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Il faro che sapeva di mare
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Ebook519 pages6 hours

Il faro che sapeva di mare

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About this ebook

Sicilia, anni '60. La vita di un fanciullo scorre serena lungo la costa ionica della Sicilia, tra lo Stretto di Messina e l'isola di Ortigia, centro storico di Siracusa. Tra le pagine di questo libro vivrai le vicissitudini del padre sommergibilista della Regia Marina e indugerai all'interno dell'osteria del nonno paterno, fra vecchietti che giocano a tressette e botti di zibibbo. L'umile nonno materno racconterà, incredulo, come si sia salvato dall'ecatombe di Caporetto, combattendo una guerra che non gli apparteneva. Attorno a loro il brulicare dell'attività dei mezzadri chini sull'avara terra, nei poderi recintati da interminabili muretti a secco e dei pescatori che cercano sostentamento sul mare, pericoloso e prezioso. Il mare è il coprotagonista presente trasversalmente in tutta la narrazione. Il vecchio guardiano del faro custodisce storie di equipaggi salvati o di rovinosi naufragi contro scogliere assassine. Questo nonno adottivo aiuterà il fanciullo a realizzare il grande sogno di incontrare il Faro di S. Raineri sullo Stretto di Messina.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 3, 2019
ISBN9788827862384
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    Il faro che sapeva di mare - Sebastiano Urso

    siciliani

    La ricchezza e la serenità spirituale

    derivano dall’essere bambini e adulti

    capaci di narrare e ascoltare

    A Marta e Giulia

    Alla mia famiglia

    A mia moglie Anna Rita

    Quasi tutte le immagini pubblicate sono di dominio pubblico. Mi scuso per involontarie inosservanze delle regole del copyright.

    È meritevole di menzione il contributo di foto tratte dall’archivio personale del Dott. Giovanni Raciti e delle immagini pubblicate sui gruppi Facebook: Siracusa da fine ‘800 agli anni ‘70 e non oltre e Messina: com’era e com’è.

    Sono grato a mia cugina, Arch. Giovanna Mangano, autrice di alcuni scatti fotografici con scorci paesaggistici siracusani.

    Esprimo riconoscenza a mia cugina, Dott.ssa Daniela Macca, per l’attenta e professionale revisione del testo.

    Ringrazio con gratitudine il Maestro Luigi Boccardi che mi ha permesso di pubblicare cinque suoi pregevoli disegni, ispirati ad alcuni passi del testo.

    Il disegno sulla quarta di copertina è un’opera giovanile di Stefania Agus, ormai lanciata verso più pregevoli orizzonti professionali.

    La foto di copertina ritrae il sottoscritto ed è datata 25 dicembre 1959.

    www.sebastianourso.com

    nuccio.urso@gmail.com

    Instagram: #alfa159lj

    Facebook: Urso Sebastiano

    Sebastiano Urso

    Il faro

    che sapeva

    di mare

    Ricordi reali e fantasie su cose, fatti e persone della Sicilia negli anni ‘60

    Youcanprint Self-Publishing

    Il faro che sapeva di mare

    © 2019 - Sebastiano Urso

    ISBN | 978-88-27856-12-3

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il

    preventivo assenso dell’Autore.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Presentazione

    Ognuno di noi ha un suo libro segreto nel cassetto; il guaio di mio marito Nuccio è che lui l’ha tirato fuori o uscito… come dicono in Sicilia, strapazzando il verbo intransitivo!

    Perché è di Sicilia e di siciliani che si parla; di persone che ancora esistono o sono da poco scomparse… di luoghi irrimediabilmente cambiati nel tempo.

    Per evitare che entrino nell’oblio o per farli rivivere nella memoria di chi ne è stato protagonista, anche solo per poco, è nato questo libro.

    Il quale ha riposato a lungo in quel cassetto; è stato ripreso in mano varie volte nel corso degli anni sino a vedere finalmente la luce ultimamente, anche per l’insistenza dei familiari e degli amici che da tempo sollecitano l’autore a pubblicare il frutto del suo impegno.

    Per me è stata una piccola fatica, ed una immensa gioia, aiutarlo a leggere, rileggere, correggere e limare frasi e pensieri scritti di getto… ma in perfetto italiano.

    Il risultato vale veramente la pena di essere gustato ed apprezzato, soprattutto da coloro che appartengono alla sfera affettiva dell’autore o, semplicemente, da chiunque ami il mare, un faro… le cose e persone della Sicilia!

    Auguro che questa lettura sia un gradito e godibile intrattenimento.

    Anna Rita Mondazzi

    Introduzione dell’autore. Ringraziamenti.

    Chiddu ca è scrittu lèggiri si po’…

    ‘I paroli su comu ‘i cirasi, una ni nesci e n’ autra ni trasi

    Per non annoiare troppo un intrepido lettore ho limitato la narrazione agli eventi della mia fanciullezza, risalenti ai lontani anni sessanta.

    I luoghi dell’ambientazione sono fortemente radicati in me: la Sicilia Orientale, le Isole Eolie, lo Stretto di Messina e Siracusa, città natale di tutta la mia famiglia d’origine.

    Ho trascorso i primi anni di vita a Ortigia, l’isolotto sul quale sorge il centro storico di Siracusa. Le finestre della mia casa si affacciavano sulla darsena dei calafatari, che rappezzavano con il catrame le fessure fra il fasciame delle barche di legno. In quell’approdo i maestri d’ascia, con abili movimenti, tagliavano e curvavano sul fuoco le tavole piallate, per dar forma agli scafi.

    Sono cresciuto a Messina, su quella striscia di terra chiamata Zona Falcata, per la caratteristica forma di falce della penisola, insinuata in mezzo allo Stretto, tra la Sicilia e la Calabria; fra i perenni vortici di Scilla e Cariddi. La casa dove abitavo era incuneata tra il mare e il Cantiere Navale Rodriquez, circondata da aliscafi in costruzione, all’interno del golfo con il porto naturale di Messina.

    Nella stesura del testo, essendo convinto che avrei avuto difficoltà a scrivere seguendo soltanto la mia immaginazione, ho preferito cimentarmi prevalentemente nella descrizione di avvenimenti reali.

    I fatti descritti sono davvero accaduti. Quasi tutti. Ma non tutti!

    Infatti, mi sono volutamente imposto di alternare l’esposizione di eventi effettivamente avvenuti con passi del tutto inventati, per mettere alla prova quella fantasia che credevo latitasse nella mia indole.

    A volte mi sono compiaciuto di puntualizzare la sicilianità delle descrizioni e dei dialoghi, utilizzando colorite espressioni dialettali, al fine di rendere più veritiere alcune conversazioni.

    Vorrei indicare il mare, il mio Mare, come un protagonista privilegiato, motivo ispiratore dell’intera narrazione.

    È lui l’elemento che suscita in me le forti sensazioni che ho tentato di trasmettere. A volte è descritto sornione e trasparente, mentre accarezza la sua riva. Più spesso, istigato dallo Scirocco o dal Maestrale, si avventa sul litorale, agitato e spumeggiante.

    Anche un altro elemento, a me particolarmente caro, è diventato attore della narrazione: il Faro di San Raineri, sullo Stretto di Messina, onnipresente nei paesaggi descritti, in virtù della sua ingombrante mole e della posizione geografica, che lo rende visibile a molte miglia di distanza.

    Il titolo da me scelto per questo lavoro doveva assolutamente contenere le due parole ispiratrici: mare e faro.

    Il faro che sapeva di mare è stata la formulazione finale, che verrà motivata soltanto nell’ultimo capitolo.

    Mare e Faro di San Raineri sono stati fidati compagni, costantemente presenti nella mia infanzia. Sono elementi fissati nostalgicamente nei ricordi degli amati panorami della Sicilia e dello Stretto di Messina, da cui mi sono dovuto allontanare per studiare e lavorare. Essi stanno sempre lì ad aspettare il ritorno occasionale, alla ricerca delle mie radici.

    Numerosi personaggi animano la narrazione e sono ancora presenti nei miei affetti o vivi nella memoria. Credo che ognuno di noi potrà associarli a persone della propria sfera affettiva e partecipare comunitariamente alle emozioni da loro trasmesse.

    Mi soffermo a elencarne alcuni: il guardiano del faro, i pescatori Piscitello, l’autorevole e austero nonno oste, i giocatori di tressette raccolti attorno al tavolo dell’osteria, gli emigranti che salutano dal ponte della nave che li porterà in continenti lontani... Sono tutte persone care e antiche, impresse nei ricordi, con i loro visi scavati dal sole dei campi o dalla salsedine e dal vento, durante lunghi anni trascorsi a rompersi la schiena nei solchi aridi o abbarbicati ai remi di una barca, per guadagnarsi da vivere.

    La narrazione indugia sul luccichio argenteo del pesce appena pescato o sul fragore delle onde scaraventate dal vento sulla scogliera. In un contrasto di descrizioni si gode di rosati tramonti, punteggiati da brezze marine che portano profumi lontani di salsedine e macchia mediterranea, e del quieto e silente lampeggiare del faro, alternato alle sfuriate di Scirocco.

    Il tentativo è quello di trasmettere odori, sapori e colori della mia Sicilia, con il segreto proposito di intrigare e incuriosire il lettore che pazientemente ne vorrà godere.

    Le immagini presenti nel testo hanno l’intenzione di alleggerirlo e di esplicitare visivamente quanto appartiene alla mia memoria, documentando luoghi, persone e contesti, fissati su come eravamo tanti anni fa.

    In fondo al testo ho voluto presentare cinque disegni, inerenti ad alcuni passi della narrazione. Sono opere del Maestro Luigi Boccardi, che gentilmente ha acconsentito alla loro pubblicazione. Per questo lo ringrazio e anche per la sua capacità di scovare nel sottoscritto un barlume di inaspettata vena pittorica.

    Ciascun capitolo è stato associato ad un proverbio siciliano, allo scopo di trasmettere antiche e sagge constatazioni di vita, con il tono e l’efficacia che solo il dialetto riesce a garantire. Ho ritenuto utile tradurli, riepilogandoli, in fondo al libro.

    Ringrazio tutti coloro che hanno incoraggiato la mia voglia di scrivere, sostenendomi in questa modesta impresa e aiutandomi nella formulazione e correzione della stesura, manifestando complicità e anche severità.

    In particolare esprimo riconoscenza ai componenti della mia famiglia d’origine, protagonisti degli avvenimenti descritti: mamma Graziella, fonte insostituibile dei ricordi che ho rinverdito; mia sorella Concita Giacinta, intrepida compagna di giochi e di pericolose marachelle. Un pensiero corre nostalgico a papà Ciccino, tenace rievocatore di storie di mare e della guerra combattuta a bordo dei sommergibili.

    Ringrazio mia moglie Anna Rita, instancabile lettrice di autori ben più quotati del sottoscritto!

    È stata preziosa e paziente correttrice di bozze e di qualche mia azzardata scelta grammaticale, ma anche attento revisore dei miei scritti.

    Esprimo gratitudine a mio figlio Marco e a mia nuora Paola. In una fredda serata d’inverno, chiacchierando in auto lungo l’autostrada da Milano a Torino, intriganti e curiosi, hanno riacceso in me la voglia di cimentarmi in questa stesura e di rispolverare appunti sparsi e abbandonati al loro destino in cassetti poco utilizzati.

    Ringrazio tutti i parenti siracusani, spesso vogliosi di essere citati nelle rievocazioni passate che li hanno visti attori.

    Sono particolarmente grato ai miei cognati e ai nipotoni: Alessia e Filippo, animati dall’interessata curiosità di conoscere com’era il loro zione da piccolo.

    Esprimo un plauso all’insistenza di tanti amici o di semplici conoscenti, incuriositi da questo mio lavoro.

    Soprattutto mi preme rammentare i perseveranti rimbrotti dei miei compagni di vela: Mariella, Toni, Patrick, Vito, Antonio, Giuseppe… tra orzate e strambate, sono stati il pungolo che ha rinvigorito l’impegno a volte sopito.

    Mi fa piacere dedicare questo libro alle mie nipotine Marta e Giulia. Le voglio qualificare con alcuni aggettivi che, in parte, descrivono la personalità che si va delineando in entrambe: tenera, grintosa, perspicace, curiosa, timida, ironica, permalosa… Seppur in modo diverso si sono stabilmente insediate nei miei affetti più profondi. Nutro l’intima speranza che fra qualche anno vogliano leggere qualcosa di Nonno Nuccio Tam-Tam. Si realizzerà alla perfezione il mio ruolo di nonno-scrittore, che le ha amate profondamente, se da grandi vorranno indugiare su questo scritto per rintracciare parte delle loro radici, esplorando i miei antichi ricordi.

    Ringrazio con gratitudine tutti i miei lettori, ai quali ho dedicato molte attenzioni e sui quali mi sono spesso interrogato durante la stesura. Apprezzerò i loro consigli, gli appunti e, perché no, gli encomi.

    Non me ne voglia nessuno se il risultato finale sarà deludente e se la lettura potrà essere noiosa o lo stile criticabile.

    Concedetemi la prova d’appello… La mia fantasia sta nuovamente sfidando gli spazi infiniti di una prima pagina vuota.

    A tutti auguro buona lettura!.

    Prologo

    Mare calmo

    Sciroccu chiaru e tramuntana scura… mettiti in mari senza paura

    Mi hai atteso, calmo, al limitare del tuo arenile di sabbia dorata.

    Mi accogli sulla riva con il regolare mormorio delle pigre onde che accarezzano la battigia, spostando frammenti di pietre antiche, di corallo e conchiglie.

    Ho rispetto per le tue profondità, crescenti ripidamente dopo il gradino… davanti al bagnasciuga. Il mio sguardo indaga sulle trasparenze percorse dagli arabeschi disegnati dal sole sul limpido fondale.

    Aspetti paziente che il mio corpo accaldato si abitui al fresco tepore della tua acqua.

    Con l'emozione della prima volta mi tuffo deciso, con le braccia protese, per ricambiare il tuo abbraccio. Tengo gli occhi aperti per osservare le immediate profondità, con la vista sfuocata. Tutto intorno c'è un luminoso scenario acquatico: avvolgente, temperato, cristallino.

    Riemergo dopo poche bracciate, per evidenti limiti di fiato e di estraneità al respiro delle tue usuali creature.

    Continuo a nuotare per addolcire l'impatto frizzante, in attesa che il mio sangue, impegnato a digerire la granita di caffè e panna del mattino, si ricordi di andare a scaldare anche la periferia del corpo.

    Adesso sono più sicuro dei miei mezzi e ti lancio la sfida!

    Raccolgo quanto più fiato possibile e, con un deciso colpo di reni, mi capovolgo per immergermi nello scenario azzurro sottostante.

    La provocazione consiste nel raggiungere il lontanissimo fondo marino, per rubacchiare con entrambe le mani due manciate di sabbia e pietruzze.

    Il cuore e la testa mi scoppiano. Ma ormai poche bracciate mi separano dal traguardo.

    Ho osato sottrarre al fondale pochi granelli, scrostati in fretta con le unghie, rischiando di essere schiacciato dalla pressione del tuo possente abbraccio.

    Riemergo velocemente, soffiando bolle fra le candide spume della tua superficie.

    Soddisfatto, sfiato come un capodoglio.

    Apro le mani e le congiungo, mischiando l’esigua sabbia prelevata nell'incursione sottomarina.

    È bello pensare che senza il mio intervento quei granelli non si sarebbero mai incontrati.

    Li libero soddisfatto, perché tornino a poltrire nell'ormai lontano fondale, da te custoditi fino a quando non deciderai di pascolarli con la forza delle tue correnti.

    Ma non ti arrabbiare per la mia sfida … ho solo solleticato la tua pancia infinita!

    Nuoto con poche bracciate e approfitto ancora della tua ospitalità, per osservare la spiaggia lontana che degrada fin sotto la scogliera.

    Lo scenario è completato dal poliedrico faro.

    In lontananza appare qualcosa che risveglia la mia voglia di vento e di mare: una barca a vela solca tranquilla l'orizzonte.

    Penso agli amici velisti che la governano. Bramerei navigare con loro e regolare le vele, cazzandole o lascandole, per seguire le folate del vento antagonista e complice.

    Fermo restando che tu, amico Mare, sei il compagno privilegiato delle mie vicissitudini, le vele Randa e Fiocco saranno le Muse ispiratrici di questo mio scritto.

    Parte prima

    La Zona Falcata

    ‘U Signuri mi ni scansa de figghi picciusi e de vicini mmidiùsi

    Il Faro di San Raineri brillò lontano, con i primi lampi confusi nella luce rosata del tramonto incipiente.

    Con la sua possente sagoma stazionava da secoli sulla spiaggetta, al limitare della penisola, infaticabile custode e guardiano dei naviganti che affrontavano le correnti dello Stretto di Messina.

    Paff… paff… paff… Tre lampi consecutivi e poi un’interminabile eclissi di dodici secondi.

    Adesso dovevo proprio sbrigarmi a scendere dal terrazzo che avevo raggiunto, incurante di ogni divieto, salendo su per la lunga e malferma scala a pioli. Come da me lungamente desiderato, gli sbadati operai avevano dimenticato di riporla sul selciato, lasciandola appoggiata alla parete del caseggiato.

    Affacciandomi nel vuoto osservai l’ultima asticciola, che sarebbe stata il primo gradino della mia pericolosa discesa.

    Sdraiato con la pancia sul tetto mi lasciai andare, restando abbarbicato al cornicione e cercando con il piede il sicuro contatto con il piolo.

    Ricerca vana.

    Sentii il tonfo sordo della scala che la nostra volpina Lola, abbaiando e ringhiando lì sotto, aveva urtato e fatto cadere.

    Restai attaccato al cornicione con le mie esili braccia, insufficienti per reggere un corpo troppo pesante per la loro forza.

    Un attimo dopo volai nel vuoto.

    … Mi svegliai urlando!

    Fortunatamente avevo solo sognato.

    Tutto era molto reale e corrispondeva al piano che da parecchi giorni avevo predisposto.

    L’occasione propizia per realizzarlo si presentò quello stesso pomeriggio. E la colsi, nonostante il terribile sogno premonitore.

    L’oleandro dai fiori vermigli nascondeva perfettamente la mia sagoma di bambino minuto. Attendevo acquattato che i muratori, impegnati nel restauro della Stazione Sanitaria Marittima, finissero il turno.

    Questo edificio, situato dal lato opposto dell’ampio giardino di casa nostra, era una sorta di ospedale di isolamento per malati contagiosi sbarcati dalle navi.

    Sapevo che gli operai si sarebbero trattenuti fino a che il suono lancinante della sirena del vicino Cantiere Navale Rodriquez non avesse indicato la fine di un’altra giornata lavorativa.

    A detta dei miei genitori, il fischio della sirena era simile agli allarmi antiaerei, tristemente famosi durante la guerra. L’ululato cresceva per alcuni secondi, fino a diventare assordante, per poi affievolirsi lentamente in un sibilo flebile e lamentoso.

    Scandiva il preciso ritmo lavorativo del Cantiere Rodriquez. Suonava alle 7.00 in punto per invitare gli operai all’ingresso, alle 7.30 per segnalare l’avvio delle attività lavorative; alle 12.00 e alle 12.30 per stabilire l’inizio e la fine della pausa pranzo. Infine, alle 17.30, indicava la conclusione della giornata di lavoro.

    Il suono iniziale era talmente acuto e udibile a chilometri di distanza, che gli abitanti di Messina lo prendevano a riferimento per regolare gli orologi.

    Noi, che abitavamo a ridosso del cantiere, attendevamo con ansia l’ultima sirena per godere del silenzio della sera; dopo essere stati allietati durante l’intera giornata dall’assordante rumore delle macchine pneumatiche che ribadivano le teste dei ribattini, utilizzati per congiungere le lamiere degli scafi.

    La sirena aveva smesso di suonare. Nascosto dietro l’oleandro, nel silenzio irreale che era seguito, attendevo di mettere in esecuzione il mio piano.

    Mi ero accorto che il giorno precedente gli operai avevano dimenticato la lunga scala a pioli appoggiata alla parete dell’edificio e speravo che tale dimenticanza si ripetesse quel pomeriggio.

    Si sarebbe aperta, inopinatamente, la possibilità di provare l’invitante nuova esperienza di salire sul tetto terrazzato. Nell’eccitazione del momento non valutavo la minima presenza di potenziali pericoli.

    Non mi ero sbagliato, la scala aspettava solo di essere scalata.

    Dopo aver tacitato e calmato con certe mie moine Lola, la fedele cagnetta che mi seguiva passo passo, avevo saggiato con le braccia mingherline la resistenza e la stabilità della scala. Confortato dall’immobile reazione ai miei deboli scossoni, cominciai a scalare i pioli di legno aiutandomi con le mani strette al centro delle asticelle superiori. Durante l’ascesa, avevo contato fino al massimo numero da me conosciuto, il famoso 21 del gioco del nascondino, senza ancora raggiungere la fine della scala. Rammaricato, smisi di contare e continuai a salire senza distogliere lo sguardo dai pioli successivi.

    Il terrazzo mi aspettava con tutte le visioni panoramiche che aprivano nuove prospettive di conoscenza.

    I pioli divennero sempre più stretti, il mio cuore batteva all’impazzata, per la fatica e l’emozione; un ultimo sforzo e al mio sguardo comparve il tetto terrazzato. Per accedervi mi allungai in punta di piedi sull’ultimo piolo e mi arrampicai sul ruvido cemento del cornicione, aiutandomi dapprima con i gomiti e poi con le ginocchia.

    Una volta in piedi potevo dominare dall’alto l’intero comprensorio. Mi spostavo cautamente sul vasto terrazzo piano, senza nessuna ringhiera o muretto che potesse interferire con il mio sguardo… E neanche proteggere l’imprudente ricerca di migliori punti di osservazione.

    L’edificio sul quale ero appena salito si trovava nella Zona Falcata della città di Messina: una snella penisola così chiamata per la sua forma di falce, interposta tra la Sicilia e la Calabria, in mezzo allo Stretto. Una striscia di terra lunga pochi chilometri che chiude il porto naturale di Messina proteggendolo dalla forza delle alternanti correnti dello Ionio e dal perenne vento di scirocco.

    Eravamo posizionati a metà strada tra due bracci di mare: quello prospiciente il golfo con il porto di Messina e il mare dello Stretto, che ci separava dal Continente.

    … nella Zona Falcata della città di Messina: una snella penisola così chiamata per la sua forma di falce, interposta tra la Sicilia e la Calabria, in mezzo allo Stretto…

    Proprio la vicinanza a questi due mari, dai quali avrei attinto per tanti anni informazioni ed emozioni vivissime, avrebbe segnato positivamente in modo fortissimo la mia indole. Amavo il mare da sempre e l’avrei amato e rispettato per sempre, con tutti i suoi elementi, sapori e colori: sole, vento, onde, barche, schiuma, salsedine, pesci, albe e tramonti.

    In direzione del tramonto vedevo la città di Messina, abbarbicata sui Monti Peloritani, degradante fino al porto. Sul lungomare si distinguevano i recenti edifici alti pochissimi piani, ricostruiti volutamente bassi, dopo che la città era stata completamente distrutta dal terremoto e dal susseguente maremoto il 28 dicembre 1908. Riconoscevo le guglie del Duomo, l’edificio bianco di epoca fascista chiamato Ex GIL, il Municipio, la Prefettura, l’elegante fontana di Nettuno, la passeggiata a mare con i filari di palme che terminavano davanti agli edifici della Fiera Campionaria Internazionale, orgoglio commerciale della città.

    Più in alto, sulle pendici dei Monti Peloritani, che sovrastano la città da ovest, si distinguevano le cuspidi del Santuario di Montalto e il cupolone della Chiesa di Cristo Re, nell’accecante controluce rosaceo del tramonto.

    Un traghetto bianco delle Ferrovie dello Stato attraversava lentamente il braccio di mare antistante il porto, in direzione dell’invasatura, seguito da un evanescente pennacchio di fumo nero.

    Lo seguii con lo sguardo, fino a quando non passò davanti allo scoglio posto alla punta estrema della penisola a forma di falce, sul quale si ergeva la statua della Madonnina della lettera, protettrice di Messina, venerata con il nome di "Madonna ‘dda littra".

    Negli anni che seguirono, tutte le volte che sono partito o arrivato a Messina con il ferry-boat, non ho mai tralasciato di affacciarmi dalla ringhiera del ponte passeggeri, per salutare la Madonnina e leggere la frase benedicente scritta a grandi lettere sul suo basamento: VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS.

    … la frase benedicente scritta a grandi lettere sul suo basamento: VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS…

    … Una striscia di terra lunga pochi chilometri che chiude il porto naturale di Messina proteggendolo dalla forza delle alternanti correnti dello Ionio e dal perenne vento di scirocco…

    … sulle pendici dei Monti Peloritani, che sovrastano la città da ovest, si distinguevano le cuspidi del Santuario di Montalto e il cupolone della Chiesa di Cristo Re…

    … Un traghetto bianco delle Ferrovie dello Stato attraversava lentamente il braccio di mare antistante il porto, in direzione dell’invasatura, seguito da un evanescente pennacchio di fumo nero…

    Girandomi verso sud riconoscevo la Stazione Marittima FS, con le quattro invasature numerate dove attraccavano i traghetti provenienti dal continente, con il ponte carico di auto, pronti a inghiottire attraverso il portellone di prora i treni, con il loro contenuto di persone e merci.

    La manovra di entrata e uscita di un treno da un traghetto, ai miei occhi di bambino, costituiva un misterioso miracolo tecnologico. La fase di carico di un convoglio all’interno della nave consiste nel farlo entrare, spingendolo lentamente a marcia indietro, sul ponte binari del traghetto, fino ad urtare i respingenti posti a poppa della stiva. Staccate le carrozze che sono interamente contenute sul ponte binari, il resto del treno esce, per rientrare subito dopo a marcia indietro su un altro binario. La manovra, interamente coordinata con segnali sonori e luminosi da parte di vari manovratori, si esaurisce quando tutto il treno è stato spezzato in tronconi sui binari paralleli, all’interno della nave.

    Con procedura inversa avvengono le operazioni di scarico dal traghetto, che prevedono varie manovre di ricomposizione del treno, fino a riportarlo alla sua interezza.

    Il motivo per cui io non comprendevo questo semplice meccanismo è presto detto: avevo una gran fifa!

    Tornando a casa dalla città insieme con mio padre dovevo attraversare i binari, spesso occupati dai treni che effettuavano le manovre di carico o scarico dalla nave, con l’alternarsi di entrate, fermate e uscite. In fase di carico, ad ogni ingresso all’interno del traghetto, corrispondeva un progressivo accorciamento del treno, fino a quando la locomotiva a vapore e il tender carico di carbone quasi non sparivano anch’essi dentro la nave, per spingere in fondo al ponte binari le ultime vetture, tra nuvole di vapore. Era il momento sul quale mi ero concentrato; drammatico e temuto adesso era arrivato: dovevamo attraversare i binari passando davanti alla locomotiva, ferma e ansimante.

    La vaporiera era un enorme mostro di acciaio nero, odorante di carbone bruciato, che sbuffava un denso vapore bianco da tutti i tubi che circondavano la cisterna. La sormontava un fumaiolo pronto a sputare fumo grigio verso il cielo. Supina sulle enormi ruote bordate di rosso, ci osservava con i suoi fari accesi, come fossero due occhi luciferini che cercavano di capire le nostre intenzioni.

    Dietro la cisterna, lungo una scaletta metallica perfettamente verticale, si accedeva alla cabina dalla quale si affacciava il macchinista: un omone nero, vestito di nero, con le mani e il viso sporchi di nero!

    In genere ci indicava con un gesto del braccio il momento giusto per passare, mentre con l’altra mano frenava, scaricando con un fischio assordante il vapore residuo, proprio davanti al muso della vaporiera.

    Paralizzato dalla paura venivo strattonato dalla vigorosa mano di mio padre e costretto ad attraversare i binari davanti alla mostruosa creatura.

    Fatti pochi salti sulle traversine, avvolti dall’ultima nuvola di vapore scaricato, ci trovavamo di là dall’ostacolo proprio mentre, con uno stridore assordante di ferraglia, accompagnato da possenti sbuffi di fumo nero dal fumaiolo e dense nuvole di vapore bianco, la locomotiva muoveva stantuffi e bielle per far girare le enormi ruote e impossessarsi di nuovo del suo territorio, che impunemente avevamo osato invadere.

    Questo rituale si sarebbe potuto evitare percorrendo il cavalcavia che collegava la città alla Via S. Raineri, dove abitavamo. Però il percorso si allungava a dismisura e costringeva ad attraversare una zona malfamata, popolata da zingari e prostitute che avevano trovato ricovero in baracche fatiscenti.

    Crescendo, cominciai ad abituarmi all’idea di poter attraversare indenne i binari. Il mio coraggio aumentò in ragione diretta allo sviluppo tecnologico delle Ferrovie, che introdussero i locomotori diesel per l’effettuazione delle manovre; meno rumorosi e per nulla sbuffanti!

    Dalla mia posizione privilegiata sul terrazzo, potevo osservare il Molo Norimberga, adiacente alle invasature della Stazione Ferroviaria Marittima. Lo chiamavano anche "u portu ‘ddu carbuni", perché il pontile si allargava in un vasto spiazzo, percorso da alcuni binari, utilizzati per trasportare sui carri merce il carbone scaricato dalle navi.

    La Zona Falcata, posizionata in mezzo allo Ionio, era stata completamente sommersa dalle enormi onde del maremoto del 1908, che avevano raso al suolo qualsiasi edificio, ad eccezione di alcune parti del bastione borbonico della Cittadella.

    Mi avevano raccontato, con una certa confusione di avvenimenti, che le possenti mura erano state un baluardo contro le invasioni che si erano succedute: Arabi, Normanni, Spagnoli, Francesi, Garibaldini, Tedeschi e Americani. Avevano uno spessore tale che in esse erano state scavate grotte di ricovero resistenti ai bombardamenti e ricavate numerose nicchie per la fuoriuscita delle bocche dei cannoni posti a difesa della fortificazione.

    Più dappresso iniziavano gli alti capannoni del Cantiere Rodriquez che ospitavano nelle loro enormi pance gli aliscafi in costruzione che, a seconda dello stato di avanzamento dei lavori, erano così differenziati: chiglie spoglie con le sole strutture di centine e madieri; scafi finiti aventi il colore alluminio delle lamiere ricamate dai ribattini e, quelli pronti per il varo, con le fiancate esterne e la cabina di pilotaggio completa. A questi ultimi mancavano solo le ali che li avrebbero fatti librare a pelo d’acqua sfidando tutte le leggi dell’idraulica.

    … la Stazione Marittima FS, con le quattro invasature numerate dove attraccavano i traghetti provenienti dal continente, con il ponte carico di auto, pronti a inghiottire attraverso il portellone di prora i treni…

    … La vaporiera era un enorme mostro di acciaio nero, odorante di carbone bruciato, che sbuffava un denso vapore bianco da tutti i tubi che circondavano la cisterna. La sormontava un fumaiolo pronto a sputare fumo grigio verso il cielo…

    Che grande emozione mi colse nel dominare con lo sguardo il tetto spiovente della mia casa, posta lì accanto, ricoperto dalle ciaramidde, le tegole ricurve. Qua e là le loro irregolari file di terracotta riarsa dal sole presentavano qualche vuoto. Colpa del vento di scirocco che, con insistente spinta, rapiva periodicamente le tegole più malsicure scaraventandole a terra, dove si spaccavano in mille cocci.

    Intorno alla casa osservavo il grande spiazzo con l’orto pieno di piante di pomodori sorrette dalle canne e le regolari aiuole coltivate con candide calle e variopinti garofani, orgoglio di mio padre.

    Su tutto questo comprensorio dominava un secolare fico. Aveva un tronco enorme dal quale partiva un robusto ramo appoggiato al muro di cinta che separava l’orto dalla Stazione Sanitaria Marittima. Un altro ramo secondario era sospeso ad un’altezza da terra sufficiente per sostenere la nostra altalena, costruita con funi di canapa intrecciata, attraversate da una tavola levigata che fungeva da sedile.

    Le corde profumavano ancora di mare e di salsedine. Erano state robuste gomene che avevano affrontato intemperie ben più pericolose del placido oscillare di un’altalena, cui erano costrette nella loro vecchiaia.

    "Io vado in altalena... su un nastro d’arcobaleno

    ... e sogno ad occhi chiusi tutto quello che al mondo non ho!

    Lalalalalalala, lalalalalalalalaaa!" cantavano quell’anno allo Zecchino d’oro. Questa canzone urlavamo a squarciagola io e Giacinta, mia sorella maggiore, volando sull’altalena fino a che le corde tese non davano l’allarmante scossone tipico dell’esaurirsi della spinta centrifuga.

    La flessione delle gambe sul sedile ristabiliva l’equilibrio e si tornava indietro fin dentro l’avvolgente chioma del fico, per poi ripartire con un colpo di reni e le gambe tese, caricando d’energia la nuova escursione.

    Il tronco dell’albero di fichi era saldamente piantato al centro del grosso pollaio, costruito con assi di legno, reti e tubi di ferro addossati all’alto muro di cinta e, dalla parte opposta, al gabbiotto contenente le pedane sulle quali le galline si appollaiavano subito dopo il tramonto. L’accesso avveniva attraverso una porticina sostenuta da due cinghie di cuoio che la reggevano in modo precario ad un palo piantato profondamente nel terreno.

    Grazie alla mia stazza minuta, avevo l’incarico di entrare nell’angusto gabbiotto, inchinandomi un po’, per impossessarmi del prezioso uovo, non appena una gallina annunciava con clamore l’avvenuta deposizione.

    Era veramente "nu beddu iaddinaru", un bel pollaio: ombreggiato, ampio, con il terreno polveroso nelle cui buche le galline si infossavano per grattarsi dai parassiti. Quando pioveva le poverine guadavano le profonde pozzanghere tra fango e fichi marci che restituivano un odore nauseabondo.

    Il fico dominava maestoso lo spiazzo con l’orto, antistante la casa, segnando l’alternarsi delle stagioni. Il suo ciclo vitale iniziava in primavera, con la crescita delle gemme e delle timide foglie, via via sempre più verdi, più larghe e lattiginose durante la stagione estiva. La produzione dei fichi neri si concentrava solo su un ramo secondario e si esauriva durante la seconda quindicina di giugno. Poi l’albero si riposava inspiegabilmente per sei settimane e, come d’incanto, dopo ferragosto, portava a maturazione i fichi verdi e quelli marroni, mielosi e panciuti fino a spaccarsi per lasciarsi cadere, se non raccolti, quando il gambo non ne reggeva più il gordo peso. Splash!

    Il ciclo produttivo del fico si esauriva entro metà settembre. Nei mesi autunnali si spegneva anche la sua vitalità, con la caduta delle foglie ingiallite e accartocciate. La prima sventuliata di scirocco lasciava i rami completamente spogli a sfidare inermi le intemperie per tutto l’inverno, senza poter dare più riparo alle lunghe teorie di formiche, alle lucertole… né ombra alle galline.

    Non ho mai più visto un fico così corpulento. Probabilmente aveva resistito al maremoto e mio padre sosteneva che era cresciuto così forte perché affondava le sue radici fino alle acque saline del vicinissimo mare.

    Ma il vero segreto della sua rigogliosità fu svelato qualche anno dopo da un muratore che era venuto a scavare una profonda buca nell’orto per posizionare una fossa biologica. Per giorni avevo osservato curioso il suo lavoro: sistemato dentro la buca, ormai profonda qualche metro, con movimenti regolari delle braccia, affondava la lucida pala nel terreno, la caricava di terra sempre più umida e, di slancio, la buttava sul mucchio all’esterno. Di tanto in tanto, con le mani nude estirpava

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