto?».

    «Ispettore Basetti, sono De Santis. Può passare dal mio ufficio prima della fine del turno? Ho avuto i risultati dei test tossicologici e li ho confrontati con le parole chiave dei messaggi recuperati nei cellulari dei sospettati». Luca De Santis, il nostro esperto informatico, tace in attesa che gli dia una risposta.

    «Mi puoi anticipare qualcosa per telefono? Hai trovato niente di interessante?».

    «A dire il vero non molto. Le solite cose, ma vale comunque la pena dare un’occhiata».

    Sospirando gli confermo che prima di uscire farò un salto nel suo ufficio. Se non fosse che ogni volta anche una semplice chiacchierata con lui si tramuta in un dibattito epico che finisce per farmi tornare a casa stremata, Luca sarebbe un ragazzo gradevole, nonché un tecnico eccellente. Questi mesi al suo fianco mi hanno trasformata in un’osservatrice più precisa e puntigliosa di quanto non fossi prima. Nonostante sia più giovane di me, fa questo lavoro da quando il suo fondoschiena ha abbandonato i duri seggiolini delle aule universitarie.

    Poco prima della fine del turno serale mi trascino stancamente fino al suo ufficio.

    «Buonasera, ispettore Basetti. Venga, le mostro i risultati dell’analisi informatica». Mi fa un cenno con la mano quando varco la soglia della sua tana, come ama definire il laboratorio, senza distogliere l’attenzione dai suoi dati.

    «Eh Luca, basta con questo lei».

    In risposta, solleva il pollice verso l’alto. «Vedrò di sforzarmi. Voglio far… ti vedere questo elenco».

    Mi siedo sullo sgabello, rassegnata all’idea di doverlo ascoltare. «Dimmi direttamente cosa hai trovato, okay? Così guadagniamo tempo».

    Guardandomi attraverso gli occhiali, accenna una smorfia contrariata. Non ricordo di averlo mai visto sorridere.

    «Va bene» cede alla fine. «Abbiamo trovato ben poco. Ho notato la solita serie di parole in codice. Inoltre ho riscontrato un picco di dati in entrata e in uscita nelle ore serali. Parlo di chiamate o sms ricevuti e inviati. Il nostro uomo è molto prolifico la sera, e non solo con il cellulare. Ho trovato conferma anche sul suo notebook. Smercia la sua roba soprattutto nella fascia oraria che va dalle sette di sera alle due del mattino».

    Avvicino al viso il foglio con i risultati e un sospiro annoiato mi sfugge. «Direi che a questo punto ci sono i presupposti per richiedere un mandato di comparizione qui in centrale. Parlerò con Paduan e poi provvederò a far compilare tutti gli incartamenti necessari. Questo però non ci porta molto lontano perché, se anche lo mettessimo dentro, oltre ad aver tolto dal mercato un po’ di roba tagliata male, non avremmo scoperto niente sui pezzi grossi. Il ragazzo è solo un piccolo spacciatore. Cosa vuoi che sappia dirci? E se anche conoscesse il nome di chi lo rifornisce sono certa che terrà la bocca chiusa».

    Luca sembra soppesare le mie parole, prima di continuare: «Purtroppo io ho fatto tutto quello che potevo fare. Di più non so dire».

    «C’è ben poco da dire. Comunque restiamo fiduciosi, magari ci capita una botta di culo».

    Strabuzza gli occhi alla mia esclamazione. Poi, un istante dopo, torna a essere il nerd di sempre, poco loquace e dall’imbarazzo facile. Lo saluto con una leggera pacca sulla spalla e mi incammino verso l’uscita.

    Fuori dal suo ufficio, in corridoio, lo sguardo sorridente di Carlo Paduan, il commissario del distretto, incrocia il mio. Cammina rapido, nella mia direzione. Pantalone elegante, ma morbido. Camicia sgualcita, con un lembo perennemente fuori dai pantaloni e quell’accenno di barba ormai tendente al grigio. I suoi occhi lasciano pochi dubbi alla domanda che sta per pormi.

    «Sì, ho appena parlato con De Santis» lo anticipo. «Niente di nuovo».

    Lui mi guarda e inaspettatamente sorride. «Vieni, andiamo nel mio ufficio» dice appoggiandomi una mano sulla spalla. «Innanzitutto, vuoi un caffè?».

    Entriamo in ufficio, con lui che mi fa strada.

    «No, capo. Niente caffè, grazie. Comunque dicevo che non abbiamo scoperto nulla di nuovo…».

    «Immaginavo». Si serve un caffè bollente, quindi prende posto dietro la scrivania. «Prima che lo facessi tu, mi ero già confrontato con Luca. Purtroppo siamo a un punto morto. Per questo volevo parlarti».

    «In merito a cosa?».

    Non so perché ma sento suonare un campanello d’allarme nella testa. La sua gentilezza è spiazzante, vista la situazione, e non capisco dove voglia andare a parare.

    Prima di rispondere si prende tutto il tempo che vuole, rendendomi irrequieta.

    «Voglio metterti in coppia con Spina».

    Il mio sguardo deve perforare l’aria tra noi, perché lui ricambia con occhi irritati.

    «Oh, Noelia, non fare quella faccia. Lo avrai notato anche tu che da sola non vai da nessuna parte… Scusami, ma se stai seguendo una pista non puoi di sicuro seguirne un’altra contemporaneamente. E poi quattro occhi sono meglio di due».

    «Posso cavarmela da sola» rispondo piccata.

    «Mi spieghi una cosa? Vorrei sapere se sei tu a non sopportare lei o è lei che non sopporta te».

    «Credo che la cosa sia reciproca».

    «Perché? Cos’ha che non va?».

    «Oh, non c’è niente che non va in lei, se non che è così giovane e inesperta, ma allo stesso tempo piena di sé…».

    «Capisco».

    Lo guardo soddisfatta, sperando che abbia lasciato perdere questa sua idea malsana. Scopro però di essere in errore.

    «Hai ragione. Lei è giovane, come te del resto, e inesperta, di sicuro… mai quanto te, comunque. Non fraintendermi, ma lei lavora nel nostro distretto da tre anni, mentre tu sei con noi solo da otto mesi. Rimini è una città… complessa. Bisogna entrare nei meccanismi del sistema cittadino prima di poterla comprendere e potercisi muovere agevolmente. E tornando a Sonia, sì, lei è molto ma molto piena di sé e in questo vi somigliate tantissimo. Prevedo un’ottima collaborazione tra voi due. Quindi direi che puoi cominciare da…». Alza la cornetta del telefono, lanciandomi una mezza occhiata. «Ora».

    Io rimango così, con la bocca spalancata e un’imprecazione sulla punta della lingua.

    «Perfetto» lo sento dire mentre conclude la telefonata. Poi solleva lo sguardo e sorride. «Be’, cosa fai ancora qui? Sonia ti aspetta, è già nel tuo ufficio. Domani, come prima cosa, vorrei che andaste insieme a controllare la casa del Micheli».

    Micheli, il tizio che abbiamo preso lunedì. Mi passo le mani sugli occhi chiusi, cercando di contenere la rabbia e sperando, una volta riaperti, di trovare la scrivania di fronte a me vuota. Quando sollevo le palpebre, tuttavia, nulla è svanito. Purtroppo. Prendendo atto degli ordini di Paduan, mi dirigo all’uscita.

    «Buon lavoro, Basetti!». La sua voce mi accompagna fuori, carica di sarcasmo.

    Esco sbattendo la porta quel tanto che basta per fargli intuire la mia rabbia, ma non abbastanza da farmi avere un richiamo.

    Mentre cammino, un’aura nera mi grava sulla testa. Dovrò sforzarmi di essere gentile, collaborativa.

    Ma i buoni propositi svaniscono nel momento in cui varco la soglia del mio ufficio.

    2

    Lei è ferma lì, seduta di fronte alla mia scrivania, in una posa plastica da manager che poco si addice a una poliziotta. Sonia, diversamente da me, è nata per portare la divisa. Dopo la carriera universitaria, che evidentemente le si addiceva poco, è entrata in accademia, dove si è dimostrata una delle migliori. Anche ora, al lavoro, la dedizione per quello che fa è pari solo a quella di pochi altri. Guardando la sua chioma castana, stretta in una coda di cavallo perfetta, provo l’impulso irrefrenabile di tirargliela. Mi sento vecchia, di fronte a lei. Come se quei pochi anni che ci separano siano un baratro incolmabile.

    Sentendo i miei passi, si volta a salutarmi. Un lieve sorriso di circostanza disturba la durezza del suo sguardo. Se non provo simpatia per la donna che ho di fronte sono certa, guardandola, che i suoi sentimenti non sono poi così differenti dai miei.

    «Sonia». Alzo il mento verso di lei.

    «Noelia». Si sposta appena sulla sedia.

    Io mi accomodo alla scrivania. Lei, a sua volta, aggiusta la posizione per piazzarsi proprio di fronte a me. Sembriamo due animali in procinto di lottare per contendersi il territorio.

    «Paduan mi ha detto…».

    «Esatto» la interrompo. «D’ora in avanti, nell’indagine sullo spaccio di mdma, ci divideremo i compiti. So che hai trovato un collegamento con il gestore di un bar».

    «Sì, a dire il vero è una sala slot. Ho notato uno strano viavai, lì davanti. Mi ci sono imbattuta per caso, seguendo un indagato, un giovane originario di Brindisi con qualche furtarello alle spalle. Non so ancora dire se sia importante».

    «Continua» la incoraggio accomodandomi meglio sulla poltrona.

    «Io e Rossi stavamo tenendo d’occhio questo personaggio. Abbiamo i suoi telefoni sotto controllo da qualche settimana, ma fino a qualche giorno fa non era saltato fuori nulla. Martedì lo stavamo seguendo, per un controllo di routine. È uscito di casa poco dopo le nove di sera, lo abbiamo pedinato per un po’, e dopo una ventina di minuti si è fermato in questa sala slot in via Borgatti, in zona San Giuliano. È rimasto dentro per un’ora. Non ha ricevuto telefonate né messaggi particolari in questo lasso di tempo. Una volta uscito, però, ha ricevuto questo sms». Mi allunga un piccolo taccuino aperto su una pagina. Dentro, sole poche parole, scritte a mano, ricopiate da Sonia.

    "Domani vieni a prendere mia cugina. A mezzanotte".

    «Da chi lo ha ricevuto?» domando.

    «Stiamo ancora controllando. Non è stato inviato da un cellulare, ma da un numero privato. Forse un telefono fisso di nuova generazione o un fax».

    «Intestatario?».

    «Una società. È un’impresa edile con sede a Parma. Il messaggio proveniva da uno dei loro magazzini. Per ora non sappiamo altro».

    «Sappiamo a chi è intestata la società?».

    «Ci stanno lavorando i tecnici. Per il momento non conosciamo né il nome del proprietario, né chi sia stato a inviare questo messaggio».

    «Né se questo sia inerente a ciò su cui stiamo indagando» commento.

    «In effetti no. Tuttavia ho pensato che un messaggio così telegrafico, con indicazioni di orario e giorno fosse un po’ sospetto. Se poi ci mettiamo anche il termine cugina…».

    «Per ora non ci soffermiamo su ciò che ci appare strano, ma solo su ciò che diamo per certo. Per esempio, vorrei che facessi due chiacchiere con Micheli. Forse non ci dirà un cazzo, ma tentare non nuoce. Inoltre, se come mi aspetto, non dovesse aprire bocca, verrà rilasciato a breve. Una volta fuori vorrei che lo tenessi sotto controllo. Finora si è limitato a fare qualche riga di troppo e a spacciarne un po’ in giro, ma ho la sensazione che abbia in mente qualcosa di più grosso».

    «Va bene. Io e Rossi continueremo a pedinarlo».

    Sicura che la nostra chiacchierata sia conclusa, si alza dalla sedia.

    «Sonia, un’ultima cosa» dico, e lei si blocca, quindi torna a sedersi. «D’ora in avanti riferirai a me, d’accordo? Tutto quanto, ogni cosa. Vediamo di collaborare, okay?».

    Se c’è una cosa che ho imparato durante il periodo di addestramento per diventare ispettore è che non c’è nulla di più deleterio dell’incapacità di delineare i rispettivi ruoli. Il suo sguardo, serio e professionale, lascia sfuggire un accenno di contrarietà, subito celato dal contegno di cui è permeata.

    «Certo». Questa volta le sue mani fanno leva sui braccioli per sollevarsi. La guardo scomparire attraverso la porta dell’ufficio. Quando ormai è fuori portata, uno sbuffo contrariato mi esce dalle labbra.

    Questa convivenza non porterà a nulla di buono.

    3

    Seduta di fronte alla mia cena, un hamburger di avena, penso al salto di qualità che ho compiuto in merito alle mie abitudini alimentari. È da più di un anno, ormai, che non tocco più un hot dog o roba da fast food. Uscendo dal lavoro, poco fa, Paduan mi ha offerto di unirmi a lui e ad alcuni altri colleghi per una cena veloce da Hogghy’s. I suoi hamburger sono famosi in tutta Rimini. Posso immaginarlo in questo momento, davanti a un cheeseburger con patatine coperto da una schiuma di maionese e ketchup mentre impreca, rendendosi conto di aver schizzato la camicia pulita. Sorrido mio malgrado. Carlo Paduan non incarna certo lo stereotipo del capo, soprattutto non del capo della polizia.

    Il fiato mi esce lieve dalle labbra e l’appetito se ne va così, come una nuvola passeggera, al ricordo di un viso diverso, di uno sguardo freddo e duro. In effetti, Carlo e Giuseppe non potrebbero essere più lontani, l’uno dall’altro, nel rappresentare figure professionali così simili. L’uno a capo della polizia, l’altro dei carabinieri.

    Dopo quasi due anni il ricordo di Giuseppe sfugge alla mia memoria. Forse il continuo tentativo di dimenticarlo sta avendo il suo effetto. Eppure, è sufficiente concentrarmi per ritrovarmi davanti quegli occhi magnetici, quelle labbra perennemente serrate in una smorfia che non ha nulla di sorridente. I particolari più inutili sono quelli che ricordo meglio. Le sue mani, le dita lunghe e le unghie curate, il mento, con una leggera fossetta, esattamente al centro, e le orecchie, piccole e dure. Appoggio la fronte alla mano, allontano il piatto e chiudo gli occhi. Prendo il telecomando dello stereo e accendo l’impianto. Le note di John Mayer e della sua Neon escono dalle casse, riportando il respiro a un ritmo normale. Adoro questa canzone, soprattutto nella versione live. Il vuoto sonoro che precede l’esplosione della folla, ogni qual volta l’artista avvicina la bocca al microfono per cantare, mi dà i brividi. Il suono della sua chitarra, pizzicata, sortisce l’effetto desiderato, risollevandomi il morale quanto basta per evitare una crisi di pianto.

    Guardo fuori dalla finestra.

    Ormai è buio pesto, ma la temperatura è mite. Marzo porta con sé le ultime gelate invernali, ma annusando l’aria sento che il clima sta cambiando. Quello che era così lampante a Pesaro, la mia città, ora, a Rimini, è solo più ovattato, coperto dal troppo cemento, dal troppo traffico, dalla troppa gente. Mi avvicino alla finestra, spalancandola. Fuori, il rumore delle auto, lontano, ma sempre presente, mi arriva nitido, portato da un vento caldo che soffia dall’interno e che qui chiamano garbino. Dirigo lo sguardo a sud, in direzione di Pesaro. Mi manca.

    Sentendo arrivare i sintomi di un attacco di panico regolo la respirazione. Alzo il volume della musica e la voce roca di John

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1