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Le migliori storie di cani
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Ebook284 pages4 hours

Le migliori storie di cani

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About this ebook

Poche cose tirano le corde del cuore, come il coraggio e la lealtà di un buon cane. Questa antologia
raccoglie molte storie classiche di cani che illuminano il prezioso e indissolubile legame che si instaura
tra l’uomo e il cane. Questi racconti sapranno trovare un piacere familiare negli amanti dei cani. Dai
classici dimenticati di un cacciatore solitario e il suo cane alla signora in compagnia del suo cagnolino,
al cane randagio, questa raccolta tocca tutto ciò che riguarda i cani che ci stanno a cuore. Molte di
queste storie sono inedite.
LanguageItaliano
Release dateNov 17, 2018
ISBN9788865643037
Le migliori storie di cani
Author

Leo Tolstoy

Leo Tolstoy (1828-1910) is the author of War and Peace, Anna Karenina, The Death of Ivan Ilyich, Family Happiness, and other classics of Russian literature.

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    Le migliori storie di cani - Leo Tolstoy

    1

    Traduzione dal russo  e dall’inglese di Raffaella Belletti

    Traduzione dal giapponese di  Roberta Vergagni dei racconti di Dazai Osamu e Kobayashi Takiji

    Traduzione dall’inglese di Giampiero Cara dei racconti di Mark Twain e Rudyard Kipling

    © Atmosphere libri

    Via Seneca 66

    00136 Roma

    www.atmospherelibri.it

    info@atmospherelibri.it

    I edizione ebook novembre 2018

    ISBN 978-88-6564-303-7

    Tutti i diritti riservati, nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in alcuna forma con qualunque mezzo senza il permesso scritto dell’editore.

    Indice

    1 Anton Čechov: Biancafronte

    2 Anton Čechov: La signora col cagnolino

    3 Anton Čechov: Conversazione tra un uomo e un cane

    4 Anton Čechov: Un cane di valore

    5 Anton Čechov: Kaštanka

    6 Ivan Krylov: I due cani

    7 Ivan Krylov: Il Cane, l’Uomo, il Gatto e il Falco

    8 Ivan Turgenev: Mumù

    9 Lev Tolstoj: Il leone e il cagnolino

    10 Dazai Osamu: Storia di un cane domestico

    11 Kobayashi Takiji: Il cane che uccideva gli uomini

    12 L. Frank Baum: Il cane di vetro

    13 Rudyard Kipling: Garm, l’ostaggio

    14 Albert Payson Terhune: Il guardiano

    15 Mark Twain: Storia di un cane

    16 Jack London: Per amore di un uomo

    17 Stephen Crane: Un cane marrone scuro

    18 Ernest Thompson Seton: Lobo. Il re di Currumpaw

    19 O. Henry: Memorie di un cane giallo

    20Alexander Woollcott: Verdun Belle

    21 W.H. Hudson: Dandy, storia di un cane

    BIOGRAFIE DEGLI AUTORI

    Biancafronte

    Anton Čechov

    Una lupa affamata si alzò per andare a caccia. I suoi lupacchiotti, tutti e tre, dormivano profondamente, ammucchiati l’uno sull’altro, e si scaldavano a vicenda. Diede loro una leccata e se ne andò.

    Era il mese di marzo, ma nonostante fosse ormai primavera di notte gli alberi crepitavano per il freddo come a dicembre, e bastava tirare fuori la lingua per sentirsela pizzicare forte. La lupa era di salute cagionevole, apprensiva; sussultava al minimo rumore e pensava sempre che in sua assenza qualcuno avrebbe potuto fare del male ai lupacchiotti. L’odore delle tracce lasciate dagli umani e dai cavalli, i ceppi, la legna accatastata e la scura strada concimata la spaventavano; le sembrava che dietro gli alberi, nelle tenebre, si celassero degli uomini e che da qualche parte oltre il bosco ululassero i cani.

    Non era più giovane e il suo fiuto si era indebolito, sicché le capitava di scambiare una traccia di volpe per una di cane e a volte, ingannata dal fiuto, di smarrire perfino la strada, cosa che in gioventù non le succedeva mai. A causa della salute cagionevole non cacciava più i vitelli e i grossi montoni, come un tempo, e si teneva ormai alla larga dai cavalli con i puledri, per cibarsi soltanto di carogne; di mangiare carne fresca le capitava molto raramente, soltanto in primavera, quando, imbattendosi in una lepre, le portava via i piccoli o si intrufolava nelle stalle dei contadini, dove c’erano gli agnelli.

    A circa quattro verste dalla sua tana, lungo la strada postale, c’era un capanno invernale. Vi abitava il guardiaboschi Ignat, un vecchio sulla settantina che tossiva in continuazione e parlava da solo; di solito la notte dormiva e il giorno vagava per il bosco con il suo fucile a una canna e fischiettava alle lepri. In passato doveva aver lavorato come macchinista, perché ogni volta, prima di fermarsi, gridava: «Locomotiva, stop!» e prima di proseguire: «A tutto vapore!» Possedeva un enorme cane nero di razza non ben definita chiamato Arapka. Quando correva troppo avanti, gli gridava: «Marcia indietro!» A volte cantava, e allora barcollava violentemente, e spesso cadeva (la lupa pensava che fosse a causa del vento) e gridava: «Ho deragliato!»

    La lupa si ricordava che in estate e in autunno intorno al capanno invernale pascolavano un montone e due pecore giovani, e quando non molto tempo prima ci era passata accanto di corsa, le era sembrato di sentire belare nella stalla. Ora, avvicinandosi al capanno, capì che era già marzo e che, a giudicare dal tempo, nella stalla dovevano esserci senz’altro degli agnelli. Era tormentata dalla fame, pensava con quanta avidità ne avrebbe mangiato uno, e a quel pensiero le stridevano i denti e gli occhi le brillavano nell’oscurità, come due fiammelle.

    L’izba di Ignat, la sua rimessa, la stalla e il pozzo erano circondati da alti cumuli di neve. Regnava il silenzio. Arapka, probabilmente, dormiva nella rimessa.

    La lupa si arrampicò su un cumulo di neve e si ritrovò sul tetto della stalla, dove cominciò ad aprirsi un varco nella paglia con le zampe e il muso. La paglia era marcia e molle, e mancò poco che la lupa cadesse giù; a un tratto le arrivò dritto sul muso un vapore caldo e un odore di letame e latte di pecora. In basso un agnello, sentendo il freddo, belò piano. La lupa saltò nel buco e finì con le zampe davanti e con il petto su qualcosa di soffice e caldo, forse un montone, e allora nella stalla qualcosa cominciò improvvisamente a guaire, a latrare e a levare acuti uggiolii simili a ululati, le pecore si gettarono contro la parete e la lupa, impauritasi, afferrò la prima cosa che le capitò sotto i denti e si precipitò fuori…

    Correva a perdifiato e intanto Arapka, che aveva ormai fiutato l’odore del lupo, ululava furiosamente, le galline allarmate schiamazzavano nel capanno invernale e Ignat, uscendo sul terrazzino d’ingresso, gridava:

    «A tutto vapore! Avanti col fischio!»

    E fischiava come una locomotiva, e poi: «Oh-oh-oh-oh!...» E l’eco del bosco ripeteva tutto quel baccano.

    Quando a poco a poco tutto tacque, la lupa si calmò un poco e cominciò a notare che la sua preda, che teneva tra i denti e trascinava sulla neve, era più pesante e in certo modo più dura di quanto non fossero di solito gli agnelli in quella stagione; e aveva anche un odore diverso, e faceva degli strani versi… La lupa si fermò e depose il suo fardello sulla neve per riposarsi e mettersi a mangiare, ma a un tratto balzò indietro in preda al disgusto. Non era un agnello ma un cucciolo di cane, nero, con un testone e le zampe lunghe, di una razza grossa, con la stessa macchia bianca di Arapka sulla fronte. A giudicare dalle maniere era uno zotico, un semplice bastardo. Si leccò la schiena ammaccata, ferita, e di punto in bianco prese a scodinzolare e ad abbaiare alla lupa. Questa si mise a latrare come un cane e corse via. E lui appresso. La lupa si guardò indietro e fece stridere i denti; lui si fermò incerto e, avendo probabilmente stabilito che stava giocando, allungò il muso verso il capanno invernale e si mise a emettere uggiolii sonori e gioiosi, come per invitare sua madre Arapka a giocare con lui e la lupa.

    Stava già albeggiando, e mentre la lupa tornava alla tana attraverso un fitto bosco di tremoli si distingueva chiaramente ogni albero, e i galli cedroni cominciavano a svegliarsi e spesso i magnifici maschi spiccavano il volo, turbati dai salti avventati e dall’abbaiare del cucciolo.

    «Perché mi corre dietro?» pensava la lupa con stizza. «Chissà, forse vuole che lo mangi».

    Viveva con i suoi lupacchiotti in una buca poco profonda; circa tre anni addietro, durante una violenta tormenta, era stato sradicato un pino alto e vecchio, e così si era creata quella buca. Ora sul fondo c’erano foglie morte e muschio, e vi erano sparsi ossi e corni di bue con cui giocavano i lupacchiotti. Si erano già svegliati e tutti e tre, molto simili, stavano uno accanto all’altro sull’orlo della loro buca e, guardando la madre che tornava, scodinzolavano. Nel vederli, il cucciolo si fermò a una certa distanza e li osservò a lungo; accortosi che anche quelli lo guardavano attentamente, si mise ad abbaiare rabbioso contro di loro, come faceva con gli estranei.

    Ormai si era fatto giorno ed era spuntato il sole, tutt’intorno la neve cominciò a sfavillare, e lui continuava a stare a una certa distanza e ad abbaiare. I lupacchiotti succhiavano il latte dalla madre spingendole le zampe sul ventre smunto, e lei nel frattempo rosicchiava un osso di cavallo, bianco e secco; era tormentata dalla fame, le doleva la testa per i latrati del cane e aveva voglia di avventarsi contro l’ospite indesiderato e farlo a pezzi.

    Finalmente il cucciolo si stancò e divenne rauco; vedendo che non avevano paura di lui e che non gli prestavano neppure attenzione, cominciò timidamente, ora rannicchiandosi, ora saltellando, ad avvicinarsi ai lupacchiotti. Adesso, alla luce del giorno, era facile osservarlo… La fronte bianca era grande, e sulla fronte aveva una protuberanza come quelle che di solito hanno i cani molto stupidi; gli occhi erano piccoli, azzurri, velati, e tutto il muso aveva un’espressione oltremodo sciocca. Accostandosi ai lupacchiotti protese in avanti le larghe zampe, vi appoggiò sopra il muso e cominciò:

    «Mnia, mnia… nga-nga-nga!...»

    I lupacchiotti non capirono niente, ma si misero a scodinzolare. Allora il cucciolo colpì con la zampa uno dei lupacchiotti sulla grossa testa. E il lupacchiotto fece lo stesso. Il cucciolo gli si mise accanto e lo guardò di sbieco agitando la coda, poi a un tratto balzò via e girò alcune volte in tondo sulla neve gelata. I lupacchiotti gli si lanciarono appresso, lui cadde sulla schiena e sollevò le zampe, e i tre lo assalirono e, guaendo entusiasti, cominciarono a morderlo, ma senza fargli male, per gioco. Le cornacchie erano appollaiate su un alto pino e guardavano dall’alto la loro lotta con grande preoccupazione. Si era levato un allegro baccano. Il sole scaldava già come in primavera; e i galli cedroni che continuavano a svolazzare sul pino abbattuto dalla tormenta alla vivida luce del sole sembravano di smeraldo.

    Di solito le lupe addestrano i propri piccoli alla caccia lasciandoli giocare con una preda; e ora, guardando i lupacchiotti inseguire il cucciolo sulla neve gelata e lottare con lui, la lupa pensava:

    «Lasciamo che imparino».

    Dopo avere giocato a sazietà, i lupacchiotti andarono nella buca e si misero a dormire. Il cucciolo ululò un po’ per la fame, poi si stese anche lui al sole. E quando si svegliarono, ricominciarono a giocare.

    Per tutto il giorno e la sera la lupa pensò all’agnello che la notte precedente belava nella stalla e all’odore del latte di pecora, e per l’appetito continuava a far stridere i denti e non smetteva di rosicchiare con avidità il vecchio osso, immaginando che fosse un agnello. I lupacchiotti succhiavano e il cucciolo, che aveva fame, correva lì intorno e annusava la neve.

    «Ora me lo mangio…» decise la lupa.

    Gli si avvicinò, e lui le diede una leccata sul muso e si mise a guaire, pensando che volesse giocare. In passato la lupa aveva mangiato dei cani, ma dal cucciolo emanava un forte odore canino e lei, a causa della sua salute cagionevole, non lo sopportava più; le venne la nausea e si allontanò…

    Col calar della notte si fece più freddo. Il cucciolo si annoiò e andò a casa.

    Quando i lupacchiotti si furono addormentati profondamente, la lupa tornò a cacciare. Come la notte precedente, era allarmata dal minimo rumore e spaventata dai ceppi, dalla legna, dai cespugli di ginepro scuri e isolati, che da lontano sembravano uomini. Correva tenendosi alla larga dalla strada, sulla crosta di neve gelata. A un tratto, in lontananza sulla strada baluginò qualcosa di scuro… Aguzzò la vista e l’udito: in effetti, qualcosa camminava davanti a lei, si sentivano perfino i passi cadenzati. Che fosse un tasso? Con cautela, respirando appena e tenendosi sempre discosta, superò la macchia scura, le lanciò un’occhiata e la riconobbe. Era il cucciolo dalla fronte bianca che senza fretta, piano piano, tornava al capanno invernale.

    «Purché non ricominci a darmi fastidio» pensò la lupa e corse avanti di gran carriera.

    Ma ormai il capanno era vicino. Si arrampicò di nuovo su un cumulo di neve e da lì sulla stalla. Il buco del giorno prima era già stato tappato con della paglia fresca e sul tetto si stendevano due nuove travi. La lupa si mise a lavorare lesta con le zampe e col muso, guardandosi intorno per controllare che non arrivasse il cucciolo, ma era stata appena investita dal vapore caldo e dall’odore del letame, che alle sue spalle risuonò un latrato gioioso, sonoro. Il cucciolo era tornato. Saltò verso la lupa sul tetto, poi nel buco e, sentendosi a casa, al caldo, riconosciute le sue pecore, cominciò ad abbaiare ancora più forte… Nella rimessa Arapka si svegliò e, fiutato odore di lupo, si mise a ululare, le galline cominciarono a schiamazzare e, quando sul terrazzino d’ingresso comparve Ignat con il suo fucile a una canna, la lupa spaventata era già lontana dal capanno.

    «Fiuuu!» si mise a fischiare Ignat. «Fiuuu! A tutto vapore!»

    Premette il grilletto – il fucile fece cilecca; lo premette nuovo – ancora cilecca; lo premette per la terza volta – e dalla canna uscì un gran fascio di fuoco e risuonò un assordante «bum! bum!» Il rinculo lo colpì forte alla spalla; con il fucile in una mano e la scure nell’altra, andò a vedere cos’era tutto quel rumore…

    Poco dopo tornò nell’izba.

    «Che c’è?» chiese con voce roca un pellegrino che pernottava da lui ed era stato svegliato dal rumore.

    «Niente…» rispose Ignat. «Sciocchezze. Il nostro Biancafronte ci ha preso gusto a dormire con le pecore, al calduccio. Soltanto, non capisce che deve passare dalla porta e insiste a entrare dal tetto. L’altra notte l’ha sfasciato e poi se n’è andato a spasso, il farabutto, e adesso è tornato e l’ha rotto di nuovo».

    «Che stupido».

    «Sì, gli manca una rotella. Io non li sopporto, gli stupidi!» sospirò Ignat inerpicandosi sulla stufa. «Be’, uomo di Dio, è ancora presto per alzarsi, dormiamo a tutto vapore…»

    La mattina chiamò Biancafronte, gli tirò le orecchie fino a fargli male e poi, picchiandolo con un bastone, continuò a ripetere:

    «Passa dalla porta! Passa dalla porta! Passa dalla porta!»

    La signora col cagnolino

    Anton Čechov

    I

    Correva voce che sul lungomare fosse comparso un nuovo personaggio: la signora col cagnolino. Dmitrij Dmitrič Gurov, che si trovava a Jalta già da due settimane e vi si era ormai ambientato, cominciò anche lui a interessarsi ai nuovi venuti. Seduto sulla terrazza del caffè Vernet, aveva visto passare sul lungomare una giovane signora bionda di piccola statura, con un cappellino; le trotterellava dietro un volpino bianco.

    In seguito l’aveva incontrata nel parco cittadino e ai giardinetti diverse volte al giorno. Passeggiava da sola, indossando sempre lo stesso cappellino, con il volpino bianco. Nessuno sapeva chi fosse e la chiamavano semplicemente così, la signora col cagnolino.

    «Se è qui senza marito e senza conoscenti» pensava Gurov, «varrebbe forse la pena di farne la conoscenza».

    Sebbene non ancora quarantenne, egli aveva già una figlia di dodici anni e due figli ginnasiali. Lo avevano fatto sposare presto, quando era ancora studente del secondo corso, e adesso sua moglie sembrava di vent’anni più vecchia di lui. Era una donna alta, dalle sopracciglia scure, diritta, grave e austera, una donna, come lei stessa amava definirsi, pensante. Leggeva molto, nello scrivere non usava il segno duro,1 non chiamava il marito Dmitrij, bensì Dimitrij, ma nel profondo dell’animo lui la considerava limitata, gretta, inelegante, la temeva e non stava volentieri in casa. Aveva cominciato ormai da tempo a tradirla, e lo faceva spesso; per questo probabilmente diceva quasi sempre male delle donne, e quando in sua presenza si parlava di loro le definiva così:

    «Razza inferiore!»

    Gli sembrava che le amare esperienze vissute lo avessero reso abbastanza esperto da fargliele chiamare come più gli piaceva, e tuttavia senza la razza inferiore non avrebbe potuto vivere neanche due giorni. In compagnia degli uomini si annoiava, era a disagio, taciturno e freddo, mentre quando si trovava in mezzo alle donne si sentiva libero, sapeva di cosa parlare e come comportarsi; e perfino tacere gli riusciva facile con loro. Nel suo aspetto, nel carattere, in tutta la sua natura c’era un che di seducente, di inafferrabile che rendeva le donne ben disposte nei suoi confronti e le attirava; egli ne era consapevole, ed era a sua volta sospinto da non so quale forza verso di loro.

    Una reiterata esperienza, in verità un’amara esperienza, gli aveva insegnato da tempo che ogni relazione, che sulle prime rende così gradevolmente varia la vita e si presenta come un’avventura facile e piacevole, per le persone ammodo – soprattutto i moscoviti, difficili all’entusiasmo, indecisi, – si trasforma inevitabilmente in un vero e proprio problema, assai complesso e tale da rendere in definitiva penosa la situazione. Ma a ogni nuovo incontro con una donna interessante, questa esperienza si dileguava chissà come dalla memoria, aveva voglia di vivere e tutto sembrava semplice e divertente.

    Ed ecco che una volta, verso sera, mentre stava pranzando nel parco, la signora col cappellino si avvicinò lentamente andando a occupare il tavolo accanto al suo. La sua espressione, il portamento, l’abito, la pettinatura, tutto gli diceva che apparteneva alla buona società, che era sposata, si trovava a Jalta per la prima volta, sola, e che qui si annoiava... Nei racconti sull’immoralità dei costumi locali c’era molto di falso, egli li disprezzava e sapeva che erano per lo più inventati da persone che avrebbero peccato anch’esse volentieri, se solo ne fossero state capaci; ma quando la signora si sedette al tavolo accanto, a tre passi da lui, quei racconti di facili conquiste, di gite sui monti, gli tornarono alla mente, e d’un tratto il pensiero allettante di una relazione rapida e fugace, di un’avventura con una donna sconosciuta di cui si ignora perfino il nome e il cognome, si impadronì di lui.

    Con un gesto affettuoso chiamò a sé il volpino e, quando gli si fu avvicinato, lo minacciò col dito. Il volpino cominciò a ringhiare. Gurov lo minacciò di nuovo.

    La signora si girò a guardarlo e subito abbassò gli occhi.

    «Non morde» disse, e arrossì.

    «Gli si può dare un osso?» E al cenno affermativo di lei, le chiese affabilmente: «Siete arrivata a Jalta da molto?»

    «All’incirca da cinque giorni».

    «Io invece sono qui ormai da due settimane».

    Rimasero un po’ in silenzio.

    «Il tempo passa in fretta, ma intanto qui è una tale noia!» disse lei senza guardarlo.

    «È soltanto un’usanza dire che qui ci si annoia. Il borghesuccio che vive chissà dove, a Belëv o a Žizdra, quando è a casa sua non si annoia, ma appena arriva qui: Ah, che noia! Ah, questa polvere! Lo si crederebbe giunto da Granada».

    Lei si mise a ridere. Quindi continuarono entrambi a mangiare in silenzio, come sconosciuti; dopo pranzo, però, se ne andarono uno accanto all’altra ed ebbe inizio una conversazione scherzosa, leggera, come suole avvenire tra persone libere, soddisfatte, alle quali è assolutamente indifferente dove andare o di che parlare. Passeggiavano e parlavano della strana luce del mare; l’acqua era di un colore lilla così tenue e caldo, e la luna vi proiettava una striscia dorata. Parlavano dell’afa lasciata dalla giornata calda. Gurov raccontò che era di Mosca, che aveva studiato filologia ma lavorava in banca; che un tempo aveva studiato per cantare in un teatro d’opera privato, ma aveva abbandonato, che a Mosca aveva due case... E da lei venne a sapere che era cresciuta a Pietroburgo ma si era sposata a S., dove viveva ormai da due anni, che avrebbe soggiornato a Jalta ancora un mese circa e forse sarebbe stata raggiunta dal marito, che voleva anche lui riposare un po’. Non seppe spiegargli in alcun modo dove lavorasse il marito, se alla direzione provinciale o alla giunta provinciale dello zemstvo,2 il che parve ridicolo anche a lei. Gurov venne inoltre a sapere che si chiamava Anna Sergeevna.

    Poi, una volta nella sua stanza, pensò a lei, a come il giorno seguente probabilmente l’avrebbe incontrata. Non poteva essere altrimenti. Mentre si coricava ricordò che solo poco tempo prima era una collegiale e studiava, proprio come sua figlia adesso, ricordò quanta timidezza e quanto imbarazzo vi fosse ancora nel suo riso, nel suo modo di conversare con uno sconosciuto; doveva essere la prima volta in vita sua che si trovava sola in un simile frangente, con qualcuno che la corteggiava, la guardava, le parlava con un unico fine segreto che lei non poteva non indovinare. Ricordò il collo sottile, fragile, gli occhi belli, grigi.

    «Eppure c’è in lei qualcosa che suscita compassione» pensò, e scivolò nel sonno.

    II

    Dal loro primo incontro era ormai trascorsa una settimana. Era un giorno di festa. Nelle stanze si soffocava e nelle strade, spazzate da turbini di polvere, il vento faceva volare via i cappelli. La sete li aveva assillati per tutta la giornata, e Gurov si era recato spesso sulla terrazza del caffè per offrire a Anna Sergeevna ora acqua e sciroppo, ora un gelato. Non si sapeva dove trovare rifugio.

    La sera, quando il vento si fu un po’ placato, andarono al molo per assistere all’arrivo del piroscafo. Sulla banchina c’era tanta gente; si era raccolta per accogliere qualcuno con dei mazzi di fiori in mano. Qui saltavano chiaramente agli occhi due particolarità dell’elegante folla di Jalta: le signore anziane erano vestite come le giovani e c’era una gran quantità di generali.

    A causa del mare agitato il piroscafo arrivò tardi, quando il sole era già tramontato, e dovette fare a lungo manovra prima di attraccare al molo. Anna Sergeevna osservava il piroscafo e i passeggeri attraverso l’occhialino, quasi alla ricerca di qualche conoscente, e quando si girava verso Gurov le brillavano gli occhi. Parlava molto, buttando lì domande di cui subito si dimenticava; poi nella calca perse l’occhialino.

    La folla elegante si andava disperdendo, ormai non si vedeva più nessuno, il vento si era completamente placato, ma Gurov e Anna Sergeevna rimanevano là, come in attesa che dal piroscafo scendesse ancora qualcuno. Anna Sergeevna ormai taceva e odorava i suoi fiori, senza guardare Gurov.

    «Verso sera il tempo è un po’ migliorato» disse lui. «E adesso, dove andiamo? Vogliamo fare un giro in carrozza?»

    Lei non rispose.

    Allora la guardò fisso e a un tratto l’abbracciò e la baciò sulle labbra, e fu investito dal profumo e dall’umidità dei fiori, e subito si guardò intorno timoroso: li aveva visti qualcuno?

    «Andiamo da voi...» disse piano. E si avviarono svelti.

    Nella stanza di lei si soffocava, l’aria era impregnata del profumo che aveva comperato al negozio giapponese.

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