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Istituzioni di storia della pedagogia della prima infanzia
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Ebook564 pages11 hours

Istituzioni di storia della pedagogia della prima infanzia

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Il volume intende offrire un itinerario di storia della pedagogia della prima infanzia a partire dall’Antichità classica fino al secondo Novecento, occupandosi dei principali autori che dalla paideia greco-romana fino ai più recenti sviluppi della pedagogia della prima infanzia hanno formulato una riflessione pedagogica attorno ai primi tre anni di vita del fanciullo, con particolare attenzione a cogliere il nesso fra teleologia, antropologia e metodologia e le principali implicazioni di tali dimensioni nel processo di istituzionalizzazione dell'educazione 0-3.
LanguageItaliano
Release dateJan 28, 2019
ISBN9788838247736
Istituzioni di storia della pedagogia della prima infanzia

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    Istituzioni di storia della pedagogia della prima infanzia - Evelina Scaglia

    Evelina Scaglia

    Istituzioni di storia della pedagogia della prima infanzia

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISBN 9788838247736

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838247736

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Introduzione

    PARTE PRIMA

    1. Lo sviluppo di una paideia nell’antica Grecia

    1.1. Omero «educatore» e la nascita dell’areté classica

    1.2 La paideia spartana e l’opera di Licurgo

    1.3 Un breve sguardo alla paideia ateniese

    1.4 Gli insegnamenti platonici

    1.5 Aristotele sulla scia di Platone

    1.6 Dall’ellenismo al De liberis educandis

    2. La paideia dell’antica Roma

    2.1 Una storia di esposizione alle origini dell’Urbe

    2.2 L’educazione della prima infanzia nell’antica paideia romana

    2.3 I suggerimenti di Quintiliano: al principio dell’educazione vi è l’accortezza

    3. La nascita della paideia cristiana

    3.1 Dal lógos che si è fatto carne al sinite parvulos venire ad me

    3.2 La Didachè: una testimonianza della nascente paideia cristiana

    3.3 Il Cristo pedagogo dei fanciulli cristiani secondo Clemente Alessandrino

    3.4 San Girolamo fra psicologia infantile e rinnovamento educativo

    3.5 Agostino e la prima «autobiografia dell’infanzia»

    4. La paideia occidentale fra Alto e Basso Medioevo

    4.1 L’alto medioevo, la nascita dei monasteri occidentali e una nuova visione del fanciullo «oblato»

    4.2 La vita del bambino non oblato nell’alto Medioevo

    4.3 Dopo l’anno Mille fra fonti iconografiche e divulgazione medica

    4.4 La scoperta di Gesù bambino

    5. La paideia in età umanistica

    5.1 Uno sguardo inedito sul bambino e la nascita di una nuova paideia

    5.2 I primi istituti per neonati e fanciulli abbandonati

    5.3 Il contributo paideutico di Leon Battista Alberti

    5.4 L’educazione liberale nell’umanesimo cristiano di Erasmo da Rotterdam

    5.5 L’educazione della prima infanzia nella precettistica morale di Juan Luis Vives

    5.6 Michel de Montaigne: dalla critica al pedantismo all’educazione del gentiluomo

    PARTE SECONDA

    6. La paideia fra Riforma protestante e Rinnovamento cattolico

    6.1 Un’età di forti cambiamenti

    6.2 L’opera di Silvio Antoniano: verso una pedagogia dei genitori

    6.3 Jan Amos Comenio: l’ideale universale di educazione e l’autonomia della pedagogia

    7. Dall’empirismo di John Locke all’educazione negativa di Jean Jacques Rousseau

    7.1 La maturazione di un sentimento dell’infanzia

    7.2 John Locke e l’educazione sensista del futuro gentleman

    7.3 Fénelon e il ruolo delle impressioni nell’educazione della prima infanzia

    7.4 L’età dei Lumi e l’avanzata di una nuova sensibilità

    7.5 La rivoluzione pedagogica dell’Émile di Jean Jacques Rousseau

    8. Dalla pedagogia della madre alla nascita delle prime istituzioni per la cura e l’educazione infantile

    8.1 Johann Heinrich Pestalozzi lettore di Rousseau: la madre-gouverneur

    8.2 Albertine Necker De Saussure: per un’educazione progressiva alternativa a Rousseau

    8.3 Il contributo della pedagogia del cattolicesimo risorgimentale

    8.4 La pedagogia dell’infanzia di Friedrich Froebel

    8.5 L’istituzionalizzazione dell’educazione della seconda infanzia: la nascita delle prime scuole infantili

    8.6 L’istituzionalizzazione dell’assistenza alla prima infanzia: la nascita delle prime crèche

    9. Il primo Novecento: fra secolo del fanciullo ed educazione nuova

    9.1 Il turning point di inizio secolo

    9.2 Adolphe Ferrière: fra attivismo pedagogico, elan vital e pedagogia rousseauiana

    9.3 Rudolf Steiner: fra scienza dello spirito ed arte dell’educazione

    9.4 Maria Montessori: l’educazione come aiuto alla vita

    9.5 Il caso italiano: la nascita dell’ONMI e l’assistenza all’infanzia come questione politica e propagandistica

    10. Il secondo Novecento e lo sviluppo di nuove pedagogie della prima infanzia

    10.1 Fra cultura psicopedagogica e cultura dell’infanzia

    10.2 Il montessorismo di Adele Costa Gnocchi e la Scuola Assistenza all’Infanzia Montessori

    10.3 Il contributo delle allieve di Adele Costa Gnocchi: dal Centro Nascita Montessori ai primi asili nido Montessori

    10.4 Esperienze educative e pedagogie della prima infanzia non montessoriane

    GUARDARE AL PASSATO PER TRACCIARE IL FUTURO

    Evelina Scaglia

    Istituzioni di storia della pedagogia

    della prima infanzia

    Di là veleggiando nel cielo

    quando ti sporgi dalla barca

    un cinguettio di fanciulli si mescola

    allo stupore

    (K. Wojtyla, Canto del Dio nascosto, 1946)

    Introduzione

    Il seguente volume intende offrire un itinerario di storia della pedagogia della prima infanzia a partire dall’Antichità classica, partendo dal presupposto che le sue radici siano collocabili in quella paideia sorta e consolidatasi nel Mediterraneo antico dai tempi della Grecia arcaica fino al Tardo-romano [1] . Il termine paideia , che contiene nella sua etimologia il termine páis (= fanciullo) , richiama la centralità dell’educazione quale processo per sua natura comunitario, finalizzato a formare i nuovi nati quale «emanazione diretta della viva coscienza normativa d’una comunità umana», come la famiglia, la professione, il ceto, o associazioni più vaste come la tribù e lo Stato. Un processo in cui il contenuto morale e quello utilitario vanno di pari passo, data la natura «generale» e «naturalmente necessaria» dell’educazione quale funzione della comunità [2] . Tale legame si interseca a sua volta con uno dei caratteri precipui della persona umana, l’esercizio del lógos, da intendersi nella doppia valenza di ragione (definita nella prospettiva aristotelica come razionalità teoretica, razionalità tecnica e razionalità pratica) e di linguaggio (sia orale, sia scritto). Le «antiche civiltà del libro» hanno vissuto direttamente da protagoniste il processo di transizione da una civiltà di guerrieri basata sull’oralità ad una civiltà di scribi per la quale la pratica della scrittura ha costituito, inizialmente, un dispositivo con il quale sovrintendere funzionalmente l’amministrazione dell’ òikos (casa), per poi essere perfezionata in vista di un compito altrettanto importante: tradurre in segni la sapienza fino ad allora maturata da una determinata civiltà [3] .

    In una cornice così configurata, si intende qui ricostruire le principali linee di sviluppo di una riflessione pedagogica dedicata ai fanciulli e alle fanciulle d’età compresa fra gli 0 e i 3 anni, consapevoli del fatto che non si tratta di un tentativo, peraltro maldestro, di voler applicare nel passato una categoria emersa in tempi piuttosto recenti, quanto di constatare che i principali caratteri identificati dai pediatri contemporanei quali elementi distintivi del passaggio dalla prima alla seconda infanzia (la dentizione completa, la deambulazione autonoma, lo sviluppo del linguaggio [4]) sono già presenti in nuce in un pensiero fin dall’Antichità «intenzionalmente pedagogico», attento alla promozione della crescita e dell’educazione infantile secondo i ritmi propri della sua natura.

    Ci si richiama, in questo caso, all’interpretazione elaborata da quegli autori che sostengono l’opportunità di parlare per l’Antichità e per il Medioevo di un «agire educativo», piuttosto che di un «sapere pedagogico» codificato, in quanto si rileva in questi periodi storici la presenza di ideali e consuetudini educative che si intrecciano con la narrazione letteraria e la trattazione filosofica, religiosa e politica [5]. La permanenza della tradizionale ripartizione dei periodi della vita umana, di matrice ippocratica, che definisce con il termine infantia i primi sette anni di vita, per poi chiamare pueritia il successivo settennio, non ci deve indurre a pensare che i «piccolissimi» fra gli 0 e i 3 anni non siano stati oggetto di una riflessione (proto)pedagogica in grado di mettere a fuoco i processi genealogici della loro istruzione, educazione e formazione.

    Testimone ne è il fatto che fin dall’Antichità greca (classica ed ellenistica), si attesta l’esistenza di una pluralità di vocaboli per indicare l’essere bambino (indifferentemente maschio o femmina): páis per fanciullo, ragazzo, figlio o figlia, servo; népios per bambino piccolo, infante; téknon per figlio, figlia, prole. Vi sono, inoltre, ulteriori specificazioni lessicali, come bréphos per indicare il bambino appena nato, néos per indicare una persona giovane, non adulta, in tenera età e paidìon per bambinetto [6]. Tale riscontro non fa altro che dimostrare l’elevato grado di accuratezza linguistica maturata grazie ad una riflessione scaturita dall’intrecciarsi di teoresi, tecnica e prassi. Eppure ancora oggi vien facile pensare al bambino dell’Antichità come un soggetto «appena abbozzato» che, se sopravvissuto agli alti rischi di mortalità alla nascita e nei primi anni di vita, sarebbe rimasto fino a sette anni nell’ambiente domestico dell’ òikos, confuso fra gli adulti di una «domesticità allargata», in attesa di intraprendere il suo futuro percorso personale e professionale legato alla condizione socio-economica della famiglia di nascita ed alla costituzione politica del paese di appartenenza [7].

    Sovviene, però, constatare il fatto che sul piano della storia dell’infanzia tout court, la «marginalizzazione» dei piccoli e, in special modo, dei piccolissimi sia dovuta all’impiego di un paradigma storiografico che ha privilegiato la ricostruzione dell’educazione intellettuale ai suoi livelli superiori e le vicende vissute dagli scolari, trascurando lo studio dell’educazione nei primi anni di vita, a causa principalmente del difficile reperimento di fonti a riguardo [8]. Meno si sa di una comunità, più si fa fatica a ricostruire la storia dell’infanzia vissuta in quella comunità e dei processi educativi di cui è stata protagonista. Va, però, osservato che nel relegare a lungo i bambini e le bambine da 0 a 3 anni fra i «silenzi nell’educazione» [9], insieme alle donne, ai disabili, ai malati psichiatrici e a tante altre esistenze umane, ha contribuito non solo la mancanza di fonti storiche, ma anche la scelta di occhiali teoretici e storiografici non sempre calibrati sulle dimensioni effettive del campo visivo da ispezionare, spesso ridotto a «interstizi» (lo spazio domestico per i più fortunati; la strada o in secoli più recenti il brefotrofio per chi è stato abbandonato).

    La ricostruzione offerta all’interno di questo lavoro, sulla scorta di tali consapevolezze, ha inteso affiancare al tema metodologico anche quello epistemologico, scegliendo di avvalersi di una pluralità di fonti in grado di far trapelare, nella ricostruzione dei fili conduttori di una storia della pedagogia della prima infanzia, il profilo di una pedagogia pensata, agita e perfezionata nel suo significato etimologico di pais/paidos-agogé. Se pais significa «figlio, figlia», o al suo posto paidos, da intendersi come «soggetto umano in crescita, in evoluzione», l’ agogé deriva dal verbo greco ago, che sta ad indicare il «condurre, guidare, ma ascendendo, come in una spirale; nel senso di uscire e far uscire qualcuno da uno stato inferiore per andare verso uno superiore, facendogli esprimere potenzialità manifeste o inespresse (possibilità) e valorizzandole in modo attivo per renderlo migliore» [10].

    L’educazione nei primi tre anni di vita, presentata dagli autori qui ispezionati, richiama il movimento di danza armoniosa dell’ agogé, per via della centralità da essi riconosciuta alla relazionalità fra madre/padre e figlio/a, educatore ed educando, gouverneur e allievo, non riducibile esclusivamente a quegli atteggiamenti di cura, indispensabili per proteggere e far crescere con la dovuta delicatezza la fragile vita umana, per natura neotenica, ma riscontrabili anche negli animali superiori [11]. Pur nella diversità delle posizioni teoriche, è emersa l’esistenza fra i diversi autori trattati di una cum-scientia comune riguardo l’educazione, considerata come il frutto di un agire e di un pensare in grado di superare una concezione di educazione/formazione ridotta all’immanente e all’empirico scientifico e storico, in quanto ancorata ad un orizzonte compiutamente etico, dominato dalla ricerca di una finalità di bene oltre ogni riduzionismo naturalistico.

    Ecco perché provare a ricostruire i tratti di una storia della pedagogia della prima infanzia ha condotto a fare i conti con una storia del farsi del pensiero pedagogico, che - finalizzato a scoprire e valorizzare la ricchezza della genealogia del suo proprio fulcro (l’educazione) - si è occupato di riflettere attorno ai caratteri dell’educazione della vita appena nata, pronta a muovere i suoi primi passi. Approfondire le principali tappe della storia della pedagogia della prima infanzia ha significato confrontarsi con la natura stessa della pedagogia, la quale si alimenta costantemente ad almeno due forni, quello dell’esperienza educativa e quello della teoria dell’esperienza educativa, per poter render conto del particolare e dell’universale, facendosi guidare da una razionalità del per lo più e sostenendosi sulla base di un architrave teoretico-epistemologico ancorato ad una fondazione assiologica (che vede al centro l’imperativo etico personale del «voler bene»), al riconoscimento della totalità come operatore educativo e pedagogico e all’importanza della mediazione teorica in tutti i campi dell’educativo (che non può fare a meno del metempirico) [12]. Ne emerge il quadro di una pedagogia che nel proprio nucleo fondante si fregia di collocare una morfologia dell’esperienza umana attenta a cogliere il ruolo ivi ricoperto dai sensi, dal movimento, dalle pulsioni, dalle emozioni e dai sentimenti, dall’«accorgersi» immediato, dall’imitazione, dall’intenzionalità, ma anche una genealogia dell’educazione, della formazione e dell’istruzione che ha fatto tesoro della stratificazione durante i millenni del sentire, pensare ed agire umani [13]. Questi ultimi hanno subito l’influenza dei condizionamenti, degli istinti, dei dispositivi che hanno contribuito allo sviluppo degli atti dell’uomo (operazioni, comportamenti, reazioni, ecc.), senza però intaccare l’imponderabilità e l’insondabilità dell’«atto umano», frutto originale ed irripetibile dell’intenzionalità e del lógos umani. L’educazione è sempre per sua natura un’azione esclusivamente umana, sia che la si consideri nel significato del verbo latino educare (far crescere, allevare, nutrire, pasturare, modellare), secondo un movimento che dall’esterno va verso l’interno del soggetto (in termini di etero-educazione), sia che la si consideri nel significato del verbo latino educere (tirar fuori qualcuno da, condurre, guidare qualcuno da… a, sostenendolo nel suo cammino), secondo un movimento che dall’interno del soggetto va verso l’esterno (in termini di auto-educazione) [14].

    La pedagogia non può evitare di affrontare giorno dopo giorno il duplice divario esistente fra atti umani e atti dell’uomo e fra teoria e pratica; ne consegue che anche una storia della pedagogia della prima infanzia non si possa esimere dal confrontarsi con questi due gap, nella consapevolezza che solo il vortice ascensionale dell’ agogé è in grado di superarli tutti, in quanto capace di muoversi dall’essere (cioè dall’empirico) al dover essere (cioè al meta-empirico). Basti pensare al fatto che in diversi momenti della storia, pur a fronte di condizioni di vita che hanno visto migliaia di piccoli vittime di infanticidio, abbandono, soprusi e incuria generalizzata, vi è sempre stato qualcuno pronto a formulare una riflessione pedagogica sul bambino. In altre parole, a fronte dell’esigenza sempre più rimarcata a livello storiografico di studiare i bambini e le bambine come attori della loro stessa storia, tenuto conto delle differenze di genere, religione, ceto sociale, classe economica, cultura della nazione o del gruppo etnico [15], si è qui deciso di far emergere la dimensione di idealtypus presente nel pensiero pedagogico, non per fare un passo indietro, bensì per fare un passo in avanti in vista di una maggiore qualificazione pedagogica dei futuri educatori nei servizi per la prima infanzia. Consapevoli di quanto oggi la storia dell’educazione e del pensiero pedagogico non possa fare a meno di confrontarsi con il tema della formazione dei formatori [16], ci si è dunque mossi in vista dell’obiettivo di incrementare la «maturità pedagogica» di questi professionisti sul triplice piano etico-religioso, umanistico-professionale e politico-sociale [17].

    Un particolare ringraziamento va al prof. Giuseppe Bertagna per aver ispirato e sostenuto questo lavoro.


    [1] H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, [1948], trad. it., nuova ed. rivista e aggiornata da L. Degiovanni, Studium, Roma 2016, pp. 46-47.

    [2] W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, [1944], trad.it., introduzione di G. Reale, Bompiani, Milano 2003, libro I: L’età arcaica, cap. I: Aristocrazia e areté, p. 25.

    [3] Sulla cultura di scribi e la loro educazione, si veda: H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, cit., pp. 50-56.

    [4] Vanno richiamati, a tal proposito, gli studi condotti da Jean-Nöel Luc a proposito dell’«identificazione medica della seconda infanzia», a partire dall’indagine sugli scritti di un centinaio di medici che si sono occupati nelle loro opere delle età della vita, dell’infanzia, della sua educazione e delle sue malattie (cfr. J.-N. Luc, La découverte médicale de la seconde enfance (1750-1900), in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 1989, pp. 83-113, poi in parte ripreso dallo stesso autore ne I primi asili infantili e l’invenzione del bambino, in Aa.Vv., Storia dell’infanzia, a cura di E. Becchi-D. Julia, vol. 2, Dal Settecento a oggi, Laterza, Bari 1996, pp. 286-291).

    [5] P. Bianchini, L’educazione delle élites nell’età moderna, in G. Chiosso (a cura di), Educazione, pedagogia e scuola dall’Umanesimo al Romanticismo, Mondadori, Milano 2012, pp. 4-5.

    [6] Nel riportare tali distinzioni lessicali, ci si è avvalsi di quanto illustrato da: E. Becchi, L’antichità, in Aa.Vv., Storia dell’infanzia, a cura di E. Becchi-D. Julia, vol. 1, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4.

    [7] Ibid., p. 3.

    [8] E. Becchi, I bambini del Marrou, in «Studi sulla formazione», n. 2, a. XIX, 2016, p. 319.

    [9] Si tratta di un’espressione utilizzata da: S. Ulivieri, I silenzi sociali: l’infanzia, i giovani, le donne. Una storia ai margini, in F. Cambi-S. Ulivieri (a cura di), I silenzi nell’educazione. Studi storico-pedagogici, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 53-71.

    [10] G. Bertagna, Introduzione. La pedagogia e le «scienze dell’educazione e/o della formazione». Per un paradigma epistemologico, in Id. (a cura di), Educazione e formazione. Sinonimie, analogie, differenze, Studium, Roma 2018, p. 26.

    [11] Sul tema di una navigazione oltre il naturalismo pedagogico, si veda: G. Bertagna, Introduzione. Critica della ragion pedagogica e distinzione tra cura ed educazione, in A. Potestio-F. Togni (a cura di), Bisogno di cura, desiderio di educazione, La Scuola, Brescia 2011, pp. 12-24.

    [12] G. Bertagna, Quale identità per la pedagogia? Un itinerario e una proposta, in «Rassegna di pedagogia», nn. 1-4, a. LXVII, 2009, pp. 13-36.

    [13] Si tratta di una prospettiva pedagogica che riprende le categorie presentate in: G. Bertagna, Dall’educazione alla pedagogia. Avvio al lessico pedagogico e alla teoria dell’educazione, La Scuola, Brescia 2010, pp. 52-94.

    [14] Per una disquisizione attorno a questi principali significati, si rimanda a: G. Bertagna, Avvio alla riflessione pedagogica, La Scuola, Brescia 2000, pp. 111-128.

    [15] S. Polenghi, La ricerca storico-educativa sull’infanzia nel XX secolo, in M. Gecchele-S. Polenghi-P. Dal Toso (a cura di), Il Novecento: il secolo del bambino?, Junior-Spaggiari, Parma 2017, p. 31.

    [16] Nello specifico, si vedano: M. Depaepe, A professionally relevant history of education for teachers: Does it exist? Reply to Herbst’s the State of the Art Article, in «Paedagogica Historica», n. 37, a. XLI, 2001, pp. 631-640; S. Polenghi-G. Bandini, The History of education in its own lights: signs of crisis, potential for growth. La storia dell’educazione di fronte a se stessa: segnali di crisi, direzioni di crescita, in «Espacio, Tiempo y Educación», n. 3 (1), a. III, 2016, pp. 3-20.

    [17] Il concetto di «maturità pedagogica» si è qui liberamente ispirato a quello di «maturità magistrale» affermato in: M. Agosti-V. Chizzolini, Maturità magistrale, La Scuola, Brescia 1959, pp. 11-13, 22-26.

    PARTE PRIMA

    1. Lo sviluppo di una paideia nell’antica Grecia

    1.1. Omero «educatore» e la nascita dell’areté classica

    Una fra le prime figure da mettere a fuoco in un percorso di storia della pedagogia della prima infanzia è rappresentata dal poeta Omero (VIII-VII secolo a.C.), considerato dallo stesso Platone l’«educatore» per eccellenza della Grecia antica, grazie all’opera di trasmissione per iscritto dei modelli di azione e valori (detti anche virtù, o areté) decantati nella tradizione orale degli aedi (= cantori) all’interno dei suoi due principali poemi, l’Iliade e l’Odissea. Questi ultimi hanno contribuito ad offrire uno spaccato del contesto storico-culturale dell’epoca remota cui fanno riferimento (XII-XI secolo a.C.) e, nel contempo, hanno offerto un quadro ideale dell’educazione aristocratica (da aristos = migliore) dei nobili cavalieri e, più in generale, della classe dirigente, l’unica in quel periodo storico ad essere oggetto di una riflessione pedagogica, in quanto l’educazione è intesa come un processo spirituale di formazione di una cultura superiore sorta da un processo di differenziazione sociale dell’umanità [1] . Tale educazione si configura nei termini di una preparazione a 360 gradi dei futuri nobili cavalieri, impegnati come oratori in tempo di pace e guerrieri in tempo di conflitto; essa coinvolge, contemporaneamente, l’ambito tecnico (in quanto il fanciullo è preparato e avviato all’apprendimento della téchne che sovrintende la funzione di cavaliere, attraverso lo sport, i giochi cavallereschi, le arti musicali, il maneggio di armi, ecc.) ed etico (in quanto il medesimo fanciullo è formato ad incarnare un certo ideale di uomo attraverso l’assunzione di uno stile di vita improntato ai valori della gloria, del coraggio, dell’onore) [2].

    Per cogliere la pregnanza di un processo educativo così configurato, è opportuno richiamare l’interpretazione dei poemi omerici come contesto didattico formulata da Eric A. Havelock, secondo il quale la narrazione scritta in versi è subordinata al compito di ospitare elementi di carattere educativo, in special modo precetti tradizionali, norme comportamentali e istruzioni di tipo tecnico, stratificatesi fino a quel momento in una storia quasi millenaria narrata oralmente, in cui sussiste un confine piuttosto labile fra il comportamento morale e il comportamento tecnicamente esperto [3].

    Le gesta raccontate nei poemi omerici costituiscono una testimonianza narrata della cultura aristocratica della Grecia arcaica, collocata all’interno di un ideale tempo degli eroi, che lascia intravedere la struttura politica e sociale di un mondo dominato da un re circondato da una corte di cavalieri e caratterizzato da una netta separazione fra aristocrazia e popolo. Il concetto di areté, incarnato nella figura dell’eroe , si sviluppa all’interno di un humus culturale che ammette esclusivamente una forma di educazione elitaria, cioè per pochi privilegiati, per uomini egregi, chiamati fin dalla nascita ad eccellere e a distinguersi sopra tutti per gloria, forza, coraggio, zelo, fedeltà, cortesia (soprattutto nei confronti delle donne, in primis della madre). Essi sono pronti ad offrire il loro servizio di corte al sovrano, anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita pur di serbare fede al proprio ideale: da qui la connotazione eroica di tale areté, che trova il suo massimo compimento nel sacrificio della propria vita da parte del cavaliere.

    Sul piano della costruzione di un discorso pedagogico, occorre convenire con Werner Jaeger che al centro della struttura spirituale dell’ideale educativo aristocratico greco vi è l’esempio, incarnato nell’eroe quale idealtipo (cioè modello) di uomo ben formato, in quanto padrone del lógos (cioè del linguaggio e della ragione) e padrone delle proprie azioni. I poemi omerici attestano la presenza di un’alta coscienza educativa nella Grecia arcaica, ove il termine coscienza non va inteso nel senso di coscienza personale (che si svilupperà dal Cristianesimo in avanti), ma di coscienza pubblica, cioè della comunità. Da qui la natura dell’esempio eroico quale paradigma di orientamento della condotta, della vita e del pensiero degli individui in un’epoca storica in cui non esistono ancora leggi codificate, né un pensiero etico sistematico, se non gli usi, costumi e consuetudini tramandate dalla tradizione orale [4].

    L’eroe per eccellenza nell’epopea omerica è Achille, figlio della ninfa Teti e di Peleo re di Ftia (Tessaglia). La sua vita è improntata, fin dalla nascita, a realizzare l’ideale di «essere sempre il migliore e mantenersi superiore agli altri», grazie alla sua natura umana che sfocia nel mito, a dimostrazione dell’esistenza di una stretta contiguità fra il valore educativo dell’esempio mitico (legato al carattere normativo del mythos) e l’etica aristocratica arcaica. Alcune riproduzioni iconografiche di episodi significativi del mito di Achille, come quelle relative ai suoi primi giorni di vita, possono venire in soccorso rispetto a tale discorso. Gli affreschi settecenteschi di Donato Creti nel ciclo di Marcantonio Collina Sbaraglia mostrano l’immersione di Achille neonato nel fiume Stige da parte della madre Teti che lo trattiene per un tallone (unica parte del suo corpo rimasta vulnerabile) [5], ma anche il suo affidamento da parte delle ancelle di Teti al precettore (= maestro privato) Chirone, il «molto saggio centauro», creatura mitologica metà uomo e metà cavallo, che pur vivendo in uno stato di ferinità ha il compito di educare il futuro eroe all’ areté e alle arti della civiltà umana.

    Vale la pena di soffermarsi sulla figura di Chirone, centrale nella vita di diversi eroi della Grecia arcaica: descritto come un centauro vegliardo, che dimora nelle gole boscose e ricche di sorgenti del Pelio (nella regione della Tessaglia), ha rappresentato il «maestro d’eroi per eccellenza». La sua opera educativa avviene al di fuori della famiglia, su esplicita delega, perché Achille al pari di altri piccini chiamati ad incarnare il futuro ruolo di eroe è un «bambino eccezionale», che ha come suoi punti di distinzione una nascita prodigiosa e una trophè (= cura educativa nei primi anni di vita) promossa al di fuori di ogni istituzione, compresa la famiglia [6]. Chirone insegna ad Achille lo sport e gli esercizi cavallereschi (caccia, equitazione, giavellotto), l’uso delle armi, le arti cortesi (come suonare la lira), la chirurgia e la farmacopea, dimorando in una grotta fra i monti, dunque in un contesto lontano dalla società umana, in cui la naturalità dell’ambiente fa da pendant alla naturalità dei processi educativi avviati [7]. Il suo operato verrà perfezionato da Fenice, un amico straniero di Peleo, a cui Chirone restituirà la vista.

    Fenice costruirà con il piccolo Achille una relazione educativa di profonda intimità, tanto da diventare per lui «una guida nel senso profondo dell’autoeducazione morale» [8], grazie al sentimento paterno sviluppato nei suoi confronti. Sarà lo stesso Fenice ad accompagnare l’ormai giovane Achille al campo di battaglia e nella corte regale, cioè all’avvio della sua vita pubblica. Ed è sempre dalle parole di Fenice, riportate nel IX canto dell’ Iliade, che è possibile apprendere alcuni episodi della prima infanzia di Achille, ricordati dal vegliardo nel tentativo di farlo tornare a combattere contro i troiani, dopo l’ira causata dal rapimento della sua schiava Briseide ad opera di Agamennone: «io ti ho fatto quale tu sei, Achille simile ai numi, ché t’amavo di cuore: e tu non volevi con altri né andare ai banchetti né mangiar nella casa, senza ch’io ti ponessi sopra le mie ginocchia e ti nutrissi di carne, tagliandola, ti dessi del vino. E tu spesso la tunica mi bagnasti sul petto, risputandolo, il vino, nell’infanzia difficile!» [9]. Il futuro eroe, così simile in questi suoi comportamenti a qualsiasi altro infante, viene accudito da Fenice al pari di un figlio, che non ha mai potuto generare a causa di una maledizione degli dei scatenata dall’ira del padre Amintore Ormenide, con la cui amante Fenice è giaciuto per obbedire ad una supplica della madre, sentitasi da lungo tempo trascurata come legittima sposa. «Così ho sofferto per te molte cose, molto ho penato, pensando questo, che i numi non davano vita a mio seme nato da me; di te, Achille simile ai numi, un figlio facevo, perché tu un giorno tenessi lontano da me l’oltraggiosa sventura» [10].

    Con queste parole, che richiamano un’infanzia ormai lontana, Fenice cerca di persuadere Achille a combattere, assumendo un ruolo di intermediario nel difficile compito di farlo ravvedere dall’accecamento prodotto dalla sua ira contro la dea Ate. «Ma lo zelo educativo, ingenuamente pratico, del vecchio mondo aristocratico», chiosa Jaeger, «sbocca già qui, nel suo documento più antico e più bello, nella consapevolezza del problema dei limiti di qualsiasi educazione umana» [11]. Achille non presterà ascolto alle parole del suo antico educatore, a dimostrazione di quanto la libertà e l’autonomia di azione possano rappresentare la vetta più alta, ma nel contempo il vincolo con il quale dovrà fare i conti ogni educazione che si pensi come tale. Entrerà in guerra solo più avanti, quando la furia provocata dalla morte dell’amico Patroclo lo spingerà ad armarsi per vendicarlo.

    Il contributo offerto dall’ Iliade di Omero nel ricostruire i tratti di una pedagogia della prima infanzia nell’età arcaica è rintracciabile anche nel quadro di vita familiare ricostruito nel VI canto, in cui Omero narra di Ettore che saluta per l’ultima volta Astianatte e la moglie Andromaca, in un contesto di intimità emotiva ed affettiva, in cui si respira il presagio della tragedia e in cui la giovane moglie gioca il duplice ruolo di consorte e madre amorevole, in linea con la concezione della donna presente nell’ areté arcaica, quale «signora della casa» sul piano giuridico e sociale [12]. Ettore, figlio del re di Troia Priamo e fratello di Paride, è impegnato in prima persona nella guerra scatenata dalla coalizione degli Achei a seguito del rapimento di Elena, moglie di Agamennone, da parte di Paride. La moglie lo vorrebbe far desistere, affinché torni ad occuparsi della sua famiglia, ma lui le ricorda quando sarebbe più glorioso morire combattendo - come vorrebbe l’ areté eroica - che ritirarsi da codardo.

    «Dunque gli venne incontro, e con lei andava l’ancella, portando in braccio il bimbo, cuore ingenuo, piccino, il figlio d’Ettore amato, simile a vaga stella. Ettore lo chiamava Scamandrio, ma gli altri Astianatte, perché Ettore salvava Ilio lui solo. Egli, guardando il bambino, sorrise in silenzio: ma Andromaca gli si fece vicino piangendo, e gli prese la mano, disse parole, parlò così: "Misero, il tuo coraggio t’ucciderà, tu non hai compassione del figlio così piccino, di me sciagurata, che vedova presto sarò, presto t’uccideranno gli Achei, balzandoti contro tutti: oh, meglio per me scendere sotto terra, priva di te; perché nessun’altra dolcezza, se tu soccombi al destino, avrò mai, solo pene! Il padre non l’ho, non ho la nobile madre» [13].

    Andromaca, la cui famiglia è stata sterminata da Achille, supplica il marito di rimanere lì con lei sulla torre, ma Ettore non demorde dal suo proposito. E qui Omero descrive una scena di grande impatto emotivo, dalla quale trapela il forte sentimento paterno di Ettore, definibile nei termini di una «paternità affettiva e civile» [14], che nulla può nei confronti del primato della morale eroica incarnata fino in fondo e dell’ineluttabilità della moira (= destino):

    «E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre: ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura si piegò con un grido, atterrito all’aspetto del padre, spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato, che vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo. Sorrise il caro padre, e la nobile madre, e subito Ettore illustre si tolse l’elmo di testa, e lo posò scintillante per terra; e poi baciò il caro figlio, lo sollevò fra le braccia, e disse, supplicando a Zeus e agli altri numi: Zeus, e voi numi tutti, fate che cresca questo mio figlio, così come io sono, distinto fra i Teucri, così gagliardo di forze, e regni su Ilio sovrano; e un giorno dica qualcuno: ‘È molto più forte del padre!', quando verrà dalla lotta. Porti egli le spoglie cruente del nemico abbattuto, goda in cuore la madre!. Dopo che disse così, mise in braccio alla sposa il figlio suo; ed ella lo strinse al seno odoroso, sorridendo fra il pianto» [15].

    Il terzetto familiare è fra gli episodi dell’ Iliade più celebrati dalle arti figurative nel corso dei millenni: basti menzionare il Distacco di Ettore da Andromaca ed Astianatte illustrato su un cratere (= vaso) apulo a colonnette del 370-360 a.C., il dipinto Ettore e Andromaca di Giorgio De Chirico del 1914, passando attraverso la Separazione di Ettore e Andromaca dipinta nel 1773 da Antonio Cavallucci. La sua forte icasticità è data dal cortocircuito fra affetti familiari domestici e doveri pubblici dell’eroe, che colorano di tragedia la figura di Ettore, la maternità di Andromaca e la prima infanzia di Astianatte. La presenza della nutrice, incaricata della trophé del piccolo nobile, passa in secondo piano rispetto al primato delle due figure genitoriali, che hanno messo al mondo un bambino destinato ad un futuro di sofferenze, non di eroe come il padre.

    Lo scenario diviene chiaro nel XXII canto dell’ Iliade, nel momento Andromaca apprende della morte del marito per mano di Achille ed intona un lamento che ha al centro la sua forte preoccupazione per le sorti del piccolo infans rimasto orfano e come tale destinato ad una vita di patimenti, umiliazioni, privazioni ed esclusione sociale [16].

    «Ora tu nelle case dell’Ade, nella terra profonda te ne vai, lasci me in un dolore straziante, vedova nella casa: e il bimbo ancora non parla, che abbiamo generato tu e io, miseri. A lui tu non sarai vita, Ettore, perché sei morto, né lui a te. Se sfuggirà alla guerra lacrimosa degli Achei, per lui sempre affanno, sempre strazio in futuro sarà: altri gli prenderanno i campi. Il giorno che lo fa orfano, priva il bambino d’amici: davanti a tutti abbassa la testa, son lacrimose le sue guance; nel suo bisogno il fanciullo cerca gli amici del padre, tira uno per il mantello, per la tunica un altro: fra quanti provan pietà, qualcuno gli offre un istante la tazza, e gli bagna le labbra, non gli bagna il palato. Ma chi ha padre e madre lo caccia dal banchetto, picchiandolo con le mani, con ingiurie insultandolo. Via di qua, non banchetta il tuo padre con noi!. Torna in pianto il bambino alla vedova madre, Astianatte, che prima sulle ginocchia del babbo midollo solo mangiava e molto grasso di becco: e quando prendeva sonno e smetteva i suoi giochi, dormiva nel letto, cullato dalla nutrice, in una morbida cuna, col cuore pieno di gioia: e ora soffrirà. E quanto!, perduto il padre caro, Astianatte» [17].

    Sulla medesima lunghezza d’onda si pone il lamento che Andromaca innalza sulle spoglie del marito, pietosamente restituite come narrato da Omero nel XXIV ed ultimo canto dell’ Iliade:

    «Oh sposo, troppo giovane lasci la vita e me vedova nella tua casa abbandoni: non parla ancora il bambino che generammo tu ed io, disgraziati e non penso che verrà a giovinezza […] tu, bimbo, tu seguirai me, là dove indegne fatiche dovrai sopportare, penando sotto un duro padrone. Oppure un acheo ti scaglierà, sollevandoti, giù dalle mura - orribile fine! - irato, perché, forse, Ettore gli uccise un fratello, o il padre, o un figlio: moltissimi Achei sotto la forza d’Ettore morsero la terra infinita. Non era dolce, no, il padre tuo, nella carneficina paurosa» [18].

    Stando a quanto narrato dalla Piccola Iliade, Neottolemo, figlio di Achille, lo avrebbe ucciso gettandolo da una delle torri di Troia presso la Porta Scea; l’episodio è raffigurato in dipinti rinvenuti su vasi attici. Al di là della sua fine tragica, rimane di Astianatte la figura di un bambino che, nell’ultimo saluto al padre, in uno scenario di amore e di tenerezza, offre uno dei «primi ritratti individuali e quadri generali dell’infanzia nel suo luogo natural-istituzionale di esistenza e di crescita»: la famiglia [19].


    [1] W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, cit., libro I, cap. I, pp. 28-30.

    [2] H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, cit., pp. 75-76.

    [3] E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, trad.it., Laterza, Bari 2001, pp. 49-54.

    [4] W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, cit., libro I, cap. II: Cultura ed educazione dell’aristocrazia omerica, pp. 80-82.

    [5] Altre narrazioni - successive a quella omerica, come nel caso di Apollodoro e di Apollonio Rodio - raccontano di Peleo che interrompe Teti nel momento in cui immerge Achille nel fuoco o nella cenere arroventata (a seconda delle versioni) sempre con l’intento di farlo diventare immortale.

    [6] Si vedano, in particolare: E. Becchi, L’antichità, in Aa.Vv., Storia dell’infanzia, vol. 1, cit., p. 26; G. Seveso, Ti ho dato ali per volare: maestri, allievi, maestre, allieve nei testi della Grecia antica, ETS, Pisa 2007, p. 50.

    [7] H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, cit., p. 73.

    [8] W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, cit., libro I, cap. II, p. 71.

    [9] Omero, Iliade, versione di R. Calzecchi Onesti, [1950], Giulio Einaudi, Torino 1991, libro IX, vv. 485-491, p. 313.

    [10] Ibid., libro IX, vv. 492-495, p. 313.

    [11] W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, cit., libro I, cap. II, p. 73.

    [12] Ibid., p. 62.

    [13] Omero, Iliade, cit., libro VI, vv. 399-413, p. 219.

    [14] G. Seveso, Paternità e vita familiare nella Grecia Antica, Studium, Roma 2010, pp. 75-78.

    [15] Omero, Iliade, cit., libro VI, vv. 466-484, pp. 221-223.

    [16] G. Seveso, Maternità e vita familiare nella Grecia Antica, Studium, Roma 2012, p. 38.

    [17] Omero, Iliade, cit., libro XXII, vv. 482-506, p. 789.

    [18] Ibid., libro XXIV, vv. 725-728, 732-739, p. 883.

    [19] E. Becchi, Famiglia, abbandono, violenza, in Id., I bambini nella storia, [1994], Laterza, Bari 2015, p. 147.

    1.2 La paideia spartana e l’opera di Licurgo

    Se le immagini e le suggestioni ricavate dalla lettura di Omero forniscono il plafond entro il quale collocare lo sviluppo di una prima paideia arcaica, da intendersi come concezione unitaria dell’educazione culturalmente connotata, per cogliere la trasformazione subita nel corso dei secoli vale la pena di soffermare l’attenzione sulla polis di Sparta, per poi passare successivamente a trattare Atene e alcune riflessioni pedagogiche contenute nelle opere di Platone.

    Sparta e Atene sono spesso presentate come due polarità antitetiche nella storia dell’Antica Grecia, ove Sparta si contraddistingue per un’immagine stereotipata di città militare, reazionaria e di semi-illetterati. In realtà, fonti storiche come i frammenti dei lirici Tirteo e Alcmane e i risultati degli scavi della Scuola inglese d’Atene consentono di lanciare uno sguardo alla cultura arcaica della Sparta del VI secolo a.C., aperta ed accogliente nei confronti delle istanze provenienti dall’estero, dalle arti e dalla cultura, anche se già orientata ad una paideia dominata da un’ areté di tipo militare, in cui l’ideale del cavaliere del Medioevo omerico ha lasciato lo spazio ad un ideale più di carattere politico. Alla base di questo processo vi è una rivoluzione avvenuta in campo tecnico, con la nascita della fanteria pesante degli opliti e la conseguente trasformazione della guerra da scontri individuali (di eroi cavalieri) a scontro fra due linee di eserciti [1] .

    La paideia spartana si connota per essere finalizzata a formare una città intera di guerrieri, cioè di eroi disposti a sacrificare la propria vita per la patria [2]. Henri-Irénée Marrou ha descritto l’ideale collettivo della polis spartana come un vero e proprio ideale «totalitario», accentuando con il ricorso a questo aggettivo quanto la polis rappresenti per i suoi cittadini il «tutto» a cui fare riferimento, la conditio sine qua non che li fa uomini. Pur tenuto conto del fatto che il giudizio espresso da Marrou risente dell’epoca storica in cui ha vissuto ed operato (l’età dei totalitarismi europei), rimane assodato il fatto che la dedizione degli spartani alla città-stato, attraverso l’impegno militare, costituisce il perno attorno al quale costruire una nuova forma di socialità e, di conseguenza, di relazione educativa. Il trinomio educazione-generazione- polis ha caratterizzato il profilo politico e pedagogico della polis spartana, rendendola per certi versi unica ed inconfondibile nel panorama dell’Antichità greca, grazie all’azione del legislatore Licurgo, responsabile del nuovo ordinamento politico e sociale imposto dopo i disordini dei tempi precedenti e presto assunto ad emblema dell’educazione spartana classica, tenuta «nelle mani di una casta chiusa di guerrieri mantenuti in stato di mobilitazione permanente e irrigiditi da un triplice riflesso di difesa nazionale, politica e sociale» [3].

    Fra le fonti storiche disponibili per ricostruire tali vicende vi sono la Costituzione degli Spartani di Senofonte e la Vita di Licurgo narrata da Plutarco nelle Vite parallele, entrambe ritenute da Jaeger contaminate da fonti letterarie anteriori, sulla base della reazione alla cultura moderna del IV secolo a.C., che ha comportato una visione idealizzatrice di Sparta [4]. Nonostante le controversie ancora non sciolte attorno alla figura di Licurgo, risulta particolarmente efficace richiamare un episodio centrale della Vita ricostruita da Plutarco, riferito alla nascita del figlio di Polidecte, fratello maggiore di Licurgo ed erede al trono, prematuramente scomparso poco dopo la tragica morte del padre durante una rissa. Licurgo - fino a che la moglie di Polidecte non rende nota la sua gravidanza - è il legittimo pretendente al trono: il comportamento che terrà nei confronti del figlio di Polidecte fa emergere il significato attribuito all’infanzia di un futuro re.

    «Appena lo seppe, Licurgo dichiarò che il regno spettava al bambino, se fosse maschio, e continuò a esercitare il potere come tutore; i tutori dei re gli spartani li chiamano " prodikoi. Quando però la cognata mandò di nascosto a fargli delle proposte, decisa a sopprimere il nascituro a patto di sposarlo, mentre lui avrebbe continuato a regnare, Licurgo provò orrore per il suo modo di sentire, ma non rifiutò la proposta; anzi, fingendo di approvarla e di accettarla, disse che la donna non doveva rovinarsi il corpo e correre pericolo prendendo degli intrugli per abortire: avrebbe pensato lui a far eliminare subito il piccolo, appena nato. Così tirò alle lunghe con la donna fino al parto; quando apprese che stava partorendo, mandò alcuni ad assistere alle sue doglie e a sorvegliarla, con l’ordine, se nasceva una femmina, di consegnarla alle donne, se invece era un maschio, di portarlo a lui, in qualsiasi cosa fosse occupato. Il caso volle che mentre Licurgo si trovava a pranzo con le autorità nascesse un maschio, e arrivarono i servi a portargli il bambino. A quanto si racconta, egli lo prese e disse ai presenti: Vi è nato un re, o spartiati"; quindi lo adagiò sul seggio regale e gli diede il nome di Carilao, perché tutti ne erano lietissimi, e ammiravano la magnanimità e la giustizia di Licurgo. Egli dunque

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