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Il falco e il falcone
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E-book828 pagine12 ore

Il falco e il falcone

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Info su questo ebook

Quando e come lo “zero” assunse la dignità di numero? Come e da chi la “Santa Casa di Nazareth” fu trasportata e ricostruita a Loreto? Per quali strade il “Velo della Veronica” giunse a Roma, prima di essere poi portato a Manoppello? Che fine ha fatto l’oro che i Templari hanno salvato dalla caduta di Acri? Quale fu l’occasione che indusse Celestino V ad istituire la “Perdonanza”? Chi o che cosa scatenò la distruzione di Lucera? La risposta a queste domande è parte integrante della vita di Ruggero Da Flor, qui reinterpretata alla luce delle sintetiche e scarse notizie storiche fornite da Mario Veronesi. La narrazione – ambientata, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, in Germania, Italia, Terrasanta e bacino del Mediterraneo, ed incentrata sulle origini, la vita e le avventure di Ruggero Da Flor – offre  un ampio, variegato e colorito affresco dei costumi, della società, della vita dei popoli del bacino mediterraneo e dei potenti dell’epoca. Avendo come fulcro la battaglia di Tagliacozzo in cui muore il falconiere di Corradino di Svevia, padre di Ruggero, il racconto parte dall’infanzia del protagonista. L’ambientazione e la descrizione delle origini e di alcuni personaggi chiave della vicenda sono occasione per fare la conoscenza degli avi della famiglia Blum, per entrare alla corte di Federico II a Castel del Monte e incontrare le migliori menti del tempo. La tragica vedovanza della madre, costretta a rifugiarsi nelle vicinanze del porto Brindisi e le vicende che ne conseguono, permettono a Ruggero e al lettore di prendere contatto con il mare e con l’ambiente templare. E proprio dell’«Ordine del Tempio» il protagonista diventa membro attivo, vivace, a volte scomodo, ma sempre in evidenza. Dopo aver cambiato, latinizzandolo, il suo cognome da Von Blum in Da Flor, Ruggero condivide, a volte da spettatore, più spesso da protagonista e poi da vittima, le vicissitudini dei Templari tra Italia e Terrasanta. La narrazione accompagna il lettore a rivivere le avventure marinaresche e le sventure di Ruggero, capitano del “Falcone” e poi capitano di ventura e pirata, sempre in diretto coinvolgimento con i più salienti eventi storici dell’epoca ed i loro protagonisti.

Elide Ceragioli, nata a Massa il 30 ottobre 1954, vive dalla metà degli anni Ottanta in una frazione del comune di Campi Bisenzio alle porte di Firenze. Felicemente sposata dal 1982, ha due figli: Andrea (1987) e Chiara (1989). È medico ed esercita con passione la professione di neuropsichiatra-infantile in ambito ospedaliero. Occupa il tempo libero in attività di volontariato insieme al marito con cui condivide, anche la responsabilità del “Centro Diocesano di Pastorale Familiare” dell’Arcidiocesi di Firenze. Fin da ragazza coltiva la passione per la lettura e si diletta a scrivere racconti, partecipando a numerosi concorsi con buoni piazzamenti e una dozzina di pubblicazioni. A gennaio 2011 esce il suo primo romanzo La libertà delle foglie morte e ad aprile 2012 la raccolta di racconti I colori dell’albero e altri racconti pubblicati da La Riflessione-Davide Zedda Editore. Collabora con articoli e pubblicazioni a periodici quali “Missioni OMI” e “Toscana Oggi”. Sul sito www.qumran2.net è presente con una “Via Crucis” e diverse pubblicazioni di narrativa e saggistica. La sua prima uscita in libreria risale agli anni Settanta con Cristiana a modo mio (Ed.Gribaudi).
LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2018
ISBN9788856797442
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    Il falco e il falcone - Elide Ceragioli

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-9744-2

    I edizione elettronica dicembre 2018

    "Per tornare a casa si può fare in due modi:

    o non allontanarsene o fare il giro del mondo

    per ritrovarsi al punto di partenza"

    (G. K. Chesterton)

    A mio marito e ai miei adorati figli,

    partecipi e artefici della mia vita.

    Ognuno, a suo modo, ha contribuito

    a quest’opera come a tutte le altre.

    Grazie!

    Capitolo 1

    Giovanni lo staffiere si alzò poco prima dell’alba e cominciò a strigliare il cavallo. Un prezioso massaggio che scaldava i muscoli dell’animale e li preparava alla corsa. Il baio aveva percepito l’eccitazione e fremeva scalpitando. Indugiò a lungo a controllarne gli zoccoli: il maniscalco aveva fatto un buon lavoro, la ferratura era salda. Passò uno strato di grasso dove la pelle tirava su una vecchia cicatrice e l’animale voltò la testa grato per quelle cure.

    Pierre gli si materializzò accanto come spuntato dal nulla e lo fece trasalire perché si comportava come una piccola volpe dal passo felpato che riusciva a renderlo sempre inspiegabilmente nervoso. Il ragazzo sembrava non accorgersi della sua antipatia e gli tese amichevolmente la mano: «Siamo alla fine, oggi sapremo da che parte sta Monsieur le Dieu».

    Giovanni lo guardò di sbieco e, senza neppure cercare di nascondere la propria riluttanza a concedergli la sua attenzione, continuò ad intrecciare la lunga criniera.

    «Sta dalla nostra parte, se ne usciamo vivi» gli rispose a denti stretti.

    «Parli bene tu, ma io sono francese e se mi prendono, mi impiccano» replicò impaziente l’altro, scansando con una spintarella l’ingombrante deretano del cavallo che nitrì infastidito dall’imprevisto contatto.

    È un vile – pensò Giovanni – incapace di vincere la paura e disposto a tutto pur di salvare la pelle. Non riuscì a trovare parole per rassicurarlo, del resto non gli importava farlo, così si allontanò contento di aver finito il proprio lavoro e di potersene andare senza doversi giustificare.

    «Abbevera Baltazar – gli ordinò – io vado dal padrone. Ho visto che c’è movimento nella tenda del Principe e fra poco ci cercheranno».

    Il cavallo alzò il muso e spinse il ragazzo di lato, ma quello, immerso com’era in foschi pensieri, neppure se ne accorse. Poco lontano alcuni soldati si stavano svegliando. Uno orinava sulle braci ancora fumiganti, un altro si legava i calzari, i più parlottavano a bassa voce e controllavano le spade e l’armatura leggera, ben diversa da quella dei cavalieri. Avevano dormito vicini, quasi tutti sulla terra nuda e umida, solo pochi fortunati erano riusciti ad avvolgersi in una sudicia coperta, troppo vecchia per poter servire ai cavalli. Alle prime luci di quel giorno che si annunciava col tepore di una precoce primavera, ognuno compiva i gesti usuali, ma con una frenesia maggiore, per quell’ansia anticipatoria che precede ogni battaglia. Avevano fretta di mettersi in cammino e di misurarsi con gli avversari, nonostante le spie li avessero valutati molto superiori di numero e forse anche più agguerriti. Ma a quel punto non aveva importanza, avrebbero combattuto con tutte le forze che avevano, fino alla morte, sicuramente inevitabile, perché nessuno poteva sottrarsi al destino segnato.

    Giovanni passava in mezzo a loro, notando che alcuni si scansavano per fargli strada o forse per evitare il contatto con lui, ebreo, menagramo o che altro credessero. Eppure ne aveva curato molti, ne aveva guarito i corpi malconci per la malattia o per le ferite. Aveva tolto denti marci che gonfiavano le facce e ne distorcevano la fisionomia fino a renderla una maschera ridicola, applicato impiastri che calmavano la febbre, inciso ascessi, ma questo non era bastato a pareggiare il solco che c’era fra loro. Per quanto fosse dotto e la sua arte in certo modo indispensabile, sarebbe stato sempre un inferiore o, peggio, un reietto. Scosse il capo tentando, com’era sua abitudine, di mostrarsi indifferente e continuando a camminare.

    L’esercito che lo attorniava era apparentemente immenso, oltre alle migliaia di cavalieri pesanti, lenti a causa delle indistruttibili armature, c’era un gran numero di uomini bardati con cotte di maglia leggere e poco elaborate, che avrebbero dovuto costituire la punta del cuneo destinata a infrangere lo schieramento avversario. Non aveva idea di quanti fossero gli arcieri, forse novemila, forse addirittura di più, ma non era facile contarli neppure dalla postazione privilegiata nella quale si trovava. Solo il tesoriere di corte, addetto al pagamento del soldo, avrebbe potuto rispondere alla sua curiosità, se avesse voluto. Sapeva però che non era l’entità delle forze a dettare le sorti della battaglia, quanto piuttosto il loro valore e la loro fedeltà al sovrano. Disgraziatamente aveva cominciato a dubitare di questa, ma non avrebbe potuto confidarlo a nessuno, perché aveva solo sensazioni e non elementi concreti.

    Dopo la sconfitta al ponte di Ceprano, e l’avvicinarsi del grosso dell’esercito nemico, c’era stato anzi un raccogliersi delle truppe intorno al Principe Manfredi, come se i mercenari volessero e potessero davvero garantirgli la vittoria contro il rivale Carlo d’Angiò. Eppure, nonostante l’ordine col quale si stavano disponendo e la decisione con la quale imbracciavano le armi, gli pareva che avessero le tracce del tradimento scritte in fronte e avrebbe voluto avvertire il Principe di non fidarsi di loro.

    Non poteva; nessuno gli avrebbe creduto. Continuò a camminare evitando, per quanto gli era possibile, gli escrementi degli uomini e delle bestie che avevano fatto del terreno, già molle per le recenti piogge, un pantano quasi impraticabile.

    I chierici, riconoscibili anche da lontano per la tonsura, l’eccessiva pinguedine e il pallore della pelle, che contrastavano con il colore quasi bronzeo degli altri uomini, stavano preparando l’altare davanti alla tenda del sovrano, per la celebrazione della messa. Giovanni ovviamente si teneva lontano da quelle funzioni che non capiva e che considerava blasfeme. La sua abilità gli aveva meritato quel posto importante, ma sapeva che solo l’amicizia quasi fraterna con il suo padrone lo metteva in salvo dallo scherno e dalla cattiveria che i pregiudizi rispetto alla sua razza gli attiravano. Molti soldati erano saraceni, tenuti in quell’esercito solo dalla paga, e avevano una scarsa considerazione, se non vero e proprio odio, per tutto quello che era cristiano o, peggio ancora, ebreo. Per gli altri, cristiani, era un essere immondo da evitare se non era possibile, come avrebbero desiderato, schiacciare. Si affrettò spinto dal senso imperioso di inquietudine che gli aveva impedito di dormire per tutta la notte e raggiunse la tenda di Von Blum, il falconiere, rosso per la fatica.

    Il suo padrone era già vestito o più probabilmente non si era neppure spogliato e stava spezzando piccoli pezzi di carne per il falcone. Rispose con un cenno al saluto deferente dello scudiero senza neppure voltarsi. Erano insieme da troppo tempo perché fossero necessarie molte parole fra loro e il maestro falconiere stava compiendo l’azione più delicata e complessa della sua arte. Il falcone prendeva la carne col becco adunco, terribile, ma solamente dopo aver scambiato uno sguardo d’intesa con l’uomo e muoveva la testa all’unisono con la sua mano, quasi fosse diventato un prolungamento di questa. Lo staffiere esitò a interrompere l’atmosfera di complicità che vedeva essersi creata fra l’animale e il suo padrone, ma poi si decise. Sapeva per esperienza che il principe avrebbe interpretato come un segno di malaugurio il ritardo di un suo cavaliere alla celebrazione della santa messa.

    Entrambi avevano servito fedelmente Federico II, il grande imperatore dalla personalità complessa oltre misura e piena di contraddizioni. Per quanto amante dell’arte e delle scienze e di intelletto finissimo, tanto da essersi circondato dalle menti più eccelse dell’orbe terracqueo, allo stesso tempo era capace di comportarsi con terribile crudeltà e di passare a fil di spada quelli che erano stati suoi fedeli servitori per anni, solo per l’impulso irato di un momento. Il terribile signore era, però, un vincente e tutte le sue imprese riuscivano. Non così per i suoi successori; Riccardo Von Blum lo sapeva, ma nonostante ciò seguiva, con la stessa devota dedizione, il suo erede Manfredi in quella battaglia che gli era sembrata, fin dall’inizio, persa. Il giovane principe era stato il prediletto dell’imperatore, anche se per lungo tempo gli uomini di corte lo avevano considerato nient’altro che uno dei suoi tanti bastardi e senza autorità. Manfredi era il figlio che gli somigliava di più e allo stesso tempo era assolutamente l’opposto. Era stato dominato, fin da ragazzo, da sentimenti contrastanti. Ammirava il padre, consapevole che mai avrebbe potuto eguagliarne la grandezza e, allo stesso tempo, lo odiava e ne aveva diversi e gravi motivi.

    Per anni sua madre Bianca Lancia era stata costretta a vivere reclusa nel castello dove era nato, a causa della gelosia ossessiva che Federico provava nei suoi confronti. La teneva lontana dalla corte forse anche per salvarla dall’invidia e dai pericoli che vi avrebbe potuto incontrare, ma questa scusante non bastava a farglielo perdonare. Egli stesso aveva subito quella dorata prigionia per lungo tempo e ne portava i segni nel fisico delicato e nel carattere taciturno e un po’ ombroso che mascherava l’animo sensibile. Aveva potuto incontrare il padre solo quando era già un ragazzino e aveva dovuto inchinarsi davanti a lui con la deferenza del servo verso il suo padrone.

    Manfredi non poteva onestamente dire di provare amore verso quell’uomo che oltretutto aveva designato come suo successore alla corona imperiale suo fratello Corrado, destinando a lui solo il principato di Taranto e pochi feudi minori. Aveva considerato una specie di insulto dover governare come luogotenente l’Italia e il Regno di Sicilia in attesa che il fratello, erede legittimo, nato dal matrimonio del padre con Isabella di Gerusalemme, si decidesse a lasciare la sicurezza della corte tedesca per esercitare il suo ruolo.

    Federico II aveva contratto quel matrimonio politico e senza amore, forse, ma pur valido a tutti gli effetti ed in fondo, i suoi figli erano le vittime inconsapevoli delle manovre dei potenti. Si sentivano burattini e il burattinaio era esigente e crudele. Per questo inizialmente i due fratelli avevano stretto una specie di alleanza e il rapporto fra loro era stato corretto e preludio di una pacifica collaborazione.

    Manfredi ci aveva creduto e sperato oltre ogni previsione, ma il destino aveva ben presto imposto i suoi disegni. Corrado IV si era illuso di poter sedare in breve i gravi conflitti politici che devastavano il Meridione d’Italia da decenni e reagì molto male quando si accorse di non averne la capacità. Si ammalò di una forma subdola di deperimento che nessun medico, per quanto sapiente, riuscì a contrastare.

    Giovanni ne aveva sentito parlare più volte e, nella sua lunga esperienza, aveva perfino incontrato qualcuno divorato dal male oscuro che succhia l’anima dall’interno, trasformando il corpo in un involucro vuoto e secco, privo di umori.

    Manfredi aveva convocato i migliori guaritori, tentando apparentemente tutti i rimedi conosciuti. Ma, nonostante tutte le cure, il fratellastro morì, lasciandogli la strada aperta per l’impero e l’enorme peso di una successione contrastata e malvoluta soprattutto da Papa Innocenzo IV, suo acerrimo nemico.

    Le voci che Corrado fosse stato avvelenato si erano sparse fin da subito, dando corpo alle illazioni contro di lui iniziate con la morte improvvisa di Federico II.

    Il sospetto si era insinuato prepotentemente, perché sembrava che Manfredi avesse gridato, ai piedi del padre morente, che niente e nessuno si sarebbe potuto frapporre fra lui e il trono imperiale. Era determinato almeno come la madre, Bianca dei conti Lancia, una donna intelligente e acuta, sinceramente innamorata di Federico. Di carattere dolcissimo, ma forte al punto di resistere alla prigionia del castello senza perdere nulla del proprio fascino, allo stesso tempo, era stata capace di tramare contro tutte le sue rivali pur di raggiungere i suoi scopi.

    Manfredi era stato troppo a lungo un figlio bastardo, tenuto nell’ombra e nel dubbio circa la propria sorte per potersi affezionare veramente al padre, anche se questi lo aveva inviato a studiare a Parigi e a Bologna, per stimolarne l’intelletto e inculcargli il suo stesso amore per le scienze e per la poesia. C’era riuscito ed era diventato un mecenate al pari suo, ma la somiglianza fisica e l’affinità d’intenti non erano bastate a farlo smettere di considerare il grande Federico come un impedimento a soddisfare la sua sete di potere. Una sete cresciuta di anno in anno e che non poteva appagarsi dei titoli nobiliari che gli erano stati concessi come segni tangibili dell’affetto e della considerazione dell’imperatore. Manfredi era ambivalente, nascondeva quello che provava e, da buon cortigiano, non rivelava mai le sue vere intenzioni neppure agli amici più fidati. Aveva sposato per interesse politico la bella Beatrice di Savoia, già vedova del marchese di Saluzzo, ma neppure la nascita della loro bambina fu sufficiente a legarlo a lei. Era irrequieto, mai soddisfatto e sempre in cerca di qualcosa d’altro rispetto a quanto la sorte gli offriva. Peraltro era incapace di agire senza chiedere il parere a consiglieri inetti, che avevano paura di contraddirlo o che, peggio, erano disposti a tradirlo.

    Von Blum e Giovanni ne avevano parlato spesso e convenivano che il giovane principe aveva un carattere instabile, debole e facilmente irritabile e questo spaventava enormemente lo staffiere che evitava, per quanto gli era possibile, di incontrarlo.

    Manfredi aveva ereditato dal padre la passione per la falconeria e avrebbe voluto emularlo, con l’aiuto di Riccardo. Solo con il falconiere sentiva di potersi comportare senza timori e andava da lui in ogni momento libero. Durante le grandi partite di caccia, Giovanni lo aveva visto cavalcare allegro e spensierato, come fosse un bambino libero di dedicarsi ai suoi giochi preferiti. In quelle occasioni dimostrava energia e capacità tattiche e, soprattutto, era felice quando gli splendidi falconi ubbidivano docili ai suoi ordini.

    Li aveva addestrati benissimo, seguendo, in un tardivo omaggio al padre, le regole scritte anni prima da Federico II in un trattato che consultava continuamente.

    Lo staffiere tornò col pensiero al grande imperatore cui nessuno osava disobbedire nonostante esigesse una servitù totale, che annientava aspirazioni e desideri, in cambio della promessa vana, lo sapeva bene, di una memoria imperitura fra gli uomini. Eppure era stato impossibile resistere al suo fascino e non solo per lui, che lo aveva conosciuto quando era poco più di un ragazzo.

    I ricordi fluirono nella sua mente e lo distrassero dall’attesa penosa, così vi si abbandonò.

    Capitolo 2

    Quando i suoi genitori si erano accorti della sua facilità ad imparare e della sua memoria prodigiosa, lo avevano affidato a Maestro Elias che conosceva la cabala, ed era capace di trasformare ogni avvenimento in numero e ogni numero in avvenimento. A Giovanni i numeri non piacevano e il Maestro se ne era accorto subito, ma aveva anche capito che la mente del ragazzo era come terra assetata di sapere e avrebbe bevuto tutto quello che vi si versava. Lo aveva frustato per punirlo di quell’ostinato disamore, poi aveva continuato a istruirlo, perché era comunque il più acuto dei suoi discepoli e sperava che potesse succedergli. Desiderava continuare a vivere attraverso di lui, e forse era questo che chiedeva nella sua preghiera notturna, quando rivolgeva al cielo il canto degli esiliati, che bramano di rivedere la loro patria.

    Era da Elias che Giovanni aveva assimilato la nostalgia per la terra dei suoi avi, perché il vecchio, in ogni pausa dallo studio, gli raccontava le meraviglie di Gerusalemme, la santa. Là, dove l’antico tempio di Salomone era stato distrutto e gli infedeli avevano osato innalzare muri blasfemi, c’era la Pietra, la roccia viva sulla quale erano incisi i numeri che Jahvè aveva pronunciato per primi creando il mondo. Coperta da sabbia e terra, nel punto preciso dove si incrociavano i raggi del grande cerchio, aspettava di essere riportata alla luce. Sarebbe stato un Profeta, nato da una giovane vergine, dalla bellezza incomparabile, a ritrovarla e avrebbe guidato il suo popolo verso la terra promessa. Si era affezionato a quel racconto al punto di crederlo verità sacrosanta.

    Non sapeva cosa sarebbe avvenuto di lui se l’imperatore non avesse convocato alla sua corte il suo maestro, sapiente fra i sapienti.

    Un messo imperiale aveva portato l’ordine, ma ad indurre il vecchio studioso ad intraprendere il durissimo viaggio, c’era voluta la spinta autorevole degli anziani della comunità, che seppero blandirlo col miraggio di potersi confrontare con le menti più eccelse della terra.

    Erano partiti all’alba nebbiosa di un giorno di fine inverno. Elias cavalcava Sibilla, una vecchia giumenta, e volentieri lo aveva accolto in sella. Avevano viaggiato giorni e giorni, allontanandosi sempre più dalla sua terra, senza altra difesa che il salvacondotto del Principe. Avevano attraversato passi di montagna circondati da cime altissime in cui la neve inondata di sole, splendeva, confondendosi con le nuvole. Avevano patito il freddo e rischiato il congelamento, perché i loro indumenti erano troppo leggeri per le temperature ancora invernali a quelle quote, ma ce l’avevano fatta.

    Si erano lasciati alle spalle le montagne e avevano percorso strade tortuose, attraversando piccoli paesi fatti di capanne, molto simili a quelli della sua terra. La gente però era diversa, più gentile, all’apparenza più fragile, o forse più facile a piegarsi. Gli uomini erano alti e le donne robuste. Li guardavano un po’ diffidenti, forse per l’abitudine al passaggio di stranieri che si rivelavano pericolosi, ma poi tornavano al loro lavoro. Parlavano un idioma che cambiava da luogo a luogo e del quale riusciva a comprendere parole sparse, senza legami logici. Aveva imparato a chiedere pane in otto modi diversi e anche il pane era stato di otto tipi: duro, legnoso, quasi nero, con semi crocchianti sotto i denti, giallo e saporoso per le foglie di castagno sulle quali era stato cotto, poi più chiaro e leggero e ancora più friabile, con le olive o bagnato nelle preziose gocce dorate dell’olio.

    Aveva creduto che non ce l’avrebbero fatta, ma ad un tratto la strada era diventata agevole, piana e bianca tra prati verdi ed odorosi, dove grasse mucche ruminavano placide. L’aria era cambiata, era diventata più calda. Era stato allora che, per la prima volta, aveva visto il mare, immenso, vivo di una vita sconosciuta e azzurro, come se il cielo si fosse rovesciato sulla terra e la baciasse. Le rocce vi precipitavano a strapiombo e guardarle gli provocava una sensazione di vertigine. Avevano disceso il sentiero che portava alla spiaggia, seguiti malvolentieri dalla cavalla e dall’asino, che non sembravano contenti di fare quella deviazione dalla strada tracciata, ma non avevano saputo resistere. Maestro Elias si era tolto la palandrana e i calzari e aveva bagnato, con un’espressione di intenso piacere, i piedi doloranti, poi aveva riso a lungo, fino alle lacrime, quando lui era affondato nella sabbia umida e aveva bevuto l’acqua cristallina nella quale nuotavano piccoli pesci e granchiolini. Si era offeso col suo maestro che non l’aveva avvisato e aveva sputato molte volte per togliersi il sale dalla bocca. Sibilla si era fermata ai limiti del sentiero e brucava ciuffi di erba gialla, mentre l’asinello era rimasto sul ciglio e ragliava contrariato. Il loro istinto li aveva tenuti lontano dall’idea di abbeverarsi e protestavano come potevano.

    Avevano mangiato, seduti accanto alla distesa azzurra. Il sole illuminava tratti della superficie ed Elias aveva raccontato che lì sotto si nascondeva il terribile Leviatan, mostro che rappresentava il male e che solcava il mare in cerca di prede da divorare. Sapeva che l’intento del maestro era quello di metterlo in guardia. A distanza di tempo sapeva che i veri mostri, i più temibili, erano quelli che si mascheravano da miti agnelli.

    Il viaggio era continuato abbastanza tranquillo, anche perché erano stati accompagnati da un tempo sereno.

    Un giorno però era scoppiato un tremendo temporale. Le gocce erano cadute larghe, prima rade e poi sempre più fitte e in breve la strada polverosa era diventata un canale fangoso, nel quale si affondava e ci si impantanava. Dopo un faticoso arrancare, lottando contro un vento burrascoso e una pioggia battente, avevano scorto la tettoia di una vecchia stalla e lì, fradici e spossati, si erano gettati sul mucchio di letame caldo.

    Si erano accorti della carovana solo al mattino, a causa dello scalpitare della solitamente pacifica Sibilla. Avevano sentito con una certa preoccupazione i nitriti di risposta ed Elias aveva sentenziato che c’era uno stallone nelle vicinanze.

    Di fatto gli stalloni erano più di uno, splendidi, arabi, coi garretti sottili e i mantelli neri come la pece, o marrone chiaro, o bianco, ma tutti lucidi e lisci come seta. Uno stuolo di stallieri era indaffarato a passare da uno all’altro con striglie e coperte nel tentativo di asciugarne i dorsi. Le bestie erano state sicuramente spaventate dall’impeto dell’improvvisa bufera, il riparo fortuito non era bastato a tranquillizzarli e l’odore della giumenta aveva contribuito a eccitarli. Il ragazzo era entrato nel fienile per poterli vedere più da vicino.

    L’odore era così forte, pungente e inebriante che aveva dovuto trattene il respiro poi, di fronte all’occhio glauco del più perfetto cavallo che avesse mai visto, era rimasto come paralizzato; aveva spalancato la bocca in un’espressione di così evidente meraviglia che gli stallieri non ebbero cuore a cacciarlo. Sembrò quasi che l’animale ricambiasse lo sguardo e che si stabilisse fra loro una sorta di empatia intensissima del tipo che, in un modo inspiegabile e subitaneo, talvolta si crea fra gli uomini e le bestie.

    La sorte è bizzarra e certo il ragazzetto dodicenne che era allora non poteva immaginare quanto quell’incontro avrebbe condizionato il suo futuro.

    Agli attenti stallieri non era sfuggito l’effetto calmante che la sua presenza aveva avuto sul bellissimo stallone e lo trattennero con benevoli domande. Giovanni disse il suo nome senza imbarazzo, forte della fiducia un po’ ingenua dovuta alla giovane età, presentò il suo maestro e raccontò del viaggio e della meta. Uno degli stallieri spiegò che stavano portando i cavalli all’imperatore, per conto di un mercante veneziano che intendeva ingraziarsi Federico II.

    La quadriglia doveva valere una somma notevole, perché una nutrita scorta armata stazionava sotto la pioggia.

    Quando la tempesta terminò, ripresero il cammino come un’unica, amichevole compagnia.

    Le due comitive si separarono in prossimità di Ravenna, perché una galea aspettava gli animali per portarli via mare fino a Brindisi. I miasmi delle paludi e il pericolo dei briganti, erano rischi troppo alti ed il mercante non si era sentito di correrli. Gli scarsi mezzi di Elias invece non permettevano la spesa di un imbarco e, dopo i commoventi saluti, ripresero la strada.

    Il distacco da Baltazar era stato compensato dalla certezza di rivederlo dopo pochi giorni e il dolore era stato una piuma lieve sul suo cuore.

    Castel del Monte comparve alla loro vista all’improvviso. La sua maestosa bellezza era preludio di quanto li aspettava. Se ne resero conto, vedendo le frotte di uomini e donne che salivano il pendio per la comoda strada, con le ceste per gli approvvigionamenti. Dovettero più volte fermarsi per far passare nobili cavalieri che tornavano dalla caccia e i carri trainati da possenti buoi che trasportavano blocchi di pietra, che dovevano servire per completare alcune parti.

    Quando furono abbastanza vicini, non poterono far a meno di fermarsi per ammirare il portale di ingresso, due colonne enormi sorreggevano un architrave, e sopra, bellissimo, c’era il frontone a cuspide. Era aperto sulla parete della struttura ottagonale orientata ad est, ovviamente Elias notò questo particolare e spiegò a Giovanni che, ponendosi con le spalle a quel punto, si sarebbe potuto osservare il sorgere del sole negli equinozi di primavera e d’autunno. Due enormi leoni, con lo sguardo rivolto in direzione opposta, sembravano pronti ad interrogare il visitatore sulle sue reali intenzioni. I gradini scendevano lateralmente così che allontanandosi non si potesse, come segno irrispettoso, dare le spalle alla regale dimora.

    Il ragazzo era troppo attratto dall’insieme della costruzione e prestava poca attenzione ai particolari, ma si sentiva contagiato dall’entusiasmo del suo maestro. Del resto, pur nell’asimmetria delle finestre, monofore al primo piano e bifore al secondo, l’aspetto era armonico e la mancanza di feritoie dava l’idea di voler catturare la luce per portarla all’interno. Le mura uscivano direttamente dal terreno, come fossero piante che traggono forza dalla terra, mentre le torri poggiavano la loro base su uno zoccolo ben delimitato da un’elaborata cornice.

    «Guarda ragazzo! – gli intimò il suo maestro – Guarda la perfezione di questo edificio, dove tutte le linee convergono idealmente in un punto centrale, così come tutto si concentra nella potenza del Principe, fulcro e perno dell’Impero».

    Giovanni assentiva, preso nel vortice di una curiosità da esploratore. Per volontà del maestro, sarebbero probabilmente stati a lungo in contemplazione, ma per fortuna, prima ancora di scorgere distintamente i battenti del pesante portone, due soldati si fecero loro incontro per scortarli. Accolti come notabili entrarono nel cortile interno lastricato, circondato da mura compatte, la cui maestosità era attenuata dalla presenza di tre ingressi nella parte inferiore e tre porte finestrate nella parte superiore. Al centro, grande e di un bianco translucido, c’era una vasca ottagonale che era stata ricavata da un unico blocco di marmo. Alzando gli occhi verso le alte pareti, ebbero la sensazione di trovarsi nel fondo di un pozzo, ma non era una sensazione di oppressione, anzi, al contrario, quasi liberatoria, come se la loro posizione consentisse loro di ricevere l’energia del cosmo.

    Elias era stato assorto per un po’, poi aveva cominciato a saltellare a destra e a sinistra, misurando con gli occhi l’ottagono riprodotto sul frammento di cielo che li sovrastava, le torri laterali, le possenti mura, la vasca e le fontane.

    «Giovanni, questa è una meravigliosa opera. Ogni cosa qui è immagine di un’altra, perché niente è come appare. E la sua perfezione è frutto del numero perfetto che la governa».

    Molti personaggi vestiti nelle fogge più strane discorrevano animatamente, qualcuno addirittura mostrava pergamene o alambicchi fumiganti, incuranti di quanto succedeva intorno a loro. Stavano ancora guardandosi in giro stupiti, quando due guardie, gentilmente, li spinsero in direzione del loro alloggio, dove trovarono acqua e frutta fresca. Dall’ampia finestra si poteva vedere la campagna verde cupo per i tanti olivastri.

    Si respirava un’aria particolare, densa dei profumi di quella terra ospitale, ma un po’ misteriosa, in cui tutto sembrava in perpetuo movimento. Immersi com’erano nella magnificenza della corte, si sentivano ripagati di tutti i disagi del viaggio. Elias aveva indossato gli abiti più belli e aveva costretto il suo allievo a farsi un lungo bagno durante il quale aveva continuato a spiegargli le sue teorie sull’architettura del luogo.

    «L’ottagono richiama il numero otto, che corrisponde al ritmo perfetto dell’armonia. Il percorso ascetico è costituito da sette gradi, lo spirito attraversa i sette cieli che, come ti ho spiegato altre volte, corrispondono ai pianeti e infine giunge alla meta. Qui tutto è figura del congiungimento ideale fra la terra, rappresentata dal quadrato e il cielo, che è un cerchio. Insieme formano appunto un ottagono. Capisci quale meraviglia si svela ai nostri occhi? – si era interrotto accorgendosi che il ragazzo si toccava insistentemente la pancia vuota e sbadigliava – Che fai? Sei sordo a quello che ti dico, pensi solo al cibo! Non so proprio perché perdo tempo con te... Mettiti il kippah, come si conviene a un degno figlio di Abramo!».

    Giovanni aveva ubbidito senza protestare, vergognandosi di non riuscire a controllare i suoi bisogni.

    Un servo venne a chiamarli e li guidò attraverso un lungo corridoio fino al salone. La luce delle torce illuminava le pareti di pietra ingentilita dalla mano dell’uomo che aveva saputo mostrarne la bellezza attraverso accurate sfaccettature. L’aquila degli Hohenstaufen dominava lo scranno imperiale sul quale Federico era seduto, eretto come una statua, col volto severo e un po’ sofferente. La fama della sua munificenza era meritata, cibi e bevande furono serviti in grande quantità e i convenuti ne approfittarono tutti, dimostrando un appetito pari solo alla loro sapienza.

    Uno stuolo di servi si preoccupava che ognuno avesse a disposizione quanto gli abbisognava. Il vino proveniva dalle terre di Sicilia ed era di un rosso cupo, denso e forte.

    «È come il sangue dei draghi ed è capace di infiammare gli spiriti» gli disse Elias, tentando, con poco successo, a dire il vero, di trasmettere lo stesso entusiasmo al suo allievo, ma il ragazzo era più interessato alle stalle, così vi si intrufolava appena poteva, cercando di non farsi vedere.

    Erano ampie costruzioni in legno, talmente pulite che anche a distanza si poteva sentire il profumo di resina. Gli stallieri si affaccendavano incessantemente intorno ai cavalli. Per lo più erano giumente giovani e di pregio, tendenzialmente miti.

    Giovanni aveva cercato Baltazar, ma non l’aveva trovato. Sebbene distratto dalle tante novità e dal fasto al quale non era certo abituato, era tornato molte volte, prima nascostamente e poi osando sempre più, a domandare dove erano stati portati gli stalloni.

    Nel suo girovagare incauto e curioso scopriva un mondo speculare a quello della corte e infinitamente misero e brutto. Tanto sfolgoranti e splendidi gli apparivano gli abiti, gli arredi e le stanze dalle purissime linee architettoniche, quanto truci e cupi gli sembravano gli ambienti della servitù e le capanne dai tetti di frasche, ricovero dei servi.

    Quando però si concentrava sui cavalli, il suo sguardo si illuminava incantato. Cercava sempre notizie di Baltazar e degli stalloni, ma sembrava che nessuno fosse informato del dono fatto all’imperatore. Intanto la corte si arricchiva di nuovi personaggi ed era per Maestro Elias motivo di grande eccitazione; si presentava all’uno e all’altro e intesseva profonde discussioni sugli argomenti più vari.

    Giovanni partecipava agli incontri poco interessato, ma apprendendo suo malgrado cose nuove. La sua capacità di esprimersi e di comprendere più lingue, lo metteva in una condizione di estremo favore rispetto agli altri allievi, molti dei quali conoscevano solo il latino. Nonostante le molteplici occupazioni che lo vincolavano per gran parte del giorno, riusciva a strappare momenti al riposo per correre alle stalle.

    Un chiaro mattino di quella precoce e calda primavera, si era alzato ed era salito sul torrione di vedetta, da cui era possibile vedere tutta la pianura fino alla striscia azzurra e lucente del mare. Una brezza leggera gli portava il profumo di sale che aveva imparato ad amare. La piccola carovana era stata prima un punto nero e poi si era trasformata in una massa indistinta che andava gradualmente ingrandendosi e acquistando contorni più netti.

    Baltazar stava arrivando.

    Avrebbe voluto corrergli incontro, ma ovviamente non era possibile, poteva solo deglutire i minuti, inghiottire il tempo e sperare che passasse prima. Furono ore terribilmente lunghe. Svolse, in uno stato di semieuforia, le occupazioni che gli spettavano e poi corse fino alle stalle. Passò a salutare le giumente e, per un impulso illogico e incontrollabile, comunicò loro l’arrivo degli stalloni. Lo fece a voce bassa ma le cavalle scalpitarono come se avessero capito quello che diceva, o forse era l’odore dei maschi che inspiegabilmente riusciva a raggiungerle. Gli stallieri invece si mostrarono contrariati.

    Giovanni se ne stupì, ma era troppo giovane e inesperto allora, e solo a distanza di tempo comprese che la miseria talvolta porta alla crudeltà. Un paio di loro gli spiegarono la rivalità scatenata dall’arrivo degli stalloni, che sfociò in una rissa imponente.

    I ragazzi che facevano a pugni, rotolandosi nel letame, sembrava lottassero per la vita, e forse lo facevano davvero. Lui stava in disparte, sia perché estraneo al conflitto, sia perché era un po’ spaventato da quell’esondazione di aggressività. Sobbalzò quando una mano forte gli strinse il braccio trascinandolo a forza dentro allo stallo di una giumenta.

    Prima che lo stupore si tramutasse in paura, gli giunse alle orecchie una voce tranquilla: «Pioverà. Ne sono certo» il tono solenne servì a richiamare tutta la sua attenzione.

    «È... è importante?» chiese balbettando, mentre cercava di guardare in faccia il suo interlocutore.

    «Certo! – rispose l’altro stizzito – I cavalli non amano la pioggia e diventano nervosi. Bisogna parlargli e dirgli che presto tornerà il sole».

    Giovanni non poté fare a meno di replicare: «Stavo guardando il combattimento».

    «Sono ragazzacci e la pioggia li costringerà a smettere, ma sono troppo stupidi per occuparsi delle giumente. Tu sei diverso. Ti ho seguito nei giorni scorsi» gli rispose con un tono che voleva essere persuasivo.

    Gli occhi si erano gradualmente abituati all’oscurità e il ragazzo cercò di dare un nome al volto che emergeva dal buio come una maschera tragicomica, ma desistette perché non lo riconosceva. Il cranio oblungo era ricoperto da lunghi capelli stopposi, profonde rughe solcavano la fronte alta, la faccia era deturpata da un’orrenda cicatrice che aveva ridotto il naso ad un buco informe che terminava dove cominciava la bocca. Non riuscì a trattenere un brivido di orrore e disgusto, ma ormai lo spettacolo della lotta aveva perso ogni interesse per lui e si concentrò sul misterioso individuo.

    «Chi sei? Cosa vuoi da me?» gli chiese.

    L’altro fece un passo indietro lasciandogli il braccio che fino a quel momento aveva stretto e finì nel cono di luce che arrivava dagli sporti aperti, dandogli così agio di vederlo bene.

    «Tutti mi conoscono, ma tu sei troppo ignorante vero?».

    A Giovanni la figura un po’ curva che gli si parava davanti provocò un moto di riso, ma si frenò. Adesso che lo spavento era passato desiderava andarsene, anche se provava un misto di pietà e di curiosità per quell’omuncolo dalla faccia mostruosa.

    «Non ti conosco, ma non sono ignorante. Sono l’allievo di Maestro Elias!» si accorse solo dopo di aver usato lo stesso tono pretenzioso del suo interlocutore.

    «Quello che sei non te lo ha insegnato Maestro Elias».

    L’affermazione era stata pronunciata in modo così duro e deciso che lo colpì come uno schiaffo facendolo barcollare. «Chi era veramente Giovanni lo stalliere, l’ebreo errante in mezzo al campo di una battaglia che non lo riguardava?». Non aveva ancora trovato una risposta a quell’interrogativo. Anzi forse aveva perso le poche certezze che aveva da ragazzo. Quando si era sentito il rombo di un tuono in lontananza e la giumenta, evidentemente spaventata, aveva scartato di lato nitrendo, istintivamente le aveva posato la mano sul collo e aveva cominciato a carezzarla per tranquillizzarla. Gli aveva trasmesso la sua stessa sicurezza e poi tutto era avvenuto così in fretta che i ricordi si erano quasi sovrapposti uno all’altro.

    Lo scroscio del temporale fece scappare i ragazzi e provocò agitazione fra gli animali. Senza che si fossero scambiati neppure uno sguardo d’intesa, passarono da uno stallo all’altro a tranquillizzare le bestie. Ai tuoni e ai lampi, seguì la calma relativa di una pioggia battente, monotona nel suo regolare ticchettio, ma così intensa da formare quasi un’impenetrabile cortina. Giovanni, fradicio di sudore e così stanco da trascinare a malapena le gambe, si era fermato a guardare lo spiazzo dove solo poche ore prima era stato un tripudio di urla, grida e polvere. Larghe pozzanghere rispecchiavano il cielo plumbeo.

    «Quello che sei non te lo ha insegnato nessuno». La frase questa volta fu quasi sibilata, ma ciò nonostante gli perforò le orecchie. Si voltò a guardare il volto informe e brutto che gli stava diventando familiare e cercò di leggere nei piccoli occhi rotondi, il senso di quello che ascoltava.

    «Vieni con me» gli disse l’uomo e lui non poté far altro che seguirlo sotto la tettoia. Si sedette su un basso scranno e aspirò a pieni polmoni l’odore che trasudava dal suo corpo, acre e forte, di uomo e di animale mischiati insieme e provò un’ebbrezza esaltante. Sopraffatto dall’emozione, si voltò verso il suo compagno, lo interrogò con gli occhi e l’altro rispose.

    «Sono Aloisio. Ero il medico di corte prima che il calcio di un ronzino mi riducesse la faccia in poltiglia. Guarda, non sono bello, ma è il meglio che sono riuscito a fare curandomi da solo – si interruppe per dargli il tempo di guardarlo, poi continuò con voce più triste – Ho pensato di morire cento volte. Avevo curato l’imperatore e sono stato gettato su un mucchio di letame. La munificenza del nostro signore è stata così grande che quando sono guarito mi ha nominato medico dei cavalli!» scoppiò in una risata così forte che lo scosse tanto da farlo cadere a terra.

    Giovanni non capiva il perché di tanta ilarità e non se ne sentiva coinvolto, così abbozzò un sorrisetto. «Ora devo tornare dal mio maestro. Elias si arrabbia tantissimo se non mi trova subito» disse.

    Aloisio smise di ridere di botto e lo guardò trasecolato. «Non capisci? Tu sei diverso. Ti ho visto quando parlavi alle giumente, ti ascoltano e questo è un dono di pochi. Nessuno degli stallieri ha abbastanza cervello per competere con un cavallo. Tu devi rimanere qui e occuparti degli stalloni».

    La mente del ragazzo era come paralizzata, incapace di recepire quanto Aloisio gli andava dicendo, eppure il pensiero di Baltazar cominciò a scavare in lui il pozzo del desiderio. Oltre la pioggia, che continuava a cadere imperiosa, c’era la lunga strada che si snodava fino al mare e lo stallone la stava percorrendo. Tese le mani fuori della tettoia e lasciò che le gocce d’acqua, fredde tanto da sembrare taglienti, lavassero via dalle dita i peli, lo sporco, l’afrore degli animali, ma soprattutto quello che rimaneva della sua infanzia.

    Aloisio lo guardava di sottecchi, con gli occhi ridotti a fessure e seminascosti dalle pieghe delle palpebre. Qualcosa in lui, nella sua aria soddisfatta, ricordava paradossalmente un gatto pasciuto e Giovanni aveva la spiacevole sensazione di essere il topolino. Eppure sentiva una profonda attrattiva verso quel tipo di vita così diverso dalla sua. Lo sterco maleodorante e i liquami che coloravano di giallo le pozzanghere e scorrevano in rivoli fuori dalle stalle pulsavano di vita molto più dei complessi calcoli numerici ai quali la sua mente si era abituata. Continuava a piovere e adesso le sue mani erano pulite, avevano un colore rossastro e gli dolevano. Probabilmente gli stalloni erano al riparo in qualche fienile ed avrebbero ritardato il loro arrivo. Maestro Elias lo stava cercando e forse non gli avrebbe perdonato l’ennesima fuga. Si riscosse e senza dire niente si lanciò di corsa ad infrangere la spessa cortina d’acqua. Aloisio non fece nessun gesto per trattenerlo, in fondo sapeva che sarebbe tornato.

    Maestro Elias aveva cercato a lungo il suo allievo, poi si era rassegnato alla sua assenza. Il viaggio che avevano fatto insieme aveva creato fra loro un’intimità della quale non riusciva a fare a meno. Aveva analizzato attentamente i numeri del ragazzo nel tentativo di individuarne il destino, ma con suo sommo dispiacere nessuno si intersecava coi suoi. C’era, anzi, una sequenza lunghissima che si perdeva in un futuro lontano molto discosto dal suo. Per quanto non volesse ammetterlo, questo lo irritava e quando finalmente Giovanni, fradicio e puzzolente in modo indecente, varcò la porta del loro alloggio, lo subissò di improperi. Solo guardando gli occhi acuti e fiammeggianti, ostentatamente rivolti verso di lui quasi a sfidarlo, aveva realizzato che qualcosa era cambiato nel ragazzo e che la linea dei suoi numeri aveva cominciato ad andare in direzione opposta alla sua. Picchiarlo non sarebbe servito a farlo tornare indietro, così cercò di persuaderlo blandendolo con voce improvvisamente addolcita.

    «Dove sei stato? Vai a lavarti. Fra poco ci riuniremo tutti alla presenza dell’imperatore, che si è degnato di invitarci per interrogarci personalmente. Tu avrai la possibilità di ascoltare le parole dei più eccelsi sapienti del mondo convenuti qui».

    Sperava di convincerlo col miraggio di un sapere che per lui era ricchezza incommensurabile, ma il ragazzo che gli stava davanti aveva altre aspirazioni e, benché confusamente, lo intuiva.

    Gli anni trascorsi, tanti e così densi di avvenimenti, non avevano cancellato la memoria di quel giorno che per Giovanni era stato il primo della nuova vita. Aveva lavato accuratamente il corpo sfregandosi con la pietra pomice tanto da provare dolore, prima di indossare le braghette e la camicia tenuta in serbo per l’occasione. Per un tacito accordo avevano procrastinato all’indomani ogni decisione e il dolore dell’addio.

    Percorsero quasi affiancati il corridoio, guardando distrattamente le pareti cui erano attaccati trofei di caccia che probabilmente erano frutto della passione dell’imperatore e della sua bravura.

    Sulla parete opposta al trono, spiccava il ritratto di una dama particolarmente bella, con il lungo collo di cigno ornato di pietre preziose e una corona d’oro poggiata sulla testa. I capelli erano sciolti sulle spalle e contornavano il volto i cui lineamenti erano nascosti da un velo appuntato sulla tela, così da lasciar liberi solo gli occhi, nerissimi. Giovanni, incuriosito, domandò a un paggio come mai il dipinto aveva il volto coperto e quello gli rispose che era per la gelosia dell’imperatore che non tollerava che altri uomini potessero vedere Bianca Lancia, la cui bellezza, si diceva, fosse favolosa. L’artista era misteriosamente scomparso al termine del suo lavoro e nessuno aveva avuto più sue notizie. Un servo gli aveva bisbigliato che forse era stato l’imperatore a farlo uccidere per punirlo di aver guardato troppo a lungo e con desiderio la sua amata.

    Erano entrati quasi per ultimi nella sala illuminata da torce che spandevano un gradevole profumo di agrumi e il brusio era piuttosto intenso. Il maestro di corte annunciava il nome e il titolo dei convenuti, al loro ingresso. Era una pratica quasi inutile perché si conoscevano tutti, se non altro di fama, ma a quei dotti piaceva sentire il proprio nome risuonare forte, come forse non era mai successo. Si misero un po’ discosti, sia perché il loro grado era inferiore, anche se Elias non l’avrebbe mai ammesso, sia perché il centro della sala era occupato dal primo oratore e dalla loro posizione potevano vederlo discretamente bene. Giovanni aveva una memoria straordinaria e ricordava, anche a distanza di tanto tempo, interi brani delle dissertazioni.

    Jeronimus il greco aveva mostrato una pergamena su cui aveva disegnato con meticolosa precisione la sottile e complessa rete di fili che tenevano fissate, secondo lui, le stelle alla volta del cielo e aveva spiegato che la loro resistenza era di poco superiore a quella di una ragnatela. La meraviglia generale era esplosa in frasi di disappunto e di dissenso. Molti consideravano i corpi celesti di peso e consistenza notevoli e portavano a riprova i frammenti infuocati che talvolta precipitavano sulla terra, ma il greco insisteva nelle sue teorizzazioni citando filosofi e antichi pensatori per i quali l’aria fluida è in grado di sostenere in parte le stelle, così come fa con gli uccelli, il cui volo altrimenti era inspiegabile. Il Principe ascoltava e poi faceva domande sempre pertinenti, che dimostravano la grande capacità logica della sua mente. Seduto nello scranno accanto a lui, uno scrivano trascriveva le parti salienti o i concetti più importanti. Le dame, mogli di notabili e baroni del luogo, che avevano il permesso di assistere alle dispute insieme ai mariti, erano tutte piuttosto belle, ma si diceva che nessuna eguagliasse Bianca Lancia.

    La dissertazione dottissima terminò, senza vinti né vincitori, quando il sovrano fece un cenno con lo scettro e fu introdotto un nuovo argomento.

    I numeri avevano indubbiamente un fascino irresistibile, quasi vivessero di vita propria o fosse a causa del loro incontrarsi ed appaiarsi che si dovesse la creazione del mondo e il loro studio potesse svelarne l’arcano. Mai più, da allora, lo aveva sfiorato il pensiero che fossero importanti, eppure nei suoi sogni di bambino ricordava di aver raffigurato addirittura l’Onnipotente Io Sono, come un gigantesco insieme di numeri perfetti. Colpa della leggenda che Elias gli aveva ripetuto centinaia di volte, credeva all’esistenza della Pietra sulla quale il dito di Dio aveva tracciato la meravigliosa sequenza dotata di forza creatrice.

    Il Maestro di Pisa aveva illustrato il concatenarsi sequenziale di entità numeriche, destando una grande meraviglia negli ascoltatori e Ib-ben-Ibramih, che era arrivato accompagnato da un piccolo harem di donne velate, che nessuno aveva più visto dopo che si erano ritirate nelle loro stanze, tenne un lungo discorso dimostrando, senza ombra di dubbio, che il nulla esiste e al pieno corrisponde il vuoto.

    Erano passati molti anni e adesso Giovanni sapeva che il nulla è consistente e pesante come il tutto, l’aveva capito nel breve spazio di una notte.

    Elias aveva riscosso un grande successo illustrando i principi della cabala e confermando con numerosi calcoli che il destino dell’Imperatore sarebbe stato un susseguirsi di vittorie gloriose. Giovanni conosceva il latino, l’ebraico, il tedesco, ed erano bastati pochi colloqui per sapersi esprimere con quel linguaggio fiorito, leggero, fatto di parole che parevano piegarsi sinuose al volere del pensiero, che usavano da quelle parti.

    Spesso gli era capitato di chiedersi quale sarebbe stata la sua vita se le cose fossero andate diversamente, se Baltazar e gli stalloni fossero arrivati il giorno dopo e non nel pieno della notte. Erano entrati inaspettatamente, correndo a briglia sciolta, col dorso striato dalle unghiate dei lupi, contro i quali le armi dei soldati avevano potuto ben poco. Se qualche uomo era scampato, doveva essere in condizioni tanto precarie da non poter certo competere con i veloci destrieri.

    Alle grida dei guardiani che avevano aperto la porta, tutti, servi e sapienti, soldati e dame, si erano precipitati fuori dalla sala. La pioggia era cessata e nel cielo terso, una luminosissima luna rendeva quasi inutili le tante torce. I cavalli erano spaventatissimi e scalciavano bizzosamente, scrollando le belle criniere con tale violenza, che nessuno degli stallieri osava avvicinarsi nonostante l’ordine perentorio del principe. Aloisio era arrivato fra gli ultimi, ma quando si accorse delle larghe ferite e del sangue che usciva copioso si mise a sbraitare come un ossesso, costringendo quelli che aveva intorno a lasciarlo passare.

    Baltazar e gli altri tre cavalli giravano in tondo nello spiazzo davanti alle stalle, nitrendo e scalciando, con gli occhi ancora pieni di scene di sangue e di morte. Giovanni era volato giù per gli scalini di pietra, a rischio di cadere, poi si era fermato paralizzato dal dolore che vedeva nel cavallo e che sentiva anche su di sé. Il nome gli uscì urlato e il grido era qualcosa di atavico, che ritrovava le radici animali dell’uomo, comuni a tutte le specie viventi.

    «Baltazar!» poi si lanciò in avanti, seguito da cento occhi curiosi.

    «Baltazar, amico mio!» Giovanni era quasi precipitato giù dal muro, ma si era rialzato agilmente accanto allo stallone, con le mani tese. Il cavallo esitò e poi andò a mettere il muso fra le sue braccia. Lo accolse come si fa con un bambino spaurito e cominciò a carezzarlo teneramente, mormorandogli dolci parole all’orecchio, per cancellare la sua paura.

    Anche gli altri stalloni si erano tranquillizzati e si avvicinavano a chiedere la loro dose di moine.

    «È un miracolo!».

    «Non si è mai visto niente di simile» mormoravano gli spettatori commossi.

    Aloisio fu l’unico a trovare il coraggio di avvicinarsi e richiamare gli stallieri ai loro doveri.

    «I cavalli sono feriti gravemente. Se non provvediamo subito a pulire le ferite, diventeranno purulente e per loro non ci sarà speranza. Aiutatemi a portarli negli stalli e a curarli, idioti!» urlò a gran voce per farsi udire.

    L’imperatore capì la giustezza dell’affermazione perentoria del suo vecchio medico e ordinò seccamente che fosse obbedito.

    Maestro Elias aveva cercato lo sguardo del suo allievo senza riuscire a incontrarlo. Quando finalmente Giovanni si voltò a guardarlo, entrambi seppero che non era la folla di dame e sapienti a separarli, ma il disegno già tracciato del destino. Tenendo Baltazar per la cavezza, lo accompagnò al riparo nella stalla e poi, per tutta quella lunghissima notte, cauterizzò con la cenere calda le larghe piaghe sul dorso dell’animale, seguendo le istruzioni di Aloisio.

    Era quasi l’alba quando finalmente Giovanni si concesse un po’ di riposo, sdraiandoglisi accanto sulla paglia, con le braccia strette intorno al muso e fu così che lo trovò il Principe sceso a controllare lo stato degli stalloni per i quali era estremamente preoccupato.

    Un drappello di uomini armati si stava preparando, ufficialmente in cerca di eventuali superstiti, ma anche per una grande battuta di caccia al lupo. Era notorio che nessun essere vivente poteva toccare impunemente la proprietà del loro signore. La sua ira dirompente era stata temperata solo dal timore di perdere le splendide cavalcature. Ora che le sapeva al sicuro e in buone mani, poteva dar libero sfogo alla sua sete di vendetta.

    Allo stesso tempo provava un’enorme gratitudine per quel curioso ragazzo che aveva domato con poche parole mormorate il più bizzoso e bel cavallo che avesse mai visto e avrebbe fatto qualsiasi cosa per ricompensarlo.

    Aloisio aveva medicato le ferite degli altri, ma il baio arrivato per ultimo, che aveva vistosi segni di zanne sul posteriore, era sdraiato inerte, con gli occhi già velati per la morte incipiente. Il medico aveva allargato le braccia, dichiarando la propria impotenza e l’imperatore, imbarazzato per la sua presenza ed evitando accuratamente di guardarlo, aveva schioccato le dita perché un cerusico più pietoso di lui, recidesse la giugulare, abbreviando l’agonia allo splendido animale.

    Il gesto era stato preciso e il taglio netto, così un fiotto di sangue scuro aveva intriso la paglia, fluendo prima rapidamente e poi sempre più debolmente. Aloisio aveva abbassato la testa, incapace di ribellarsi al volere dell’imperatore e aveva ripreso ad affaccendarsi intorno agli altri cavalli. L’aiuto di Giovanni era stato determinante e si compiaceva della sua scelta.

    Il principe aveva lasciato le stalle rosso in faccia per la rabbia che faceva fatica a contenere. Camminava a lunghe falcate, incurante dei mucchi di letame, col piglio imperioso di chi non è secondo a nessuno. Fuori, nella luce tersa dell’alba, splendida dopo che la pioggia aveva lavato il cielo, il manipolo di uomini del suo seguito lo aspettava. Balzò agilmente in sella e aspettò che il falcone, richiamato da un breve fischio, gli si posasse sul guanto. Lo stridere acuto dell’uccello fu il segnale che era pronto per la caccia e tutti spronarono i cavalli.

    L’aurora colorava di rosa le cime degli alberi e brume vaporose si alzavano dalla campagna disegnando strane figure o isolette inconsistenti. I servi erano già al lavoro e Aloisio sentì la stanchezza pesargli addosso tanto da schiacciarlo. La morte del baio lo aveva rattristato incredibilmente, perché gli dava la misura della sua fallibilità di fronte alla forza della natura. Si guardò le lunghe dita affusolate e il dorso delle mani dove il tempo aveva lasciato macchie brune e che pure conservavano parte dell’antica bellezza e di quella vitalità che, sentiva, gli stava sfuggendo. Non aveva paura della morte, era il senso dell’incompiuto che lo angosciava. Al filo spezzato non era attaccato nulla e dopo di lui ci sarebbe stato il vuoto.

    Dovette premersi forte il petto per cacciare il dolore che lo opprimeva, respirò a fatica prima di ritrovare la calma e le forze. Non se la sentiva di attraversare lo spiazzo aperto fino al suo tugurio per gettarsi sul freddo giaciglio e tornò nella stalla. Si lasciò cadere su un mucchio di fieno e aspettò che il sonno arrivasse a ristorare la sua mente e le sue membra.

    Giovanni si svegliò quando il sole era già molto alto e lo fece perché Baltazar aveva scosso il lieve giogo delle sue braccia e cercava di mettersi in piedi. La cauterizzazione delle ferite aveva sortito l’effetto sperato e la luce opaca del dolore era scomparsa dai suoi occhi. Il dorso martoriato sarebbe guarito, ma avrebbe conservato per sempre i segni indelebili di quella terribile notte. Vi passò sopra una mano, in un gesto che voleva essere di conforto e di rassicurazione.

    Uscì e respirò famelico l’aria che sapeva vagamente di sale. Uno stormo di uccelli rosa dalle lunghe zampe sottili passò alto sopra di lui, volando in direzione del mare. Li contò per l’abitudine inveterata di ridurre tutto a numeri. Erano tredici come gli anni della sua vita e andavano verso il sole nascente: questo era un buon segno.

    Tuffò le mani nella pozza di acqua limpida raccolta in una conca di pietra, ricordo del temporale e si lavò accuratamente, poi si infilò nella porticina che saliva ai piani superiori e salì a due a due gli stretti scalini. Sapeva che avrebbe dovuto combattere, perché il suo maestro non gli avrebbe concesso facilmente la libertà cui aspirava.

    Il corridoio che portava alle stanze degli ospiti era largo e interamente coperto di tappeti pregiati, così che il suono dei passi risultava attutito e non turbava il loro sonno o il lavoro delle loro menti. Era entrato dalla parte opposta a quella usuale, ma non gli fu difficile orientarsi, perché la costruzione seguiva uno schema ottagonale, simbolo della resurrezione, e anche le distanze erano ordinate per multipli di otto, perché l’imperatore attribuiva a quel numero un potere magico, forse perché somma sequenziale di numeri perfetti, 1-3-1-3, o per altro imponderabile motivo. A metà circa c’era una sala che veniva usata per le dispute cosiddette preliminari e preparatorie di quelle di fronte al Principe. Erano scaramucce verbali dove si misuravano capacità oratorie e di eloquenza, ma non venivano rivelati i nodi più profondi del sapere per timore che fossero usati da altri.

    Riconobbe la voce di Elias prima di vederlo.

    «La vostra affermazione è di un certo interesse, ma si fonda su basi inique. Non può ammettersi la totale assenza di numero, come non si ammetterebbe l’inconsistenza della materia e, chiedo perdono, l’inesistenza di Jahvè!».

    Ib-ben-Ibramih rispose con voce grave:

    «Mi inchino alla profondità dei vostri ragionamenti. Certo avete una conoscenza molto superiore alla mia. Allah, benedetto sia il suo nome, ha permesso che io mi avvicinassi alla fontana del sapere per bagnarmi le labbra, mentre voi vi avete bevuto abbondantemente».

    La voce mielosa aveva lo scopo evidente di rabbonire Elias e fargli abbassare la guardia, difatti l’arabo si lanciò in un’argomentazione che saliva gradualmente di tono e che affascinò il ragazzo che ascoltava attento. Su quattro degli otto lati della stanza c’era una stretta finestra dalla quale la luce penetrava come una lama affilata. Per un gioco elaborato di superfici riflettenti, anche se di intensità e direzione diversa, convergeva nel punto centrale della stanza, dove un prisma di alabastro la assorbiva e la scomponeva nei colori dell’iride. Le pareti erano animate dal cangiare quasi continuo dei colori, ma sembrava che i sapienti non badassero all’insolito e stupefacente fenomeno, presi com’erano dalla discussione.

    «Allah benedetto e santo e Maometto è il suo profeta, si è preoccupato di corrispondere il pieno al vuoto e l’incavo alla protuberanza, perché si completi in essa. Ben si vede nel corpo della donna che manca, perché l’uomo la riempia, essa che è materia fredda si scalda per i di lui umori caldi; come ognuno di noi sa bene e senza necessità di dimostrazione».

    Maestro Elias corrugò la fronte e si tirò nervosamente i peli della barba fluente.

    «Ho poca dimestichezza – replicò – con la natura delle donne e ringrazio l’Altissimo per avermi preservato dalla disgrazia di dover prendere moglie, ma convengo con voi che la loro pochezza possa essere contrapposta alla grandezza dell’uomo».

    Molti dei convenuti accolsero queste parole con ampi cenni di approvazione.

    Uno dei maestri, indiano, che era sempre stato in silenzio meditabondo, quasi che non avesse nulla da dimostrare e tutto da imparare, prese la parola. Era magrissimo, tanto che le ossa puntavano sotto la pelle scura e la barba, di un bianco che tendeva al giallognolo all’attaccatura del mento, era lunga fino alle ginocchia. Aveva nel complesso un aspetto emaciato, la voce invece era potente, come se tutta la forza che aveva fosse racchiusa dentro il petto e l’aria ne usciva di getto, come da un mantice.

    «Credo che sia mio dovere prendere la parola, per il profondo legame che esiste fra la scienza cabalistica e la mia religione. Noi crediamo che nelle fasi iniziali della creazione Dio scavò nella Luce infinita uno spazio vuoto, il Chalal che in seguito sarebbe servito ad accogliere tutto il creato. Ma la presenza di Dio non è mai completamente rimovibile e quello spazio non è completamente vuoto. In esso è rimasto un reshimo, un residuo della presenza della divinità. Il vuoto non può esistere» ciò detto, con l’autorità del profeta che non ammette la necessità della prova, si sedette.

    Il brusio che era seguito alle sue dotte parole era indecifrabile per il ragazzo, ma rivelava quanto fossero discordi i pareri fra gli scienziati.

    Ib-ben-Ibramih si inchinò, era chiaro che toccava a lui replicare e lo fece con impeto:

    «Mi siete maggiore e volentieri vi ho ascoltato, ma ora concedete a me la vostra attenzione. Lo zero esiste e non è una mia congettura, ma il frutto di lunghi ed impegnativi studi dei miei fratelli. Non so che significato può avere per voi teorici della Cabala, ma io sono un matematico e l’assenza di quantità mi è necessaria così come la sua presenza».

    Dalla sua posizione, Giovanni poteva vedere il suo maestro agitarsi sullo scranno, in cerca della risposta più appropriata, ma fu prevenuto dal maestro di Pisa, la cui autorità fra gli astanti era così rilevante che tutti si fecero più attenti. Si esprimeva in un latino forbito e parlava così velocemente che la traduzione di quanto diceva risultava difficilissima. Elias era così abituato a richiedere l’aiuto dell’allievo che lo chiamò a voce alta, anche se il ragazzo era certo di non essere stato visto.

    Si fermò nel centro, accanto al piatto con l’alabastro, così che l’iridescenza dei colori si proiettò ad illuminargli il viso, e mentre traduceva in arabo quanto il maestro Fibonacci diceva, tutti gli occhi si fissarono su di lui. L’avevano riconosciuto come il ragazzo del miracolo e ora quasi non si stupivano della sua capacità di vero poliglotta. Lui capiva solo parte di quanto ripeteva, ciononostante sentiva la bellezza dei suoni che uscivano dalla sua bocca, il loro concatenarsi armonico e questo gli dava la sensazione di dire una profonda verità. Si era sempre dispiaciuto di non aver conservato memoria, se non frammentaria, della lunghissima argomentazione. Ricordava che era stato citato Sant’Anselmo a testimonianza dell’ontologica esistenza di Dio, essere supremo e immateriale, da cui scaturiva la possibilità che il nulla fosse generato e non generante. Ricordava anche con un moto di ilarità che il maestro pisano aveva tracciato il netto solco di separazione fra chi considerava i numeri dotati di poteri specifici a loro intrinseci e chi, come i veri matematici, li considerava meri e necessari strumenti di conoscenza, servi della materia.

    «Voi cabalisti avete un sapere superiore al nostro, perché avete scoperto la forza nascosta in questi che per noi sono solo simboli, e mi inchino, ma i padri della Chiesa ci hanno tramandato giustamente che, per volere di Dio, l’uomo è superiore a tutto il creato ed i numeri non possono essere che al nostro servizio».

    Anche se le parole erano state diverse, poter misurare il mondo era, per qualcuno, come possederlo.

    I ricordi gli arrivavano a ondate successive, senza un ordine vero e proprio, riportandolo a momenti lontani, quando cavalcava nel deserto, oppure quando contemplava le stelle o quando l’aria frizzantina gli aveva fatto rievocare immagini sepolte nei recessi più profondi del suo essere. Lo zefiro, tiepido e lieve, era sempre stato foriero di morte incipiente, di qualcosa che finiva. Sifr era l’antico nome di quell’assenza di materia, di quel numero senza quantità che aveva suscitato interminabili discussioni fra i dotti e i sapienti. A ponente moriva il sole, tutto finiva nel nulla immateriale e senza sostanza e lo zero, lo zhefir, era nella sua mente questo chiudersi del cerchio, nel degradare lento e inarrestabile della pienezza che scivolava nel vuoto. Zefiro era per lui questa certezza, l’unica che aveva. Non era sicuro che ci fosse il residuo di Dio nel luogo dove sarebbe finito e neppure che il fuoco della Geenna avrebbe bruciato la sua anima di miscredente come gli aveva pronosticato e forse augurato Elias nel turbolento ultimo loro incontro.

    Aveva trent’anni, un’età che non poteva più chiamarsi giovane, ma era ancora vigoroso e sicuramente non si sentiva pronto alla morte. Eppure quel fluire costante di ricordi, quel rimestare nelle radici stesse delle scelte che aveva fatto o alle quali si sentiva costretto, avevano il sapore di qualcosa che stava perdendo. Presagi funesti. Chiudeva dietro di sé le porte di stanze nelle quali non sarebbe più entrato, salutava col pensiero amici che non avrebbe mai più incontrato. Avrebbe detto le preghiere per il suo antico maestro, tentando di

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