Identità Provvisoria
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Giovanni si ritrova così a trascorrere due anni d’inferno nel campo di lavoro di Magdeburgo, in Germania.
Vive la sua “identità provvisoria” da militare italiano, un numero tra i tanti nei campi di concentramento nazisti. Questo libro ne ricostruisce la storia, raccontata dalla viva voce del protagonista stesso, che fonde la sua personale storia con la memoria collettiva del mondo.
Maggiori informazioni https://aporema-edizioni.webnode.it/products/identita-provvisoria-di-iolanda-stella-corradino/
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Anteprima del libro
Identità Provvisoria - Iolanda Stella Corradino
Note
IOLANDA STELLA
CORRADINO
IDENTITÀ
PROVVISORIA
Identità Provvisoria
di Iolanda Stella Corradino
© 2017 Aporema Edizioni
Società Cooperativa
aporematicos@gmail.com
A Lidia e Piero,
mio futuro e mia memoria
PREFAZIONE
In tedesco avevano anche un nome, un termine, per così dire, ufficiale: Italienische Militär Internierte ; qualcosa di sostanzialmente ed etimologicamente diverso da Stück (pezzo), utilizzato per sei milioni di ebrei, cancellati dalla faccia della terra in nome di una superiorità razziale.
Loro, gli oltre settecentomila soldati italiani, catturati, disarmati e deportati nei lager nazisti per essersi rifiutati di collaborare con l’ex alleato, all’indomani dell’armistizio di Cassibile del settembre 1943, non finirono nei campi di sterminio ( Vernichtungslager ), per essere utilizzati come combustibile per i forni crematori, ma in quelli di concentramento ( Konzentrationslager ), come schiavi.
Un destino che, se per più di cinquantamila ebbe come epilogo la morte, per chi ebbe la fortuna di tornare a casa significò convivere con un trauma difficile da cancellare.
Anche per Giovanni Napolano, classe 1925, partito volontario per un’avventura che sicuramente non aveva pro-gettato e, in parte, nemmeno condiviso. Ma guai a dirlo a un ragazzo non ancora diciottenne pieno di speranze
, nato e vissuto in un minuscolo paese della provincia di Napoli (Qualiano), con in tasca pochi soldi e tanta voglia di scappare via.
Fuggire da una vita grama e da quell’inferno che era diventata Napoli nell’estate del 1943. Una città distrutta, messa in ginocchio da quasi cento incursioni aeree, dove da quasi due anni, Inglesi prima e Americani poi, avevano sperimentato gli effetti della guerra psicologica, collaudando la devastante efficacia dei cookies (biscotti) e delle block-busters, bombe alte quasi tre metri e larghe 76 centimetri, del peso di quasi duemila chilogrammi, con un potere esplosivo capace di ridurre in macerie non un palazzo, ma un intero isolato: era soprattutto da questo che Giovanni voleva fuggire.
Il modo migliore per farlo gli apparve quello di arruolarsi volontario nel C.E.M.M., il corpo degli equipaggi della marina militare. Non sarebbe mai diventato ammiraglio, con quel diploma di avviamento professionale, ma perlomeno avrebbe avuto l’opportunità di girare il mondo e di mettere qualche soldo da parte.
In realtà il sognò durò quattro settimane.
Un solo mese. Il tempo necessario per giungere a Pola, in Istria, dove la Regia Marina aveva una propria base, scattare qualche foto da mandare ai compaesani, ed essere sequestrato
, il termine è suo, dai Tedeschi.
A finire nella mortale trappola, le cui principali respo nsabilità ricadono sul re Vittorio Emanuele III di Savoia, sull’allora capo provvisorio del Governo, Pietro Badoglio, e sull’intero Stato Maggiore della Difesa, furono più di un milione di militari italiani, su un totale di due milioni di effettivi.
Duecentomila di loro riuscirono a sottrarsi alla cattura, poco meno di centomila decisero di continuare la guerra al fianco dei Tedeschi, mentre per gli altri settecentomila cominciò un viaggio verso l’ignoto: non da prigionieri di guerra, come sarebbe stato naturale nella loro condizione di militari, ma da internati. Un espediente che nei fatti li privò dei benefici previsti dalla Convenzione di Ginevra.
Il primo viaggio di Giovanni dunque non si svolse sul ponte di una nave, come lui aveva sognato, ma nel buio e nell’insopportabile tanfo di un carro bestiame, insieme a tanti altri commilitoni, pigiati come animali destinati al macello.
Giovanni non racconta quanto durò il viaggio, ma certamente non meno di tre o quattro giorni, dal momento che sono più di mille i chilometri che separano Pola da Magdeburgo, nella regione tedesca della Sassonia-Anhalt, sulle sponde del fiume Elba.
Magdeburgo, 150 chilometri a sud-ovest di Berlino e altrettanti da Bergen Belsen, il campo dove trovarono la morte Anna Frank e decine di migliaia di altri internati, e da Buchenwald, sede di uno tra i più terribili e tristemente famosi lager nazisti, regno di Karl e Ilse Koch, la iena
di Buchenwald.
Di Magdeburgo, Magdeburg-Rothensee
per la precisione, il campo di detenzione dove probabilmente finì lo sfortunato marinaio di Qualiano, si sa assai poco.
Si sa, per esempio, che sin dal novembre 1938 era stato utilizzato come campo di detenzione per gli ebrei arrestati dopo la terribile notte dei cristalli ( Kristallnacht ), che era sotto la giurisdizione delle S.S. e che tra il personale di guardia vi erano molti agenti della locale Riserva di Polizia: operai, impiegati, commercianti, artigiani, professionisti, uomini di chiesa, troppo avanti con gli anni per essere destinati al fronte, ma che si resero comunque responsabili di terribili atrocità.
Come il Battaglione 101
, che il 13 luglio del 1942 sterminò l’intera popolazione ebraica (mille e ottocento persone, tra uomini, donne e bambini) di Józefów, una cittadina della Polonia centro-orientale. [¹]
A differenza di quanto accadeva in altri lager, i detenuti, anche quelli non ebrei, erano tenuti a indossare il pigiama a righe e zoccoli di legno.
Erano spesso brutalizzati e anche uccisi.
Questo Giovanni lo percepì subito, appena arrivato al capolinea del suo viaggio. Complice la cronica mancanza di personale specializzato, e pure una buona dose di fortuna, riuscì a farsi assegnare a un kommando, che lavorava in una delle numerose fabbriche della zona che sfruttavano il lavoro dei prigionieri.
Giovanni ricorda anche il nome del kapò , un comunista tedesco di nome Otto, un angelo, che all’occorrenza però sapeva trasformarsi anche in diavolo; come quando lo colpì con una pesante mazza di ferro sulle ginocchia, perché indispettito da un’imprecazione di cui aveva colto il significato.
Dalle nebbie di un passato mai passato emergono anche alcuni episodi di solidarietà da