Ogni quarto di luna
By Sara Pessino
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Ogni quarto di ciclo lunare, uno alla volta, i viaggiatori del tempo faranno ritorno al proprio mondo, portandosi dietro una nuova consapevolezza, che stravolgerà per sempre le loro vite e di conseguenza il corso della storia. Novello Virgilio, per gran parte del loro viaggio li guida la giovane Anna, loro diretta discendente, a cui non sarà risparmiata una prova difficile capace di destabilizzare il suo cuore. Nell’ombra un misterioso uomo deciso a tutto pur di far fallire il tentativo estremo di Isif che porta con sé il ricordo della nipotina Electra, lasciata in un mondo sull’orlo del collasso.
Nel romanzo, opera prima di una scrittrice di talento, grazie a una trama ben congegnata, a un attento studio psicologico dei personaggi e a uno stile asciutto, incisivo, qua e là ravvivato da spruzzi di ironia, si ingenera un mix capace di creare una sorta di rapporto empatico tra il lettore e la bambina che attende tra le macerie di un futuro lontano. Romanzo appassionante, che cattura fin dalle prime pagine.
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Ogni quarto di luna - Sara Pessino
Ringraziamenti
1
Le pesanti porte del tempio si chiusero con un tonfo, che echeggiò fra le alte colonne in granito, mentre l’aria della sera attraversò rapida il corridoio, accarezzando le fiaccole accese.
Alcune fanciulle avanzarono meste verso il centro della grande sala, camminando in silenzio una accanto all’altra fino al Cerchio della Vita, un gigantesco ouroboros raffigurato sul pavimento in pietra, dove furono costrette a sedersi. Erano state preparate al loro destino e sapevano a cosa sarebbero andate incontro. Le madri le avevano rassicurate, prima di salutarle, ma uno strano senso d’angoscia turbava i loro giovani cuori.
Improvvisamente, dall’oscurità fra le colonne apparvero dodici vestali avvolte in lunghi abiti trasparenti, che scendevano morbidi fino ai piedi scalzi e le circondarono iniziando una danza lungo il bordo del cerchio, poi si presero per mano continuando a volteggiare come farfalle leggere. Accompagnate dal ritmo della musica, sempre più incalzante, alzarono le braccia verso l’oculo del tempio, invocando i bianchi raggi della luna, che filtrarono luminosi all’interno, colpendo un piccolo serpente in oro. La sua ombra, proiettata sulla parete, iniziò a muoversi sugli antichi affreschi.
Da dietro l’altare in pietra apparve la sacerdotessa in tutta la sua regalità, lo sguardo era severo e il volto non lasciava trasparire alcuna emozione. Aveva lunghi capelli neri, lasciati sciolti sulla schiena seminuda, mentre un busto riccamente decorato fasciava il seno prosperoso e la gonna color oro scendeva a balze fino al pavimento. Portava un copricapo a forma di torre, al centro del quale brillava una piccola mezzaluna. Il suo nome era Dikte.
Alzò le braccia verso la luna e pronunciò una formula magica in una lingua ormai sconosciuta agli uomini, ma l’ombra la comprese e ubbidì. Si staccò dalla parete, assumendo la forma di un serpente in carne e ossa che strisciò sul pavimento, muovendosi sinuoso fino al Cerchio della Vita, dove si posizionò al centro. La lingua biforcuta vibrò per assaggiare l’aria e gli occhi magnetici si accesero di un rosso rubino, mentre fissò le fanciulle che, come ipnotizzate dal suo sguardo, caddero all’indietro, perdendo completamente il controllo sul loro corpo. Non potevano più muovere le braccia per difendersi, le gambe per scappare, la bocca per gridare di terrore. Che ne sarebbe stato di loro?
Dikte attraversò silenziosa la grande sala, ritrovandosi faccia a faccia col serpente, ma non ebbe paura di quell’enorme mostro che incuteva terrore agli altri uomini, era stata lei a invocarlo e a chiedere il suo aiuto. Il serpente si avvicinò sibilando e quando sfiorò con le spire la pietra bianca incastonata nel bracciale, il corpo di Dikte fu attraversato da una potente scarica di energia. Ci volle tutta la sua concentrazione per assorbirla e farla sua. Ora era pronta a portare a termine la cerimonia, perché lei era la prescelta.
Una lacrima le scese sulla guancia, quando guardò quelle giovani donne immobili davanti a sé. Non era la prima volta che ufficializzava quel rito, eppure alcune emozioni non riusciva ancora a dominarle e trovavano sempre il modo di farsi strada nel suo cuore, da più di trecento anni. Si morse il labbro inferiore e chiuse gli occhi. Dikte concentrati, pensò, non poteva deludere chi contava su di lei. Portò le braccia in avanti e inspirò profondamente, poi un fascio di luce uscì dal suo corpo longilineo, colpendo le fanciulle inermi al centro del mosaico.
Pianti disperati spezzarono il silenzio del tempio, il suono più bello che Dikte potesse udire.
Ora tutto era stato compiuto.
Aprì gli occhi, cercando di riabituarsi alla debole luce delle candele e si guardò intorno, il serpente era sparito, portando con sé i suoi segreti. Dove vivesse e quali forze lo governassero, nessuno lo sapeva, solo le sacerdotesse avevano imparato come chiedere il suo aiuto, grazie alla magia e ai poteri della luna.
Sorrise e avanzò lentamente verso le giovani donne, che stringevano fra le braccia i loro figli, nati in una fresca sera di primavera senza dolore, perché è così che si veniva al mondo, quando ancora si adorava la Dea.
Quello era il regno di Dikte, dove lei era regina e custode. In silenzio si sfilò la corona cerimoniale, nascondendola al sicuro, nello scomparto segreto dell’altare. Poi guardò verso l’oculo, fra l’oro delle stelle, dove la luna non era più visibile, eppure la pietra bianca incastonata nel suo bracciale percepiva ancora la sua energia, emettendo piccole scosse elettriche. Improvvisamente, una folata di vento spalancò le porte, scaraventando a terra i candelabri e in un attimo il tempio fu avvolto dalle tenebre. Quando le vestali riuscirono ad accendere le candele, di Dikte non c’era più traccia e si guardarono intorno per cercarla, ma di lei era rimasto solo il profumo.
Dikte apparve sul tetto di quella che sembrava una piccola torre in rovina. Come era arrivata fin lì?
Si aggrappò con le mani tremanti ai merli in pietra e guardò in basso. Sotto di lei, le fronde scure degli alberi ondeggiavano al vento della sera e giù nella valle i tetti delle case si univano uno all’altro, creando un meraviglioso gioco d’ombre.
Doveva trovare il modo di raggiungere quella gente e farsi ricondurre a casa.
Chiuse gli occhi, per entrare telepaticamente in contatto con le consorelle e chiedere aiuto, ma il suo corpo non sprigionava alcuna energia. Riprovò una seconda volta, cercando di allontanare tutta la tensione e concentrandosi meglio, ma nuovamente fallì. La corona! Senza di lei non posso comunicare con loro! Strinse i pugni, non le rimaneva che affrontare quel nuovo mondo da sola.
Improvvisamente un’eco rimbombò fra le mura all’interno della torre, spezzando quell’inquietante silenzio. Dikte si sporse verso la botola aperta al centro del pavimento e quando vide che la costruzione era completamente cava, si allontanò rapidamente, per non correre il rischio di precipitare nel vuoto. Al suo interno non c’erano pavimenti, non c’erano scale, solo il buio, che si perdeva nelle profondità delle mura.
Fece un respiro profondo, doveva pur esserci un modo per scendere e mettersi in salvo! Poi quel suono ritornò a farsi sentire, questa volta più chiaro e una luce salì verso di lei. Qualcuno si stava avvicinando, accompagnato da rumori metallici.
Ora ti aiuto a scendere,
le disse un uomo dai modi pacati. Vedi? Devi aggrapparti a questi ganci, fissati alla parete.
Chi era? E perché indossava quegli strani vestiti chiari, così aderenti al corpo?
Dikte non aveva altra alternativa che seguire lo sconosciuto dalla pelle olivastra e i lunghi capelli bianchi, legati a formare una coda.
Non guardare in basso e tieni la mente concentrata, ti faccio luce io con la torcia!
le ordinò con una calda voce maschile.
Iniziarono la discesa, inoltrandosi sempre più nel buio di quella bizzarra costruzione e Dikte si chiese cosa avrebbe trovato in fondo, o meglio chi. Quando i suoi piedi toccarono terra, rimase ancora un attimo con le mani salde ai ganci e prese fiato, prima di voltarsi. L’uomo dai bianchi capelli le sorrise, poi con la torcia illuminò le sagome di altre persone, chiuse all’interno della torre.
Chi mi ha condotto in questo luogo?
chiese pacatamente, perché perdere la calma avrebbe solo peggiorato la situazione.
Sono stato io. Il mio nome è Isif,
si presentò l’uomo dai capelli bianchi.
Com’era riuscito a compiere un simile sortilegio, facendole rapidamente attraversare la linea del tempo? I poteri della sua magia erano del tutto sconosciuti a Dikte, che la praticava da centinaia di anni.
Quindi è con te che me la devo prendere!
Un uomo uscì fulmineo dal gruppo, sguainando la sua spada e in un attimo raggiunse Isif. Indossava la tipica uniforme da centurione romano, i suoi muscoli erano tesi e lo sguardo carico di ferocia.
Io sono Nicus Aquilius, della XII legione, sotto il comando del centurione primipilo Publius Sextus Baculus, ti ordino di farmi tornare immediatamente nel mio accampamento in Gallia, se vuoi che ti risparmi la vita!
La missione per cui sei stato chiamato è più importante che sconfiggere qualsiasi esercito. Da questo momento le tue priorità sono cambiate!
Isif si scansò dal tiro del gladio, per nulla spaventato dalle sue minacce.
E chi me lo ordina?
domandò.
Questa!
E con un semplice gesto del dito, Isif indicò la pietra bianca, incastonata nella sua spada. Una strana luce attraversò gli occhi scuri di Nicus che avrebbe difeso quel talismano bianco a qualsiasi costo. Spiegati meglio, barbaro!
ordinò con voce ferma, mentre il sudore iniziava a gocciolare dalla sua fronte.
Ognuno di voi ne possiede una, è lei che vi ha condotto alla torre,
spiegò, alzando il sopracciglio.
Dikte, d’istinto, toccò il bracciale a forma di serpente, arrotolato al suo avambraccio. Per quale motivo?
Chi possiede la pietra è un viaggiatore del tempo e dovrà portare a termine la missione per la quale è stato chiamato, solo allora potrà fare ritorno al proprio mondo.
Una ragazza avanzò timidamente dalla zona più in ombra del muro, passandosi fra le dita un ciondolo appeso al collo. Si avvicinò a occhi bassi, poi prese coraggio e alzò il volto macchiato di fuliggine, abbozzando un sorriso. Alcuni denti erano cariati, altri mancavano completamente dalla sua bocca, era vestita con abiti sgualciti, di fattezza medioevale ed emanava un forte odore sgradevole. I suoi capelli scompigliati erano ancora neri, ma non era facile darle un’età e, nonostante l’aspetto trascurato, i suoi occhi erano incredibilmente dolci, con un velo di tristezza, quasi a rivelare il suo disagio nel sentirsi inadatta.
Dikte le sorrise. Come ti chiami?
Beldie signora. Il suo vestito è molto bello. Non ne ho mai visto uno simile in tutta la mia vita!
Forse perché fra voi passano migliaia di anni! pensò Isif, godendosi l’incontro fra due donne così diverse, ma che senza saperlo avevano tanto in comune. Stavano per affrontare un lungo viaggio insieme, che le avrebbe unite per sempre.
Dikte notò una quarta persona che stava silenziosa in un angolo, senza dire una parola. Il suo corpo basso e tozzo era ricoperto da uno strato di pelo e le sue mani enormi frugavano all’interno di una sacca, legata in vita. Dopo qualche attimo, estrasse trionfante una pietra bianca, dai contorni ruvidi. A differenza di tutte le altre non era stata lavorata per poi essere incastonata in qualche gingillo, ma brillava ugualmente, in tutta la sua naturalezza. Dalla bocca dell’uomo primitivo uscirono deboli suoni incomprensibili, eppure dai suoi gesti si capiva quanto fosse felice di aver ritrovato la pietra. Era la sua preferita, raccolta in un giorno di primavera, vicino a un ruscello d’acqua fredda, che scorreva limpido fra una vegetazione ancora incontaminata.
Per Giove! Ma che razza di essere è? Sembra un incrocio fra un uomo e una scimmia!
Nicus non aveva mai visto nulla del genere, anche se a Roma arrivavano animali da ogni angolo dell’impero. Si chiese se non fosse meglio ucciderlo, prima che quella bestia potesse costituire una seria minaccia. Strinse la mano sull’impugnatura del gladio, pronto a trafiggerlo. Non si capisce nulla di quel che dice! Neanche i barbari che vivono ai confini del mondo sono così arretrati!
Osserva il taglio che ha sulla gola. Probabilmente ha avuto uno scontro con un animale feroce e la ferita gli ha compromesso le corde vocali,
gli fece notare Isif.
Un combattimento in un anfiteatro?
Gli occhi scaltri di Nicus iniziarono a brillare.
No, proviene da una linea di luna molto più antica, quando l’uomo muoveva i suoi primi passi sul pianeta.
Cosa significa linea di luna?
intervenne Dikte.
È lo spazio-tempo dal quale ognuno di noi proviene, calcolato in cicli lunari. Ora ci siamo tutti, manca solo il nostro Virgilio!
Aprì la porta di ferro, che con un cigolio andò a sbattere contro le mura esterne della torre. Fuori la luce di un lampione illuminava lo spiazzo antistante. Ah, eccola!
Una giovane ragazza con la tuta da jogging e lunghi capelli castani stava correndo nella loro direzione. Black? Black? Dove ti sei cacciato?
gridò Anna, fermandosi a prendere fiato e poggiando le mani sulle ginocchia. Quando sollevò gli occhi, uno strano gruppo di persone in costume la stava osservando. Scusate avete visto passare un cane nero? Sicuramente è corso dietro a qualche animale!
No, siamo appena arrivati,
le rispose Isif, poi emise un fischio, che fece uscire immediatamente il labrador da dietro i cespugli.
Ecco dov’eri finito! Andiamo Black!
Anna salutò la strana comitiva e riprese il sentiero di ghiaia, ma dopo pochi passi sentì la terra tremarle sotto i piedi e vide una nuvola di polvere alzarsi rapidamente fra gli alberi. Black torna indietro!
ordinò al cane, che la raggiunse con un balzo.
Presto! Tornate dentro la torre!
gridò Isif. Come avevano fatto a trovarlo così velocemente? Attese che tutti fossero al sicuro, prima di chiudere la vecchia porta arrugginita, giusto in tempo per non essere scoperto.
Una fila di jeep militari sfilò davanti alla piccola torre di Arquata, mentre il generale Simon Mancini scrutava la piazzuola, alla ricerca del suo obiettivo. Alcuni mezzi avanzarono rapidi, per poi allontanarsi lungo il sentiero in discesa.
Generale, nessuna traccia dello scienziato. È troppo buio per localizzarlo con le jeep, faccio alzare gli elicotteri?
chiese uno dei soldati.
Procedete!
Il suo sguardo severo fissava lontano, verso i tetti delle case, disseminate nella valle sottostante. Definire Isif uno scienziato era riduttivo, pensò. Scese dalla jeep e iniziò a perlustrare il prato, quando il volto sinistro della luna che brillava in cielo, per un attimo, illuminò qualcosa fra l’erba. Di cosa si tratta? si chiese, alzando il sopracciglio. Poteva essere un indizio.
Un soffio di vento lo fece volare più avanti e lui lo inseguì per qualche metro, prima di riuscire ad afferrarlo. Un capello castano. Che la caccia abbia inizio!
rise soddisfatto, riponendolo in un sacchetto di plastica sterile, poi si voltò verso uno dei suoi uomini. Soldato! Porta questo campione al laboratorio. Voglio i risultati prima possibile!
Comandi!
Il giovane ragazzo scattò sull’attenti, prima di saltare su una jeep, che lo condusse rapidamente al quartier generale, allestito in una casa abbandonata fra la campagna. Mancini pensò a quella strana strumentazione di analisi, messa a disposizione dal suo capo. Lui bazzicava spesso in centri di ricerca, collocati nei posti più remoti della Terra e coperti da segreto militare, ma non aveva mai visto nulla del genere. Tecnologia del futuro, si disse, senza avere idea di quanto i suoi pensieri corrispondessero al vero.
Un rumore assordante risuonò all’improvviso fra le colline circostanti. Gli elicotteri!
Isif andò nel panico. Il computer sopra la torre! Devo recuperarlo!
Vengo ad aiutarti!
Isif si voltò e vide nell’oscurità l’ombra della giovane donna, che procedeva dietro di lui. Grazie!
rispose. Non so ancora il tuo nome.
Anna, mi chiamo Anna.
Sotto Black si mise ad abbaiare. Zitto o ci scopriranno!
ordinò al cane, poi raggiunse Isif sulla cima della torre, dove un pc portatile era appoggiato su un piccolo tavolino da campo. Non aveva mai visto un modello simile, emanava una luce fredda a intermittenza e simboli incomprensibili scorrevano sul piccolo monitor, accompagnati da deboli suoni.
Di cosa si tratta?
chiese curiosa.
Te lo mostrerò più tardi.
Isif lo ripose velocemente nello zaino, non era il momento per dare spiegazioni, anche perché l’avrebbero profondamente turbata. Avrebbe dovuto confessarle chi era in realtà e cosa ci faceva lì, ma soprattutto cosa voleva da lei.
Scrutò preoccupato l’orizzonte, il nemico si stava sempre più avvicinando. Presto scendiamo!
Si mise lo zaino sulle spalle, poi chiuse la botola dietro di sé e quando l’elicottero puntò il faro sul tetto della vecchia torre di Arquata, di loro non rimaneva più traccia.
Anna toccò agilmente terra con un salto e Isif tentò di imitarla, ma scivolò rovinosamente sull’ultimo gancio in ferro, cadendo di schiena. No, il pc!
E, disperato, si buttò in ginocchio, davanti a quel che rimaneva del costosissimo computer, frutto di anni di studio delle menti più brillanti del dipartimento, compresa la sua. Tutti i contatti col suo mondo erano stati tagliati, in un istante. Non potrò più comunicare con i miei colleghi!
esclamò, passandosi le mani fra i capelli, senza contare che sarebbe bastato appoggiare i campioni sul monitor per avere risposte e ora, per trovarle, ci sarebbero voluti giorni, utilizzando il metodo di ricerca degli antichi.
Che lavoro fai?
chiese Anna curiosa.
Il geologo,
rispose con una mezza verità. Nella sua linea di luna, la geologia era talmente avanzata da non studiare soltanto la conformazione fisica delle rocce, ma anche tutti i segreti che esse custodivano e lui conosceva perfettamente quelli racchiusi nelle leggendarie pietre bianche.
Fu però sorpreso che a possederle non fossero tutte donne, come era scritto nei frammenti di un’antica pergamena, che descriveva la Profezia del Quarto di Luna. Come aveva fatto a sbagliarsi? Eppure, una spiegazione doveva pur esserci.
Poi un pensiero più agghiacciante si fece largo fra la sua mente. Rischiava di rimanere intrappolato in quel mondo per sempre, perché mentre i viaggiatori del tempo lo avevano raggiunto utilizzando il potere dei talismani, lui era stato teletrasportato grazie alla tecnologia del futuro, una macchina ideata dal collega Richard. Gli era bastato ricalcolare il tempo in linee di luna, inserire la data indicata nella pergamena e schiacciare un pulsante,