La maledizione della fiamma
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Info su questo ebook
Fantasy - romanzo (292 pagine) - Un fantasy fuori dai consueti schemi, di notevole profondità umana e impatto emotivo, vincitore della terza edizione del Premio Letterario Odissea.
Azoleen è sola, gettata nella neve, il corpo magro, le braccia spezzate, la gola tumefatta. Non sente più il freddo, non sente più il dolore.
Sa che tra poco morirà.
Ma c’è qualcosa al centro del suo essere, qualcosa di rovente, una tempesta di fiamma che brucia con forza inaudita.
No, la storia di Azoleen non è ancora finita. Anzi, è appena iniziata: il suo sarà un lungo viaggio attraverso la schiavitù e la vendetta, la disperazione, la redenzione. Incontrerà maghi ed eserciti, sofferenza e solidarietà umana, violenza e amore.
Alla ricerca del terribile mistero che giace sepolto nel suo passato.
Silvia Robutti è nata a Torino nel 1984, ha studiato veterinaria e si è laureata nel 2008. Oggi vive con il suo ragazzo e un gatto nero a Torino, dove gestisce un servizio di visite veterinarie a domicilio chiamato Vetmobile. Ha sempre scritto molto, ama gli animali e viaggiare, viaggiare, viaggiare! Ha vinto il Premio Odissea con il romanzo fantasy La maledizione della fiamma.
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Anteprima del libro
La maledizione della fiamma - Silvia Robutti
9788867754496
Parte prima: I mercanti di schiavi
C’era qualcosa di rovente al centro del suo essere.
Era come una sfera di fuoco. Una tempesta di fiamme che bruciava con una potenza inaudita, impossibile da spegnere.
Quel nucleo ardente era l’unica cosa che sentiva Azoleen in quel momento, per il resto era come morta. Non sentiva il freddo, non sentiva la sete e non sentiva nemmeno più il dolore. In quel momento non pensava, non provava sentimenti. Se non fosse stato per quel magma incandescente che le stringeva il cuore, avrebbe potuto non esistere.
Iniziò a nevicare.
I fiocchi di neve cominciarono a depositarsi su di lei. Sul suo corpo magro, sulle sue braccia spezzate, sulla gola tumefatta. Presto ne sarebbe stata sepolta.
Azoleen non si mosse, in quel momento lei non era altro che un nucleo di fuoco al centro di un corpo distrutto. Ma qualcosa le diceva che quel fuoco non si sarebbe spento. Non ancora.
Quel fuoco niente poteva fermarlo, eppure non c’era sollievo, non c’era consolazione o conforto nel sapere questo. Solo la verità assoluta di fiamme altissime.
A lungo rimase così: priva di pensieri e di sensazioni, in quello strano mondo che aleggia senza forma tra la vita e la morte.
Poi qualcosa la toccò su un fianco.
Se ne accorse a stento. Se aprì gli occhi fu solo per riflesso condizionato, non perché le interessasse vedere cos’era. In quel momento non le importava nulla, nulla che non fosse il rogo che le bruciava dentro. Tuttavia vide una sagoma scura stagliata contro il cielo bianco, gonfio di neve.
– Questa è viva – sentì dire.
La voce le arrivava come da un pianeta lontano, come se avesse dovuto attraversare chilometri di ovatta per raggiungerla, e non aveva alcun significato per lei. Richiuse gli occhi.
– È ridotta malissimo – disse un’altra voce. Anche questa pareva aver viaggiato per chilometri, solcato interminabili distese attraverso le quali aveva perduto ogni senso. – Guarda i suoi vestiti, deve aver perso praticamente tutto il sangue che aveva. Per me non conviene prenderla, è troppo rovinata.
– Ma qualcuno che si piglia i catorci c’è sempre. E poi, secondo me, il sangue non è suo, non vedo grosse ferite – rispose la prima voce.
– Non so, mi sembra comunque messa male. Con quelle braccia…
Azoleen non ascoltava, ma sentiva. Era come se le parole le passassero attraverso, e lei le lasciava transitare, senza cercare di trattenerle o di comprenderle.
– Be’, al massimo la diamo da mangiare ai corck.
– Vedi un po’ tu, il carro è il tuo.
Poi Azoleen percepì la prima vera sensazione al di fuori di quell’incendio nel mezzo del petto. Qualcuno le aveva dato un colpo al braccio destro. Un’esplosione di dolore le percorse l’arto fino alla spalla. Emise un gemito.
– Vedi che ancora un po’ di forza ce l’ha? – disse il proprietario della prima voce in tono brillante. – Guarda.
Azoleen gridò mentre una piccola mano le stringeva il braccio proprio nel punto in cui radio e ulna erano stati spezzati. La ragazza sentì una lingua di fuoco, proveniente da quel nucleo di magma che le riempiva il cuore, lambirle i polmoni, poi…
…poi avvenne una cosa strana.
– Sta’ zitta! – sta urlando l’inserviente. La sua voce risuona, leggermente attutita dalla porta dello sgabuzzino. – Quante volte ti ho detto di non gridare?
Lei è una bambina. È piccola, magra, non dimostra più di sei anni anche se ne ha quasi otto. Ha il viso pallido con due occhi immensi e nerissimi a riempirlo quasi tutto. I suoi capelli sono altrettanto neri, tagliati in maniera irregolare da qualcuno che non aveva tempo o voglia di fare un lavoro accurato.
Ora si trova al buio, chiusa in uno sgabuzzino, in punizione. Non è la prima volta e certamente nemmeno l’ultima.
– Fammi uscire! – piagnucola.
– No! – sbotta l’inserviente. – Te lo sei meritato: lo sai cosa dicono le regole dell’orfanotrofio sui litigi!
Lei, nel buio, prova la sensazione di subire un’ingiustizia. Una sensazione che le è terribilmente familiare.
– Ma ha iniziato Agaroo! – urla. – Io mi difendevo soltanto!
Sente l’inserviente fare un piccolo sbuffo di insofferenza.
– Non c’entra chi ha iniziato – dice la donna col tono di chi impartisce un saggio insegnamento. – Fare a botte è sempre sbagliato.
– E allora – chiede lei, il cuore stretto come da una mano invisibile – perché non è in castigo pure Agaroo?
Fuori dalla porta l’inserviente sbuffa di nuovo: sta perdendo la pazienza. Finisce sempre così quando insiste, lo sa molto bene.
– Adesso piantala! – dice infatti la donna. – È così e basta. Tu ti meriti di stare lì dentro, punto. – Ha abbandonato il tono saggio, che del resto non le si addice affatto, e sta praticamente gridando. – E dovresti ringraziarci se poi ti tiriamo fuori, invece di fare domande!
Lei sente i passi dell’inserviente che se ne va; aspetta qualche secondo, trattenendo il fiato. Poi scoppia a piangere.
Azoleen rimase pervasa dalle sensazioni che quella memoria le aveva provocato. Era stata molto diversa da un comune ricordo.
Quando si ricorda un evento lo si guarda attraverso il vetro del tempo, via via sempre più spesso. I particolari sfumano, le impressioni si consumano, i fatti si diluiscono nell’acqua della memoria.
Soprattutto cambiano le sensazioni che il ricordo porta con sé.
Non si può in effetti ricordare una sensazione. Perché a rivivere il ricordo è sempre una persona diversa. Una persona cambiata, mutata, cresciuta. Una persona che non è più la stessa che ha vissuto la determinata esperienza che ora riporta alla mente, e che di conseguenza ne trarrà sensazioni mutate.
Non ci si bagna due volte nello stesso ricordo.
Ma la memoria di Azoleen era stata diversa. Era stata fresca, nitida, intensa. Le sensazioni che aveva portato con sé avevano la consistenza di fatti reali. Concrete e vive come se a provarle fosse la stessa bambina di allora. Come se il nastro del tempo si fosse riavvolto e lei fosse tornata ai suoi sette anni e mezzo, di nuovo al buio, in castigo, nello sgabuzzino. Era stato qualcosa di completamente differente dal ricordare una vecchia sensazione, era stato come riviverla, ritrovarla dopo anni intatta, bruciante, perfettamente uguale a se stessa.
Il nucleo di fuoco parve diventare ancora più rovente.
La ragazza rimase a lungo concentrata su quel ricordo, uscito così pulito dalle ceneri del suo passato.
Poi deglutì e con fatica prestò una vaga attenzione al presente.
Tanto era stato nitido il ricordo del passato, tanto il mondo che la circondava in quel momento le appariva confuso, fluttuante, pieno di nausea e sofferenza.
Si trovava pancia sotto, su alcune assi che traballavano e sobbalzavano facendola fremere di dolore. Dovette sforzarsi per capire che probabilmente era in un carro, diretto chi sa dove.
Aveva i vestiti bagnati e faceva freddo. L’odore del legno umido le impregnava le narici provocandole conati. Avrebbe voluto sollevare la testa per allontanarsi da quel puzzo ma non ci riusciva. Una debolezza insostenibile la teneva schiacciata a terra. Le braccia rotte le scaricavano in corpo ondate di dolore sordido, marcio. La sua mente prese a giraci intorno come un uccello impazzito.
Dolore.
Ossa rotte.
Braccia spezzate.
D’un tratto Azoleen fu sfiorata dal pensiero di come le sue braccia si erano rotte. Di chi era stato a farlo, di cos’altro era successo.
Un orrore insopportabile le rivoltò le viscere. La ragazza gemette, cercando disperatamente un modo per sfuggirgli, uno qualsiasi.
Fuggire.
Subito.
A ogni costo.
Sì, ma dove poteva fuggire nelle condizioni in cui si trovava?
Scoprì che questo problema all’apparenza insormontabile aveva in realtà una soluzione semplice.
La sfera di fuoco era lì, come in attesa di lei, come se la stesse aspettando. Richiamò a sé Azoleen con dolcezza, e lei vi si lasciò scivolare dentro. Senza riserva si abbandonò a quel fuoco che le prometteva tregua dal freddo, dalla sete, dalla nausea, dalle ossa rotte e da tutto l’orrore del presente.
Da quel fuoco si lasciò proiettare indietro nel tempo, in un mondo in cui il suo corpo martoriato non esisteva.
Dentro lo sgabuzzino prima o poi finisce col mettersi a fantasticare. È inevitabile, ed è anche un buon metodo per non stare lì a chiedersi di continuo quando verranno a farla uscire.
Di solito immagina che qualche parente sconosciuto arrivi a cercarla e la porti via, lontano. Può passare ore e ore a tessere trame, prima verosimili poi sempre più assurde.
Il suo protagonista preferito è lo Zio.
Lo Zio è un uomo alto ed elegante, ha due bei baffi neri e il sorriso pronto. Porta sempre un grosso tascapane pieno di dolcetti al fianco e ama fumare la pipa. Normalmente entra in scena sfondando una porta, a cavallo di un destriero elefantiaco; ma non le dispiace neanche la versione di lui a dorso del drago volante.
Il succo della cosa è sempre lo stesso: lo Zio arriva e la porta via, lontano da lì. Ma le variazioni sul modo sono molteplici, tutte ricche di particolari.
In questo momento sta evocando con grandissima precisione la variante in cui lei e lo Zio volano via sul drago e la direttrice dell’orfanotrofio viene colpita da una cascata di cacca proveniente fresca fresca dal sedere squamoso dell’animale. Ma l’idilliaca scenetta viene interrotta da un forte bussare contro la porta di legno. Sobbalza.
– Allora, sei pentita? – chiede una voce dall’inflessione acida.
Non fatica a darle un volto: si tratta senza dubbio di Magdalala, l’inserviente che in assoluto le sta più antipatica.
– Io sono pentita – dice lei, a voce acutissima – e Agaroo? Lei è pentita? – Certo non è la cosa più saggia da dire per uscire in fretta da lì dentro, lo sa bene ma non le importa, la dice comunque. Sente Magdalala sbuffare.
– Sei davvero intollerabile – dice la donna, poi borbotta fra sé e sé: – E con un nome empio come il tuo non vedo come potrebbe essere diverso!
Lei rizza le antenne.
– Un nome… – ma non finisce la frase, perché dal rumore di passi che si allontanano capisce che Magdalala è andata via. Un nome empio? Cosa significa empio? E perché Azoleen è un nome empio? Non sa cosa pensare. Forse Magdalala voleva dire ampio. Ma Azoleen non è poi così ampio. Meno di Magdalala, comunque.
Il carro sobbalzò e Azoleen serrò i denti per non gridare, ma non le fu poi così difficile trattenersi. Portare tutta la propria attenzione sul fuoco era facile, le veniva naturale. Era come se quell’incendio calamitasse il suo spirito e, visto che questo le permetteva di non prestare attenzione alle ossa rotte, lei non si opponeva di certo.
Il fuoco la sprofondava in un’altra dimensione, la guidava verso i ricordi e pareva nutrirsene. La riportava indietro, e lei si lasciava trasportare.
Anche se quei ricordi non erano molto gradevoli, erano sempre meglio delle schegge d’osso che le trapassavano le braccia.
Rivisitare un passato remoto, per quanto infelice, era sempre meglio che permettere alla propria mente di analizzare cosa le stava accadendo in quel momento e, soprattutto, cosa le era appena accaduto.
– Posso fare una domanda? – chiede, mentre una delle inservienti la sta tirando per un braccio per farla uscire dallo sgabuzzino.
– Falla – grugnisce questa, guidandola lungo il corridoio.
Lei si lascia trascinare, incespicando nel tentativo di stare al passo, gli occhi chiusi, accecati dalla luce.
– Azoleen vuole dire qualcosa? – chiede.
– Era il nome della figlia prediletta del fondatore di questo orfanotrofio – risponde la donna senza dilungarsi.
Lei resta qualche secondo in silenzio, come ad assorbire l’informazione, poi esita, soppesando se può azzardarsi a chiedere un’altra cosa: lì le domande non sono ben viste.
– Posso fare un’altra domanda? – chiede alla fine, cercando di ottenere una vocina accattivante.
L’inserviente grugnisce di nuovo e la bambina, interpretandolo come un sì, si affretta a domandare:
– Cosa vuol dire empio?
– Vuol dire malvagio, colpevole, peccatore – risponde la donna.
Lei non capisce: qualcosa le sta evidentemente sfuggendo.
– E perché Azoleen è un nome empio? – chiede d’impulso.
L’inserviente si ferma di botto e le strattona il braccio fino a portarsela di fronte. Lei cerca di decifrare l’espressione della donna, ma attraverso le palpebre ancora socchiuse non vede altro che luce accecante.
– Come ti salta in mente di dire una cosa del genere? – sbotta la donna adirata.
Lei, preoccupata, gli occhi ancora abbagliati, non sa cosa dire.
– È Magdalala che l’ha detto! – cerca di difendersi.
Lo schiaffo la coglie completamente di sorpresa e le si stampa sulla guancia con uno schiocco. Il dolore arriva subito dopo, bruciante. Poi l’inserviente la strattona e comincia a trascinarla nuovamente verso lo sgabuzzino, dove la richiude.
Ora è di nuovo al buio. La guancia le brucia e una macchia rossa è impressa nelle sue retine.
Azoleen scoprì che certi ricordi funzionavano meglio di altri nel distrarla dal dolore. Erano più avvolgenti, la proteggevano con più efficienza dal presente.
Questo era andato a meraviglia. La sfera di fuoco ruggiva più furiosa che mai, e quanto alle braccia spezzate, avrebbe potuto non averle affatto. Non sarebbe nemmeno riemersa dai ricordi se due piccole mani rugose e mollicce non le avessero toccato il volto.
Aprì gli occhi. Aveva la vista offuscata e nella penombra distinse a malapena una piccola figura coperta di stracci, china su di lei.
– Ti ho portato da bere, Fiorellino – disse la stessa voce che aveva sentito quando giaceva sotto la neve.
Azoleen non provò nulla per quella creatura, né rabbia per il sarcasmo con cui le si rivolgeva, né tanto meno gratitudine. Pareva che nel suo petto non ci fosse altro spazio se non per l’incendio che le divampava nel cuore. L’essere non parlò più, si limitò ad aprire con malagrazia la bocca di Azoleen e a versarci dentro un po’ d’acqua. La ragazza sentì il liquido scorrerle sulla lingua secca e tentò di deglutirne un po’. Tossì, e le scosse le inflissero un paio di stoccate di insopportabile dolore. Emise un gemito mentre fitte atroci le partivano dalle braccia e si dipanavano per tutto il suo corpo. Azoleen credette di morire, era insopportabile. Strinse i denti ed ebbe un conato di vomito. – Ehi, sei proprio un relitto – sbottò la creatura con tono divertito. La ragazza sentì la sfera di fuoco scaldarsi di nuovo e bruciare nel centro perfetto del suo essere. Come sommerso dal montare della marea, il dolore passò subito in secondo piano.
Ormai è tutto il giorno che sta nello sgabuzzino e ha già raggiunto il punto in cui la sete eclissa ogni altra necessità o desiderio.
Sete, Suprema Signora Dei Supplizi.
Lo sa bene, quando arriva il desiderio di bere non è in grado di pensare ad altro: la sua mente si posa su di esso e non riesce ad andare da nessun’altra parte. Eppure questa volta ha qualcosa in grado di distrarla…
Perché Magdalala ha detto che Azoleen era un nome empio? E soprattutto perché quando lei lo ha ripetuto si è beccata una punizione? Sospira. È forse l’ennesima dimostrazione di odio immotivato nei suoi confronti? L’ennesima ingiustizia?
O il motivo è diverso?
Si spreme le meningi. Certo può anche darsi che sia una di quelle cose da adulti: se lo dice un adulto va bene, ma se lo ripeti tu non va più bene… chissà?
È così concentrata sui propri pensieri che non si accorge dei passi che si avvicinano. Quando la porta si apre, sobbalza per lo spavento.
– Niente paura, sono io – dice una voce anziana.
Lei sorride e si lancia in avanti alla cieca.
– Piano, piano… – dice la voce. È quella dolce di Matila, l’unica inserviente che davvero le vuole bene. La donna la abbraccia. – Non posso farti uscire – dice – ma ti ho portato pane e latte…
Azoleen gemette, le braccia avevano ripreso a dolerle. La ragazza lottò contro le fitte, cercando di concentrarsi sul ricordo, ma le era improvvisamente difficile. L’immagine di Matila le fluttuava davanti, offuscata da ondate di sofferenza sempre più alte. Azoleen cercò di trattenerla con tutte le sue forze, di metterla a fuoco mentre il dolore cresceva. D’improvviso si rese conto che la sfera di fuoco si era intiepidita, come se il ricordo di Matila rendesse il rogo più debole. A tradimento le venne da piangere. Si sforzò con tutta se stessa di controllarsi, di ricordare ancora.
La porta si è richiusa, ma lei sa che Matila è ancora lì.
– Posso chiederti una cosa? – domanda.
– Dimmi, piccola.
– Secondo te perché Magdalala ha detto che…
Azoleen ebbe un conato e si contorse dal dolore. Non ci riusciva, stava troppo male. Il carro sobbalzò e lei vomitò un po’ di liquido acido, il ricordo di Matila spazzato via dalle insopportabili fitte alle braccia. Azoleen lasciò perdere e cercò disperatamente di rievocare il fuoco nel suo petto… quello sì aveva il potere di distrarla!
Ebbe qualche difficoltà, ma alla fine scivolò verso un ricordo diverso, un ricordo della sua adolescenza, dove Matila non c’era.
Un ricordo terribile.
Nel centro del cuore tornò subito a percepire il nucleo rovente e di nuovo non ci fu null’altro che non fosse quel punto di fuoco nel mezzo del suo io.
Azoleen si sentiva sparire tra quelle fiamme ed era un sollievo immenso alla sua sofferenza. Non sentiva più nulla, non era più nulla se non fuoco.
Ormai ha quasi sedici anni.
Non si può dire che sia una ragazza particolarmente attraente. È magra, pallida, piena di spigoli. Ha l’aspetto filaccioso di chi è cresciuto troppo in fretta mangiando troppo poco. Solo gli occhi sono davvero belli, neri, profondi; ma sul volto pallido e secco appaiono inquietanti, come due corvi in un campo innevato.
Ora si trova nell’ufficio della direttrice.
Quella stanza è come la sua proprietaria: lunga, austera, legata a brutte esperienze. Il pavimento è di parquet scuro, consumato dai piedi e dagli occhi delle centinaia di orfani che, nel corso degli anni, sono strisciati a testa bassa al cospetto della direttrice.
I muri sono spogli, anch’essi di legno. Gli unici elementi decorativi, se così possono definirsi, sono alcuni ritratti dello stesso uomo dal naso grifagno, sempre vestito di grigio: il fondatore dell’orfanotrofio. Contro la parete in fondo, a occuparla quasi tutta, troneggia l’enorme schedario che contiene i documenti di tutti gli orfani transitati da lì.
Gli unici altri arredi sono una poderosa scrivania e una sedia dall’aria scomoda. Non c’è altro posto per sedere, come se non fosse assolutamente previsto che chi entri in quell’ufficio abbia il diritto di accomodarsi.
Lei sospira. La direttrice è alla scrivania, la schiena ben dritta, sta prendendo appunti su alcuni fogli come se la sua presenza fosse qualcosa di scarsissimo rilievo.
– Mi ha fatto chiamare? – domanda. Nel petto ha una felicità insopprimibile, che nemmeno quella convocazione ha il potere di intaccare.
– Hm? – fa la direttrice senza nemmeno alzare gli occhi dalle sue carte. – Sì…
Lei fatica a prestare attenzione. In quei giorni le è proprio impossibile. È così felice che riesce a stento ad accorgersi di ciò che le sta intorno. Il motivo è semplice: il suo sedicesimo compleanno.
Mancano poche settimane ormai, poi avrà sedici anni e sarà libera di andarsene dall’orfanotrofio.
Il resto non conta.
Certo, fuori ad aspettarla ci sono fame, freddo e accattonaggio. Lo sa, non è ingenua, ma almeno potrà lasciarsi alle spalle quel posto infame. Lì tutti, eccetto Matila, la odiano. La odiano per un motivo che lei non conosce, per qualcosa in qualche modo legato al suo nome, al suo vero nome… ma ora questo non è più importante. Fra poco avrà sedici anni e sarà libera. Potrà lasciarsi tutto alle spalle.
– Sono venuti a prenderti – dice la direttrice.
Lei si riscuote dai propri pensieri.
– Come, scusi?
– Sono venuti a prenderti – ripete la direttrice scocciata.
Sono venuti a…? Per la seconda volta pensa di aver sentito male.
– Sono venuti a…? – È così assurdo che non riesce nemmeno a completare la frase. – Chi? Chi è venuto a… – Per un momento la sua mente vola ai parenti immaginari dell’infanzia. Che davvero esista un… lo… Zio? Che sul serio ci sia un qualcuno che…
– La Congrega della Bianca Luce – risponde la direttrice asciutta. – Ti porteranno nel loro Centro di Detenzione.
Ovviamente non ha capito bene.
Quasi le viene da ridere.
Non può aver capito bene.
– Mi… porteranno al loro c…
– Centro di Detenzione, sì, qui chi ha più di sedici anni non può stare – taglia corto la direttrice, sempre scrivendo note sui suoi fogli.
Lei continua a non capire. Non vuole capire, boccheggia come un pesce che cerca di respirare fuori dall’acqua. Nello stomaco la sensazione di vuoto di quando al buio si è convinti che ci sia uno scalino e invece lo scalino non c’è.
– Ma a sedici anni…– non sa cosa dire – …a sedici anni gli orfani sono liberi di andare dove vogliono, no? – Nel suo tono la disperazione è palpabile.
La direttrice mette via un plico di fogli con assoluta indifferenza.
– No, tu no – e mentre lo dice schiaccia col palmo della mano il campanellino che sta sulla sua scrivania: Ping!
Quei ricordi arroventavano il cuore di Azoleen tanto che la ragazza neanche si accorse che il carro si era fermato da un pezzo. Fuori c’era un vociare indistinto.
– È dentro… è messa proprio male – disse la voce di una delle due creature sovrastando il rumore. – Vedi un po’ se riesci a fare qualcosa, altrimenti la do da mangiare ai corck.
La tenda del carro venne scostata bruscamente e Azoleen riemerse di malavoglia dai ricordi.
Due creature la osservavano. Cercò di metterle a fuoco. Una era quella che l’aveva raccolta. Era piccola, ricoperta di stracci marroni anche sulla testa. Il viso era di colore verdastro e vi brillavano due piccoli, sfavillanti occhietti gialli, da animale notturno. La bocca era un lungo taglio senza labbra, costellato di piccoli, aguzzi dentini. Non aveva naso o, se lo aveva, Azoleen nella penombra non riusciva a vederlo.
L’altra creatura non l’aveva mai vista prima. Fumava una piccola pipa, era più grigia e rinsecchita della prima: doveva essere più vecchia, anche se indubbiamente appartenevano entrambe alla stessa specie.
– Allora, vale la pena tentare? – chiese la creatura più giovane.
Il vecchio trasse una boccata di fumo ed emise un mormorio dubbioso.
– Non so, Ernek, è messa male… ma gli umani hanno una buona capacità di ripresa se sono giovani. Vedi un po’ tu.
La creatura chiamata Ernek rimase in silenzio, come se stesse riflettendo sul da farsi.
– Cosa mi prendi per rimetterla in sesto? – chiese infine.
– Be’, direi che con le braccia ridotte così… siamo intorno ai trecento zirloti.
Ernek scoppiò a ridere.
– Trecento zirloti? Ma sei matto? – Scosse la testa come se il compagno avesse detto qualcosa di molto spiritoso. – Poi a quanto la devo vendere per rientrarci?
– Be’…– fece il vecchio, interrompendosi per soffiare una voluta di fumo – Con le ossa a posto puoi darla via a un buon prezzo.
Ci fu un breve silenzio, durante il quale le creature fissarono Azoleen, poi Ernek fece la sua proposta.
– Posso darti settanta zirloti. Altrimenti vado di sicuro in perdita netta.
L’altro scosse la testa.
– Aggiustare le ossa con la magia costa. Per settanta zirloti posso al massimo steccargliele a mano.
Altro silenzio. Forse Ernek stava prendendo in considerazione l’offerta. Azoleen aveva seguito la conversazione, ma la sua mente era lontana, come se nulla di quanto era stato detto la riguardasse minimamente.
– Non saprei – borbottò infine la creatura giovane. – Se gliele stecchi e basta è pure capace che mi crepa prima di arrivare al Mercato di Primavera…
Azoleen percepì nel tono di voce dell’essere la sua decisione: lasciava perdere, la lasciava morire. Non provò paura, tutt’al più un vago, lontano senso di sollievo: forse morire non sarebbe stato piacevole, ma le avrebbe risolto davvero un sacco di problemi.
– Guarda – disse il vecchio. – Giusto perché sei un amico, per settanta la stecco e le do anche un tonico magico. Non aggiusta le ossa ma la tiene un po’ su. Che ne dici?
Ernek sorrise, se quell’arricciarsi di bocca senza labbra poteva chiamarsi sorriso, e porse la mano.
– Ci sto – dichiarò col tono di chi è convinto di aver fatto un affare.
Azoleen sentì che il ricordo del suo ultimo giorno all’orfanotrofio la stava richiamando a sé. Non oppose resistenza.
Lo guarda entrare dalla porta e non riesce a crederci. È la prima volta che vede un troll. Certo ne ha sentito parlare, ma nella sua immaginazione non c’era abbastanza spazio per qualcosa di così mostruosamente enorme.
La creatura le si avvicina, lentissima. Sembra riempire tutta la stanza, come se lo spazio si stesse contraendo intorno alla sua massa smisurata per attrazione gravitazionale. Lei non tenta nemmeno di scappare, è come inchiodata al pavimento.
Il troll è alto quasi due metri, le braccia sproporzionatamente lunghe rispetto al corpo, la testa ridicolmente piccola posata su di un collo che sembra un tronco. Gli occhi sono minuscoli e ottusi, la pelle molle, di color verde marcio, gibbosa come quella di un enorme rospo.
Ma la cosa che la paralizza è la bocca. L’essere la tiene semiaperta e si vedono i denti giallastri, lunghi come pugnali, fuoriuscire gocciolanti di bava, con le angolazioni più improbabili.
Lo vede allungare un braccio, ma resta immobile, paralizzata. Un brivido di orrore la percorre mentre le mani della bestia la stringono, bloccandole le braccia e mozzandole il fiato. Sente le costole che scricchiolano, cerca di urlare ma non ha più aria nei polmoni ed emette solo un gemito.
– Piano. – Lo nota solo ora, lo vede sfocato tra le lacrime di dolore: un uomo barbuto, con una lunga tunica bianca, vicino al troll. L’uomo tocca la bestia con un corto bastone e ripete: – Piano. – Il troll emette un gorgoglio confuso. – Non stringere troppo – dice l’uomo, scandendo le parole.
L’essere grugnisce e allenta un po’ la presa. Lei non dimenticherà mai più quella sensazione orribile, sentirsi tra le mani di un essere al quale basterebbe un momento di distrazione per spezzarti la schiena come un legnetto.
Cerca di dibattersi mentre la bestia la porta fuori, ma è palesemente inutile. Fa in tempo a lanciare un ultimo sguardo alla direttrice che sta parlando con un secondo uomo vestito di bianco, poi sparisce dietro l’angolo. Meno di un minuto dopo è chiusa in un carro