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Janko
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Ebook163 pages2 hours

Janko

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About this ebook

Ernesto Janko non ha passato, non ha radici né ha parenti; in Italia nessun'altro porta il suo nome. Ma lui non ha mai avuto il coraggio di affrontare il mistero delle proprie origini: la fuga di suo padre prima ancora che nascesse è una ferita tuttora aperta. Adesso, però, un pericolo incombente lo costringe a uscire dal suo torpore. Si metterà all'opera con decisione e al termine della propria odissea, tra ripensamenti e colpi di scena, saprà portare alla luce una sconcertante verità e una nuova vita.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 7, 2019
ISBN9788827864807
Janko

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    Janko - Tommaso Le Pera

    Janko

    Da qualche parte in Cadore

    Qual è il segreto per avere successo in una grande impresa, evitando di vivacchiare alla bell’e meglio, o peggio di naufragare senza scampo alla prima uscita? È possibile riuscirci per un individuo senza esperienza, che viene da fuori, che non conosce il luogo che ha scelto per sfondare?

    È difficile ma non impossibile, se si è animati da una volontà sconfinata, da una motivazione bruciante e se sei abbastanza umile da non ripetere gli errori di chi ha fallito, imitando invece i più fortunati nel loro segreto sulla via del successo.

    Tu guarda un rapper famoso; viene spesso dai ghetti di una megalopoli statunitense, ripete la stessa frase sgrammaticata fino alla nausea, non si vergogna di stonare ogni due versi, eppure ha decine di milioni di fan, ragazzi che sognano di diventare stonati, sgrammaticati e famosi come lui. La verità è che quella è gente risoluta, non lascia nulla al caso, pianifica ogni passo con cura, sforzandosi di interpretare e tradurre in ritmo la rabbia e le aspirazioni dei suoi ammiratori.

    Lui una bozza dei passi indispensabili da percorrere l’aveva già in testa da tempo. Si trattava di metterla giù nero su bianco e svilupparla con cura. Il tempo non gli mancava. Prese un foglio di carta, si sedette al tavolaccio dell’unico ambiente di quella baracca sconnessa, annegata nel bosco, e cominciò a stendere i titoli del suo piano.

    Per prima cosa, i contatti giusti. Senza conoscenze nell’ambiente non riesci neanche a ottenere un’audizione, altro che successo. Spuntò il primo titolo: per fortuna conosceva le persone adatte a cui rivolgersi.

    Il passo successivo era quello di procurarsi gli strumenti. Anche qui, pochi problemi, aveva da parte i soldi sufficienti. Le prime difficoltà venivano al momento di procurarsi una base – senza base ritmica non si fa rap –, o per meglio dire di qualcuno che gliela componesse. Non che fosse una scelta determinante, ma doveva comunque trattarsi di una persona competente.

    Ai testi e allo stile ci avrebbe pensato lui, sapeva già come. Un approccio tosto – ci mancherebbe altro, il rap romantico è un controsenso –, ma nello stesso tempo ironico, o meglio beffardo, da lasciare il segno. Doveva raggiungere direttamente lo stomaco di chi l’avrebbe ascoltato, non le orecchie.

    A questo punto, via alle prime esibizioni in provincia, e qui si giocava il tutto per tutto. Si sarebbe reso subito conto se la ruota della fortuna girava per il verso giusto, dall’eco dei media e dai like dei primi fan.

    Se fosse andato tutto come sperato, se la popolarità fosse aumentata ad ogni uscita, se nei mercatini avessero messo in vendita le t-shirt col suo nome, allora poteva ambire al passo decisivo. Il Grande Concerto.

    Avrebbe formato la propria band scegliendo con cura, uno per uno, tutti gli elementi. Avrebbe individuato l’arena in cui cimentarsi, sulla piazza più sfidante e prestigiosa. Avrebbe mandato in scena una performance indimenticabile, tale da costringere milioni di coetanei a stare con gli occhi incollati allo schermo per ore.

    E da quel giorno nessuno l’avrebbe più fermato.

    Capitolo 1

    Un, du. Un, du. Un, du.

    Non era ancora metà giugno. Primavera, quindi. Ma il clima, ormai da anni, non aveva più rispetto dell’incedere regolare delle stagioni. Il mercurio della colonnina s’inerpicava ogni giorno più in alto, come un saltatore ben allenato e in vena di record. Non pioveva da mesi e le goccioline d’acqua, indecise sul da farsi, se ne stavano sospese a mezz’aria nell’atmosfera, velando il sole. Il caldo non si poteva sopportare.

    In città, i pochi passanti facevano freneticamente la spola da un supermercato all’altro. Non erano ancora pervasi dalla frenesia degli acquisti di abbigliamento alla moda o di nuove attrezzature balneari, in vista delle ferie di agosto; più semplicemente cercavano di ritemprarsi al refrigerio gratuitamente offerto dagli impianti di condizionamento che ronzavano a tutta forza in quei locali.

    Un, du. Un, du. Un, du. Passo!

    Ernesto soffriva ormai da mezz’ora nella sala d’attesa della caserma dei Carabinieri, attigua alla Scuola Allievi dell’Arma, in Via Cernaia a Torino.

    Il tempo scorreva senza fretta, scandito dagli ordini secchi che provenivano ritmicamente dalla finestra spalancata.

    Si era tolto la giacca, aveva allentato il nodo alla cravatta e di tanto in tanto si affacciava a prendere aria e ad osservare le esercitazioni che si svolgevano all’interno dell’enorme cortile sottostante.

    I plotoni degli allievi marciavano senza sosta, disegnando traiettorie casuali, ma attente ad evitare la collisione. Visti dall’alto, quei quadrati erranti gli ricordavano uno dei primi videogiochi, un ricordo dell’infanzia. Si chiamava Snake, un serpente che si muove costantemente nello schermo, rimbalzando ai bordi, e deve evitare di andare a sbattere contro gli ostacoli, ma soprattutto contro se stesso, pena l’uscita dal gioco.

    Gli aspiranti Carabinieri indossavano pesanti anfibi e tute da esercitazione nere, quanto di meno appropriato in quella calura impietosa. I meno in forma grondavano sudore, avevano il volto paonazzo e lanciavano muti sguardi imploranti in direzione degli inesorabili sottufficiali che li comandavano. Alcuni si erano definitivamente arresi e se ne stavano a capo chino all’ombra dei tigli disposti con regolarità ai lati del piazzale.

    Le più imperturbabili sembravano le ragazze. Forse non erano particolarmente resistenti alla fatica e all’afa, ma sicuramente le sosteneva la motivazione di competere ad armi pari con il sedicente sesso forte.

    Cadenza: Sinist. Sinist. Sinist, Dest, Sinist.

    Ad ogni ordine impartito, gli allievi battevano con forza il piede indicato sul terreno, ma il fragore che ne veniva pareva un crepitio, più che un tuono. Non andavano all’unisono.

    Ernesto sorrise; dopo quasi un anno di addestramento non potevano essere a corto di preparazione. Erano esausti.

    In quel momento la porta della stanza prospiciente l’anticamera si socchiuse e spuntò una mano. Dal movimento ripetuto dell’indice, Ernesto comprese di essere invitato ad entrare.

    Quando si sedette di fronte alla spartana scrivania, gli fu subito chiaro che il militare seduto davanti a lui non faceva parte del corso di formazione. Era decisamente fuori condizione atletica, i bordi della camicia estiva tesi all’attaccatura dei bottoni, e le marce in cortile costituivano per lui un vago ricordo. Nonostante questo, i pochi capelli appiccicati alla fronte dal sudore parevano la degna conseguenza di una mezza maratona d’agosto.

    Generalità, si limitò a chiedere, senza fronzoli né entusiasmo.

    Ernesto Janko, fu la risposta altrettanto sbrigativa.

    Ernesto è il cognome?

    Non direi proprio.

    Janko Ernesto, sillabò l’altro, riempiendo gli spazi vuoti di un modulo precompilato. Si dice prima il cognome e poi il nome, non lo sa?

    Ernesto sollevò gli occhi in alto, sconsolato. Nel farlo incrociò lo sguardo corrucciato del Presidente della Repubblica, che lo osservava con riluttanza da una foto appesa al muro, alle spalle del carabiniere. Per l’esattezza la foto ritraeva il mezzobusto della massima carica istituzionale del settennato precedente e non era ancora stata sostituita.

    Così lui sarebbe Napolitano Giorgio, ammiccò, sollevando l’indice in direzione della parete.

    Non mi sembra che lei sia nelle condizioni di fare lo spiritoso, lo apostrofò l’altro, seccato. Mi dica piuttosto data e luogo di nascita, indirizzo di residenza e cosa faceva esattamente mercoledì tre maggio alle ore 11,30.

    Appuntato, sbottò a questo punto Ernesto. Appuntato Sportiello, è la terza volta che mi convoca, questo mese. E ogni volta mi rivolge le stesse domande. Ormai siamo quasi diventati amici, le risposte dovrebbe conoscerle a memoria. Sa esattamente come mi chiamo, dove sono nato, dove abito e sa anche che tutti i giorni lavorativi, dalle 8 di mattina alle 6 di sera lavoro in FCA.

    L’appuntato Sportiello ripose rassegnato il modulo nel cassetto, incrociò le braccia e si limitò a mormorare:

    Effe Ci A…

    FCA è la Fiat, appuntato, a Mirafiori.

    Effe Ci A… continuò imperterrito l’altro, poi tirò fuori Tuttosport da un altro cassetto e concluse: L’aspetta il capitano Adani, terza porta a sinistra.

    Ernesto fece per salutarlo, ma ormai l’appuntato Sportiello era immerso nella lettura della campagna acquisti del Napoli, a pagina 32 del quotidiano sportivo torinese.

    Il capitano Adani possedeva un viso aperto e sorridente, con corti capelli biondi e baffi dello stesso colore che incorniciavano l’espressione serena stampata sul volto. Si alzò dalla sedia e gli venne incontro con la mano tesa, battendogli due volte la spalla con la sinistra, come si fa con un amico che non si vede da tempo.

    Dottor Janko, aspettavo proprio lei. Venga, si accomodi. A proposito, la corretta pronunzia del suo nome ė Ianco o Gianco?

    Mah, mia mamma mi ha sempre detto Ianco, rispose Ernesto, accogliendo l’invito a sedersi.

    Questa volta la scrivania era di un certo pregio, di noce antico trattato con la cera da una mano esperta. Il resto dell’arredamento era semplice e ordinato, niente a che vedere con l’assieme di faldoni disposti a caso negli scaffali dall’appuntato Sportiello. Sul muro, accanto ad una vecchia bandiera di battaglia sotto vetro, era appeso un ritratto di Sergio Mattarella, il presidente in carica corretto.

    Non le faccio perdere tempo, dottore, so bene che abbiamo tutti da fare. Le pongo una sola domanda: lei cosa se ne fa di tutte quelle pistole?

    E Adani attese la risposta con aria impertinente e divertita, quasi avesse chiesto a Ernesto il numero di telefono privato di Belén Rodriguez.

    Io cosa me ne faccio di tutte quelle pistole? si limitò a ripetere Ernesto, preso alla sprovvista e spaventato dalla richiesta.

    Ha capito bene. Da febbraio ad oggi lei ha acquistato un arsenale, per l’esattezza ha comprato 12 pistole, con una particolare predilezione per la Beretta 92, la Colt 1911 e la Glock 17. Niente di illegale, per carità, lei ė in possesso di regolare porto d’armi rilasciato dal Prefetto. Diciamo che la mia è semplice curiosità.

    Io in possesso del porto d’armi? Sta scherzando? Io non ho mai posseduto il porto d’armi o una pistola in vita mia! Dove avrei fatto questi acquisti?

    Fingendo di non ricordarlo, Adani prese a consultare un foglio estratto dal fascicolo che teneva appoggiato davanti a sé.

    Praticamente in tutte le provincie del Veneto e della Lombardia orientale. L’ultima pistola, una Glock, l’ha comprata a Vicenza due settimane fa. Ha esibito un documento di riconoscimento e ha pagato con una carta di credito. Tutto a posto.

    Ernesto stava cominciando a realizzare di essersi cacciato in un pasticcio colossale a sua completa insaputa. Le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte erano fredde e un tic inconsueto lo obbligava a battere ritmicamente la punta del piede destro. Tuttavia mantenne il controllo, rispose al sorriso del suo interlocutore con identica espressione e, allargando le braccia, ribatté:

    Andiamo, capitano, io con tutta questa storia non c’entro per niente e lei lo sa bene. Non posso credere che i suoi uomini non abbiano controllato i miei spostamenti e i miei conti bancari. Si tratta sicuramente di un banale scambio d’identità.

    Adani aveva l’apparenza sempre più divertita. Più che un’indagine dai contorni inquietanti, pareva svolgersi in quella stanza un gioco di ruoli zeppo di colpi di scena.

    In effetti, qualcosa non quadra, ammise. "La carta d’identità ė risultata essere falsa. La carta di credito si appoggia a un conto corrente realmente esistente, anche se aperto con il documento fasullo. Il conto viene alimentato con versamenti regolari da Bancomat. Abbiamo visionato le

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