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La stagione blu
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La stagione blu

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"La stagione blu" è la storia di un ragazzo incapace di vedere davvero le cose. Un giorno incontra una donna misteriosa con un gatto bianco e sei bauli vuoti e qualcosa, nella sua vita, inizia a cambiare. E' una storia di amicizia e fatalità, di amore che a volte è privazione, di rincorse e abbandono. L'azione prende forma in un teatro dai lampadari di cristallo e le poltrone di velluto, con un palcoscenico che assomiglia alla prua di una nave, o sotto i rami di un albero di Jacaranda blu che muove i fili di certe trame invisibili, sotterranee, forse inaccessibili. Diego, Baribal, Maia, Scintilla, Drago, Viola e Zaffiro... è di loro che parla questa storia fatta di incontri inaspettati, di vita sospesa, di parole non dette.
LanguageItaliano
Release dateDec 10, 2018
ISBN9788829569991
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    La stagione blu - Martina D'Angelo

    D’A.

    PROLOGO

    Il bambino siede nelle braccia del gigante blu.

    Il gigante ha un corpo nodoso, possente, che si dirama in una ragnatela di arti coriacei. È ricoperto di piume, il gigante buono, piume di un viola debole, tenue come lacrime di ametista. La donna-farfalla gli danza davanti. Il bambino solleva lo sguardo e il gigante scoppia in un pianto di schegge blu e viola. Aria lieve come spuma di mare assorbe le lacrime del gigante e le porta lontano, via dalla donna, dal bambino, dall’universo entropico. La donna si avvicina al bambino, le dita affusolate scivolano su una garza serica. La striscia di tessuto copre gli occhi del bambino. Lui rimane immobile sotto il gigante blu mentre la donna-farfalla si allontana, a passo di danza, screziata dalla pioggia di lacrime del titano. Non si volta mai. Il bambino resta sotto il gigante, che lo avvolge con le sue braccia sconfinate, stringendolo a sé in un amplesso primigenio tra creature apolidi.

    Si trova lì, il bambino, nel ventre di un gigante muto, bendato, invisibile, solo, quando qualcuno si accorge di lui e lo prende con sé.

    PARTE PRIMA

    Radici invisibili

    1

    Il mio sguardo è perso nel velluto porpora dei tappeti mentre le dita continuano a tamburellarmi sulle ginocchia con un ritmo da polka. Butto un occhio all’orologio, segna le 17:24. Sono qui da tredici minuti e il tempo sembra essersi addensato in una sbobba simile a quella che mi propina Baribal per cena. Baribal è mio zio. Non è davvero mio zio; nonostante questo, è il parente più stretto che io abbia.

    17:25. I miei pensieri corrono molto più veloce delle lancette. Baribal cucina da cani e ha la faccia più pelosa che abbia mai visto. È scorbutico e nevrastenico, non parla con nessuno, odia gli zuccheri, ha un rapporto conflittuale con la televisione e ho sentito paragonarlo a Boo Radley troppe volte per farci ancora caso. Se non fosse per me, credo che si terrebbe la stessa camicia addosso fino a corroderla con i propri liquidi corporei. Non gli piacciono lavanderie, perdigiorno e tessere del supermercato. In generale, non ama nulla all’infuori della propria faccia pelosa, le camicie in flanella che occupano il secondo cassetto a sinistra della cassettiera, e il sottoscritto.

    È passato un altro minuto e la donna seduta dall’altro lato della guardiola finalmente sembra accorgersi della mia presenza. Quando dico che Baribal tiene a me, non intendo che me l’abbia mai detto espressamente. Solo, qualcuno che ogni sera si cura di farti trovare la broda in tavola deve tenere a te, credo. Anche se fa schifo.

    La donna ha ricci fittissimi e cammina in un equilibrio innaturale sui tacchi, che affondano ad ogni passo nella linda moquette color porpora. Neanch’io ho mai detto espressamente a Baribal che tengo a lui; però ogni sera mangio quello che mi fa trovare, e tanto dovrebbe bastare. La donna si avvicina e il velluto sotto i miei piedi freme.

    «Sei qui per la lezione?»

    Sì. Sì, sono qui per la lezione. Annuisco.

    «Sei arrivato in anticipo» sentenzia poi con cipiglio severo, come se quello di cui mi sta accusando fosse un peccato capitale. «La lezione non inizierà prima delle cinque e mezza»

    Sollevo un polso. «Sono le cinque e ventisette» le faccio notare, nel vano tentativo di prenderla in contropiede. Sembra proprio una di quelle persone che hanno deciso di fare dell’acidità il proprio tratto distintivo, e io sono della scuola di pensiero che l’acredine spetti agli agrumi soltanto. Vorrei dirglielo.

    «La lezione non inizierà prima delle cinque e mezza» ripete, scoccandomi la stessa occhiata che riserverebbe ad un randagio che avesse avuto la malaugurata idea di passare la notte sul suo zerbino.

    «Aspetterò» commento. Le sorrido serafico. Lei stringe le labbra.

    «Bene» ribatte, poi fa dietrofront e si avvia lungo il corridoio che minaccia di risucchiare le sue scarpe piccolissime da un momento all’altro.

    Per un istante ammiro la sua capacità di camminare sulle sabbie mobili. Io non sono mai stato in grado di rimanere sulla superficie delle cose.

    Sto ancora seguendo con lo sguardo quei passi altalenanti quando una porta si apre e sento una voce femminile, cristallina e tonante, fare il suo ingresso nel foyer.

    «Clementina» chiama la voce, e quando la segretaria con la puzza sotto il naso si volta per poco non cado dalla sedia. Dopotutto quella donna è davvero un agrume. Ce l’ha nel nome oltre che nei modi. «Clementina, puoi aiutarmi con questi bauli?»

    La nuova arrivata è una signora di circa trentacinque, quarant’anni, che catalizza immediatamente la mia attenzione. Ha un volto elfico, pallido e sottile, con una bocca che sembra un fiore e gli occhi blu polvere. Le rughe sottili che si dipanano a partire dalle palpebre le gettano addosso un’aura mistica che sa di poesia. Sembra la protagonista di una tragedia giapponese. Sarebbe una perfetta Madama Butterfly.

    Clementina-senza-edulcoranti si avvicina a Madama Butterfly con un sorriso spaventosamente largo sulla faccia scialba.

    «Viola! Eccoti qui»

    Viola. Drizzo le orecchie. Viola? Sarà davvero… lei? E perché non è arrivato ancora nessun altro? Le dita iniziano a tamburellare con un ritmo nuovo, più incalzante del precedente.

    «Ciao, Clementina. Non ho fatto tardi, vero?»

    «No, assolutamente. Sei in perfetto orario»

    «Bene. Alcuni ragazzi del corso erano qui davanti, li ho fatti entrare direttamente dal retro. Non sono ancora le cinque e mezza ma minuto più, minuto meno…»

    «Figurati, Viola cara, figurati. Hai fatto benissimo» risponde l’arpia. Decido che è arrivato il momento di spostare l’attenzione su di me. Mi schiarisco la voce.

    «Buonasera. Lei dev’essere Viola Martini, l’insegnante di…»

    Vengo zittito praticamente all’istante.

    «Sì, sì, caro, sono io. Adesso, puoi aiutarmi con i bauli?»

    Così dicendo, l’esile signora mi scarica addosso una mezza dozzina di quelli che assomigliano a veri e propri forzieri del tesoro, con un’energia inattesa e non particolarmente consona alla fioca vitalità delle tragedie giapponesi. Sto per sollevare l’ultimo e quasi mi viene un colpo quando una meteora lattiginosa mi passa fulminea tra le gambe. Metto a fuoco l’indistinta macchia bianca e mi rendo conto che è stato nientemeno che un gatto ad evadere dall’ultimo baule di Madama Butterfly.

    «Oh, ecco Bukowski» commenta lei senza batter ciglio. «Il birbante mi segue dappertutto»

    Premetto che nella mia vita ho visto tanti gatti, perlopiù intenti a sonnecchiare sui tetti durante il giorno e a farsi coinvolgere in bizze clandestine nelle notti di luna piena: l’abbaino che condivido con Baribal è più in alto della maggior parte delle altre abitazioni e ha il grande vantaggio di una visione a trecentosessanta gradi sul circondario. Questo, però… è molto più che un gatto. È una nuvola di cotone di almeno quindici chili, voluminoso quanto vaporoso, e assomiglia ben più ad un mostro mitologico che non a un comune micetto. Per tornare all’ambientazione da tragedia orientale in cui collocherei la padrona, questa piccola belva lanuginosa è presumibilmente un bakeneko, la creatura sovrannaturale dalle fattezze feline che nella tradizione giapponese è in grado di creare spettrali sfere di fuoco e assumere sembianze umane. Un brivido mi scorre involontariamente lungo la schiena quando il mostro dal candido manto mi scocca un’occhiata incuriosita e si lecca i baffi.

    «Bukowski. Perché proprio Bukowski?» è l’unica cosa che riesco a domandare mentre Madama Butterfly si è già avventurata lungo il corridoio e mi tocca inseguirla, tenendo in un equilibrio surrealista i suoi sei bauli da eccentrica gitante.

    «Mi stai chiedendo perché il mio gatto porta il nome di un poeta tardo novecentesco ritenuto geniale nello squallido pragmatismo della sua produzione?»

    «No. Sì. Sì, è quello che intendevo chiedere»

    «Sai cosa diceva Bukowski sull’ispirazione, ragazzo?»

    Scrollo la testa.

    «Te lo dico io. Quando gli veniva chiesto come facesse a scrivere, a creare, lui rispondeva che l’importante è non provare. Né per le Cadillac, né per la creazione, né per l’immortalità. Bisogna aspettare e continuare ad aspettare, esattamente come si aspetta un insetto in cima al muro. Quando questo finalmente si decide a venire verso di te, tu lo raggiungi, lo schiacci e lo uccidi. Oppure… oppure, se ti piace il suo aspetto, lo tieni con te e ne fai un animale domestico»

    «Non ha mai considerato di schiacciare il suo gatto con una pantofola, vero?»

    «Sto solo dicendo che non ho mai voluto Bukowski, né lui ha mai voluto particolarmente avere me. Ci stavamo solo aspettando a vicenda»

    «A volte, il modo migliore per trovare qualcosa è non cercandola affatto» commento sovrappensiero, quasi sottovoce.

    «Proprio così, ragazzo. Come ti chiami?»

    «Diego Castelli, madame»

    «Bene. Sai cos’altro diceva Bukowski? La gente è il più grande spettacolo del mondo e non si paga nemmeno il biglietto»

    «Mi sembra appropriato, dato che siamo in un teatro»

    «Esattamente. Adesso, da bravo, torna indietro e goditi lo spettacolo di Clementina che tenta di sfuggire alle mire del mio gattaccio, dopodiché riagguantalo e portalo da me. La lezione inizierà subito dopo. Sbrigati»

    «Torno subito»

    Volo verso la segreteria, lieto di trovarmi esattamente dove sono. Mi sento nel posto giusto al momento giusto. Non è un’emozione che mi capita di provare tanto spesso.

    Quando arrivo, Clementina è nel bel mezzo di un’inquietante dialogo con l’elefantesca bestiola. Quasi provo pena per lui.

    «Sciò, sciò… no, volevo dire, torna qui. Bukowski! Bukowski, per favore. Non farmi questo. Ti prego. Io odio i gatti. Odio i padroni dei gatti. Odio Viola! Perché deve farmi questo ogni santa volta?!»

    Mi avvicino a Clementina sentendomi un paladino dell’universo.

    «Hai bisogno d’aiuto?» chiedo con nonchalance.

    «Non farti pregare, bellimbusto» risponde lei con un vistoso respiro di sollievo.

    Mi abbasso fingendo una fiducia che non provo, ma fortunatamente l’abnorme Bukowski è meno infido del previsto e si lascia prendere con facilità. Dopo mezzo secondo, sta addirittura facendo le fusa.

    Decido di togliermi un piccolo sfizio prima di andarmene.

    «Clementina?» chiamo.

    «Sì?» risponde lei, palesemente sconvolta da quell’accesso di familiarità.

    «L’acredine va bene solo per gli agrumi» sussurro con aria da intenditore. Lei mi fissa scandalizzata.

    «Tu non sei a posto» commenta. «Su, adesso vattene! Andatevene, tutti e due. Non voglio rivedere quel dannatissimo gatto nei prossimi due mesi»

    «Cosa succede tra due mesi?»

    «Vado in vacanza!» strilla lei spingendomi fuori mentre Bukowski mi sta attaccato al petto come un placido Buddha nel suo tempio. Quello che succede dopo dura un attimo infinitesimale. Per prima cosa, alzo gli occhi verso l’alto e vedo che, sulla torre dell’orologio, le lancette hanno appena segnato le cinque e ventinove minuti. Penso distrattamente che il mio orologio deve essere davvero in anticipo. Poi… poi qualcuno mi sbatte addosso, il gatto Bukowski viene risvegliato dal suo nirvana, miagola isterico e si divincola, sfuggendomi. Scatto alla cieca nel tentativo di acchiapparlo per poi rendermi conto che qualcuno l’ha già riacciuffato: è la persona contro cui sono andato a sbattere. Ricompongo la sua immagine in un amalgama sbilanciato di fotogrammi simili a tasselli di un mosaico. Vedo occhi enormi circondati dall’alone soffuso di capelli lunghi e bruniti come caramello, poi un sorriso che si rifrange nel bianco niveo del manto di Bukowski. C’è una ragazza davanti a me e a me si sta contorcendo lo stomaco. Dannata sbobba di Baribal…

    «Sei… sei qui per la lezione?» balbetto.

    Lei sorride, inclinando leggermente la testa su un lato. Indossa un maglione azzurro che le illumina gli occhi, li rende danzanti e ipnotici come un fondale marino.

    «Sì» risponde, ed è tutto quello che voglio sentirle dire.

    «Da questa parte» dico allora nel tentativo di recuperare un po’ di contegno, improvvisandomi suo chaperon.

    Il gatto Bukowski riprende a fare le fusa.

    Sono le 17:29. La lezione deve ancora cominciare.

    2

    Quando rientriamo nel teatro, Madama Butterfly si trova al centro del palco, circondata da una decina di ragazzi. C’è della musica. Non mi occorrono che pochi istanti per riconoscere l’inconfondibile Bohemian Rhapsody propagarsi nella sala, simile ad un’entità tentacolare. Il teatro mi sembra velato da una patina di sacralità: mi muovo lentamente, in silenzio, ammirato e deferente come se mi trovassi all’interno di una cattedrale.

    «Siamo in ritardo?»

    Trasalisco. Per un attimo mi sono dimenticato di non essere solo. La ragazza di poco fa è ancora con me, appena a un paio di passi di distanza.

    «No, non siamo in ritardo» rispondo soltanto.

    Bukowski salta sinuoso sul sedile di una delle poltrone in platea e inizia a dirigersi verso il palco, balzando di poltrona in poltrona, come attratto da una sirena.

    Lo seguo. Sento anch’io quel richiamo.

    I sei bauli di Madama Butterfly sono posizionati in bell'ordine sul proscenio. La ragazza e io ci uniamo al resto del gruppo: gli altri ci fanno immediatamente un po’ di spazio nel cerchio che hanno

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