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I racconti di Sebastopoli
I racconti di Sebastopoli
I racconti di Sebastopoli
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I racconti di Sebastopoli

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Ufficiale della 14ª brigata di artiglieria, Tolstoj partecipò a molte azioni della sfortunata epopea di Sebastopoli, con il suo spaventoso spreco di uomini e di mezzi, con la sua tragica conclusione che mise a nudo la debolezza della monarchia russa. Nascono da questo vissuto i tre Racconti di Sebastopoli, diversissimi nella struttura e nei materiali, ma assolutamente unitari nel tono e nella problematica: la denuncia dura, lucida, ferma dell'assurdità della guerra. La vera eroina dei tre episodi è la verità: una verità sgradevole, aspra, talora ripugnante, ma a cui Tolstoj non vuole rinunciare.
Edizione integrale con note, dotata di indice navigabile.
Dello stesso autore, per Sinapsi Editore: Amore e dovere, La morte di Ivan Il'ic, Resurrezione, Sonata a Kreutzer, I due ussari, Il taglio del bosco, Anna Karenina, Guerra e pace, Denaro Falso, Racconti e parabole, I piaceri viziosi.
LanguageItaliano
Release dateJan 9, 2019
ISBN9788829593446
I racconti di Sebastopoli
Author

Leo Tolstoy

Count Lev (Leo) Nikolaevich Tolstoy was born at Vasnaya Polyana in the Russian province of Tula in 1828. He inherited the family title aged nineteen, quit university and after a period of the kind of dissolute aristocratic life so convincingly portrayed in his later novels, joined the army, where he started to write. Travels in Europe opened him to western ideas, and he returned to his family estates to live as a benign landowner. In 1862 he married Sofia Behr, who bore him thirteen children. He expressed his increasingly subversive, but devout, views through prolific work that culminated in the immortal novels of his middle years, War and Peace and Anna Karenina. Beloved in Russia and with a worldwide following, but feared by the Tsarist state and excommunicated by the Russian Orthodox church, he died in 1910.

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    I racconti di Sebastopoli - Leo Tolstoy

    I RACCONTI DI SEBASTOPOLI

    Lev Nikolaevič Tolstoj

    Traduzione dal russo di Enrichetta Carafa Capecelatro

    © 2019 Sinapsi Editore

    SEBASTOPOLI

    NEL DICEMBRE DELL’ANNO 1854

    L’aurora comincia appena a tingere l’orizzonte sopra al monte Sapun; la superficie azzurro-cupa del mare ha già rigettato da sé il tenebrore della notte e aspetta il primo raggio di sole per far giocare il suo allegro scintillio: dalla baia viene freddo e nebbia: neve non ce n’è, tutto è nero, ma la rigida gelata mattutina pizzica il viso e scricchiola sotto i piedi, e il lontano, incessante scroscio del mare, interrotto di tanto in tanto dai colpi che rombano a Sebastopoli, è solo a violare il silenzio della mattina. Sui bastimenti tutto sembra morto: batte l’ora ottava.

    Sulla Sjèvernaja l’attività diurna comincia a poco a poco a sostituirsi alla quiete della notte: dove si fa il cambio della guardia con rumore di fucili, dove il dottore si affretta verso l’infermeria, dove un soldatino sbuca fuori da un ricovero, si lava con acqua gelata il viso abbronzato e, voltandosi verso l’oriente che si arrossa, fa in fretta il segno della croce e prega Dio; dove l’alta, pesante madzara¹ tirata da cammelli si avvia cigolando al cimitero a seppellire i cadaveri insanguinati di cui è carica fin quasi al sommo. Vi avvicinate al porto: vi colpisce uno speciale odore di carbon fossile, di concime, di umido e di carne di bue; mille cose diverse, legna, carne, farina, ferro, ecc., stanno a mucchi intorno allo sbarcatoio; soldati di diversi reggimenti con sacchi e fucili, o senza sacchi né fucili, si affollano là, fumano, gridano, trascinano pesi sul vapore che, fumando, sta presso al molo; svelti canotti, pieni di ogni specie di gente, soldati, marinai, venditori, donne, vanno e vengono dal porto.

    «Alla Gràfskaja, vostra nobiltà? Favorite». Due o tre marinai in congedo, alzandosi in piedi nelle barche, vi offrono i loro servizi.

    Voi scegliete quello che vi è più vicino, scavalcate la carogna semiputrefatta di un cavallo baio che giace nel fango accanto alla barca, e andate a mettervi al timone. Vi staccate dalla riva. Intorno a voi il mare già risplende nel sole mattutino; davanti, un vecchio marinaio, in un pastrano di pelo di cammello, e un ragazzo dai capelli chiari lavorano attivamente di remi, in silenzio. Guardate le enormi navi dipinte a strisce, sparse vicino e lontano nella baia, i piccoli canotti neri che si muovono per l’azzurro splendente, e le belle, luminose costruzioni della città, colorate dai rosei raggi del sole mattutino, che appaiono da quella parte, la linea di spuma bianca che circonda il molo e le navi colate a fondo, delle quali emergono tristemente qua e là le punte nere degli alberi, e la lontana flotta nemica, che si estenua là, all’orizzonte cristallino del mare, e gli spruzzi di spuma nella quale saltellano le bolle d’acqua salsa sollevate dai remi; udite i suoni monotoni delle voci che giungono sull’acqua fino a voi, e i rumori imponenti degli spari, che vi sembrano intensificarsi a Sebastopoli.

    Non è possibile che, al pensiero di essere a Sebastopoli, non penetri nell’anima vostra un senso di orgoglio virile, il sangue non circoli più rapidamente nelle vostre vene.

    «Vostra nobiltà! Appoggiate direttamente sul Costantino²», vi dice il vecchio marinaio, volgendosi indietro per verificare la direzione che voi date alla barca col timone.

    «Ci sono ancora tutti i cannoni», osserva il ragazzo dai capelli chiari, mentre si passa davanti a una nave, esaminandola.

    «E come no? È nuova, e ci ha vissuto Kornìlov», osserva il vecchio guardando la nave anche lui.

    «Guarda dove è scoppiata!» dice il ragazzo, dopo un lungo silenzio, guardando una bianca nuvoletta di fumo che si dilegua, apparsa a un tratto in alto sulla rada meridionale e accompagnata dal rumore deciso di una bomba che scoppia.

    «È la batteria nuova che spara oggi», soggiunge il vecchio, sputandosi in mano con indifferenza. «Su, forza, Mìska, oltrepasseremo la zattera».

    E la vostra barca avanza più rapidamente sul largo increspamento della baia, oltrepassando difatti la pesante zattera dove sono ammucchiati dei sacchi e che dei soldati manovrano goffamente, e fra una quantità di imbarcazioni di ogni specie ormeggiate si accosta alla calata Gràfskaja.

    Sulla riva si muovono rumorosamente folle di soldati grigi, di marinai neri e di donne variopinte. Delle donne vendono ciambelle, dei contadini russi, coi samovàr, gridano: «Sbiten bollente³», e lì presso, sui primi gradini dello scalo sono ammucchiate palle di cannone arrugginite, bombe, mitraglia e cannoni di bronzo di diverso calibro; un po’ più lontano è un grande spazio dove sono sparsi enormi travi, affusti di cannone, soldati che dormono; ci stanno dei cavalli, carri, pezzi di artiglieria, cassoni verdi, fasci di fucili di fanteria; è un viavai di soldati, di marinai, di ufficiali, di donne, di bambini, di venditori; passano carretti carichi di fieno, di sacchi, di barili; ogni tanto passano un cosacco e un ufficiale a cavallo, un generale in vettura. A destra una strada è sbarrata da una barricata, sulla quale stanno alcuni piccoli cannoni alle feritoie, e accanto ad essi è seduto un marinaio che fuma la pipa. A sinistra, una bella casa, con lettere romane sul frontone, sotto alla quale stanno soldati e barelle insanguinate, – da per tutto vedete le tristi tracce d’un accampamento militare. La vostra prima impressione sarà senza dubbio sgradevole: quello strano miscuglio di vita di campo e di vita di città, di una bella città e di un lurido bivacco, non soltanto non è bello, ma sembra un ripugnante disordine, vi pare anzi che tutti siano spaventati, affaccendati e non sappiano che cosa fare. Ma guardate meglio in viso questa gente che si muove intorno a voi, e capirete tutt’altra cosa. Guardate magari quel soldatino del treno che conduce a bere tre cavalli bai e canticchia fra i denti qualche cosa con tanta tranquillità che di certo non potrà smarrirsi in quella folla eterogenea che per lui non esiste nemmeno, ma farà il suo dovere, qualunque esso sia – abbeverare cavalli o trascinare cannoni, – con tanta tranquillità, sicurezza e indifferenza come se tutto ciò accadesse a Tula o a Saransk. La stessa espressione la leggete anche nel viso di quest’ufficiale che in impeccabili guanti bianchi vi passa accanto, e nel viso del marinaio che fuma, seduto sulla barricata, e nel viso dei soldati che aspettano con le barelle alla porta dell’ex circolo, e nel viso di questa ragazza che, temendo di bagnarsi il vestito color di rosa, traversa la strada saltando di pietra in pietra.

    Sì! Immancabilmente vi aspetta una delusione, se venite per la prima volta a Sebastopoli. Invano cercherete, sia pure su di un solo viso, tracce di preoccupazione, di snervamento, oppure di entusiasmo, di sacrificio, di risolutezza, – niente di tutto ciò: vedrete la gente di ogni giorno occupata nelle sue faccende di ogni giorno, sicché forse vi rimprovererete il vostro eccessivo entusiasmo, concepirete qualche dubbio circa la giustezza dell’idea che, sull’eroismo dei difensori di Sebastopoli, si è formata in voi dai racconti, dalle descrizioni, da quello che vedete e che udite dalla Sjèvernaja. Ma prima di dubitare andate sui bastioni, guardate i difensori di Sebastopoli proprio sul luogo della difesa, o, meglio ancora, andate direttamente là di faccia, in quella casa che prima era il circolo di Sebastopoli, e alla porta della quale stanno soldati con barelle: vedrete là i difensori di Sebastopoli, vedrete là spettacoli terribili e tristi, grandiosi e bizzarri, ma che fanno stupire e che elevano l’anima.

    Entrate nella gran sala del circolo. Appena aperta la porta, siete subito colpiti dalla vista e dall’odore di quaranta o cinquanta amputati o feriti gravi o ammalati, alcuni dei quali sulle brande, la maggior parte per terra. Non date retta al sentimento che vi trattiene sulla soglia della sala, – è un brutto sentimento: andate innanzi, non vi vergognate al pensiero che avete l’aria d’esser venuto a vedere i sofferenti, non vi vergognate di andare oltre e parlare con loro: gl’infelici amano vedere un essere umano che li compatisca, amano raccontare le loro sofferenze e ascoltare parole di affetto e di simpatia. Voi camminate in mezzo alle file dei letti e cercate un viso meno severo e meno sofferente al quale potervi avvicinare per discorrere.

    «Dove sei ferito?» domandate, indeciso e timido, a un vecchio soldato smunto che, seduto in un letto, vi segue con uno sguardo bonario che sembra invitarvi ad andargli vicino. Dico: domandate «indeciso e timido» perché la sofferenza, oltre a un profondo interessamento, ispira, chi sa perché, paura di offendere e un alto rispetto verso colui che la sopporta.

    «Alla gamba», risponde il soldato; ma in quel medesimo momento voi stesso vi accorgete dalle pieghe della coperta che la sua gamba è stata tagliata al disopra del ginocchio. «Sia lodato Dio», egli aggiunge, «voglio andar via».

    «È un pezzo che sei stato ferito?».

    «Sono ormai sei settimane, vostra nobiltà».

    «E ora ti duole?».

    «No, ora non mi duole; soltanto mi pare che mi faccia male il polpaccio, quando il tempo è cattivo; se no, non sento nulla».

    «E come fosti ferito?».

    «Sul quinto bastione, vostra nobiltà, quando ci fu il primo bombardamento; avevo puntato il cannone, stavo per ritirarmi verso un’altra cannoniera, quando fui colpito alla gamba, proprio come se avessi messo il piede in una buca guardo, la gamba non c’è più.».

    «E non sentisti dolore in quel primo momento?».

    «No: solo come se mi avessero dato sulla gamba con una cosa rovente».

    «E poi?».

    «E poi nulla: soltanto quando mi tirarono la pelle, sentii come se mi scorticassero. La prima cosa, vostra nobiltà, è di non pensare a nulla: se non pensi, è nulla. Tutto sembra più grave, se ci si pensa».

    In quel momento viene verso di voi una donna con un vestito grigio: rigato e con un fazzoletto nero intorno al capo; essa entra nel vostro discorso col marinaio e comincia a raccontare di lui, delle sue sofferenze, dello stato disperato in cui si è trovato per quattro settimane, e come, ferito, fece fermare i portatori della barella per osservare il tiro della nostra batteria, come i granduchi hanno parlato con lui e gli hanno regalato 25 rubli, e come egli ha detto loro che voleva tornare al bastione per istruire i giovani, anche se lui stesso non poteva più lavorare. Mentre dice tutto ciò d’un fiato, questa donna guarda ora il marinaio, il quale, voltato da un’altra parte, come se non ascoltasse, prepara delle filacce sul suo guanciale, e gli occhi di lui risplendono di un entusiasmo particolare.

    «È la mia donna, vostra nobiltà!», vi osserva il marinaio, con un’espressione che sembra dire: «Scusatela. Si sa, le donne dicono parole sciocche».

    Voi cominciate a comprendere i difensori di Sebastopoli: vi viene, chi sa perché, una certa vergogna di voi stessi davanti a quell’uomo. Vorreste dirgli moltissime cose per esprimergli la vostra simpatia e la vostra ammirazione; ma non trovate parole o non siete soddisfatto di quelle che vi vengono in mente, e in silenzio v’inchinate a quella taciturna, inconsapevole grandezza e fermezza d’animo, a quel pudore davanti al proprio merito.

    «Su, che Dio ti faccia guarire presto», gli dite e vi fermate davanti a un altro infermo che giace in terra e che pare aspetti la morte in mezzo a intollerabili sofferenze.

    È un uomo biondo, con un viso gonfio e pallido. Giace supino, col braccio sinistro piegato indietro, in un atteggiamento che esprime una crudele sofferenza. La bocca aperta e arida manda fuori con fatica un respiro rantoloso; gli occhi azzurri e vitrei sono rivolti in su, e di sotto alla coperta scivolata giù spunta un moncherino del braccio destro, ravvolto nella fasciatura. Un odore greve di cadavere vi colpisce più fortemente, e la febbre interna che brucia e penetra tutte le membra del sofferente pare che penetri anche in voi.

    «È senza conoscenza?», domandate alla donna che viene dietro a voi e vi guarda affettuosamente, come foste un suo parente.

    «No, ci sente ancora, ma molto male», mormora ella. «Oggi gli ho fatto bere un po’ di tè. E che? benché sia un estraneo, pure bisogna aver pietà. Ma ne ha bevuto appena».

    «Come ti senti?», gli domandate.

    Il ferito volge le pupille alla vostra voce, ma non vi vede e non vi capisce.

    «Gli brucia il cuore».

    Un po’ più in là vedete un vecchio soldato che si muta la biancheria. Il suo viso

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