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I temi della vita tra Sacra Bibbia e miti
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I temi della vita tra Sacra Bibbia e miti

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I temi della vita tra Sacra Bibbia e miti è un viaggio nelle vicende umane alla ricerca del senso ultimo delle cose, un percorso in cui veniamo accompagnati e sollecitati a porci domande alle quali dare noi stessi una risposta. In capitoli autonomi vengono affrontati alcuni tra i grandi temi della vita: il dolore, la malattia, la cura, la vecchiaia, la morte. Sono tematiche spesso taciute, eppure tappe che ognuno di noi è destinato a raggiungere e a superare.
Traendo spunto anche dalla sapienza antica contenuta nei miti greci, l’autore spiega di aver trovato una risposta esauriente solo nella Bibbia, nelle parole con cui il Dio senza tempo ha voluto rivelarsi agli uomini di ogni tempo. È in sintesi l’esaltazione della Parola di Dio, che ci meraviglia a ogni passo, con i suoi tesori nascosti a una lettura frettolosa, con il suo messaggio perenne di amore e di misericordia: un barlume del pensiero di Dio, adatto alla nostra limitata comprensione.
LanguageItaliano
Release dateOct 22, 2018
ISBN9788868673246
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    I temi della vita tra Sacra Bibbia e miti - Alberto Zanoni

    lavoro.

    PREFAZIONE

    A cosa serve? Che me ne faccio?. È questa la reazione oggi normale e prevista di fronte alle proposte culturali, è il frutto dell’appiattimento mentale e dell’annebbiamento intellettuale prodotto da una società dei consumi di massa che stordisce e tende a cancellare ogni altra domanda. Certamente non sono la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico che producono questo risultato, quanto piuttosto la pigrizia mentale di molti, soprattutto negli ambiti che più incidono, spesso indirettamente o inavvertitamente, sulla mentalità dei nostri contemporanei, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, maldestramente impiegati. Prima che si interrompa del tutto la consegna da parte di ogni generazione a quella successiva del patrimonio di civiltà, cultura, esperienze in cui consiste la nostra natura di esseri umani, sarà opportuno riflettere che la cultura non è solo un patrimonio da conservare, arricchire e trasmettere, ma è essa stessa un metodo per ottenere questo risultato. E questo metodo consiste nel farsi delle domande, certo non superficiali e dalla risposta scontata come quelle da cui abbiamo cominciato. Ammettiamo pure che oggi sembri provocatorio mettere nelle mani di un giovane, o anche di un adulto, un libro che già all’inizio parla di vecchiaia, di dolore e di morte: proprio ciò che oggi si tenta di far dimenticare nascondendo queste stesse parole, per la superstizione, puerile, che tacendo una parola si cancelli la cosa a cui si riferisce.

    È anche vero che ognuno di noi, ad età diverse, ha incontrato, con smarrimento, la morte in quella di un nonno, la perdita di vitalità in un conoscente, rivisto dopo molto tempo, avanti negli anni, la fragilità in un amico provato dalla malattia. Esperienze che ci pongono delle domande, a cui la vuotaggine della comunicazione di massa odierna e la sua inconsistenza culturale non possono dare alcuna risposta vera, che riveli il nucleo profondo dei significati della realtà che pure ci circonda e con cui dobbiamo fare i conti. Farsi domande: in questo libro le domande che nascono dall’esperienza sono la trama di fondo che guida la ricerca delle risposte, e queste vengono fornite dalla stessa cultura che ci ha nutriti, anche se con profondità ed aperture ben diverse, e radicalmente diverse. Il metodo del confronto, dunque, che è il metodo della scienza, accompagna il lettore a trovare, o piuttosto a ritrovare, conoscenze, letture, esperienze di studio, testi, vicende e personaggi, che, forse depositati nella memoria da lungo o da poco tempo, riprendono movimento e colore attraverso la dizione chiara e precisa, documentata e ricca di informazioni utili a dare concretezza alla narrazione ed all’esposizione di fatti e di idee. Si può cominciare la lettura da dove si desidera, poiché ogni capitolo mantiene la sua autonomia, pur avendo la stessa struttura degli altri. E proprio questo aspetto fa avvertire al lettore di essere per così dire accompagnato, se non tenuto per mano, da un amico con cui è gradevole e fruttuoso conversare, e che ogni volta ci conduce dapprima nel frastagliato e proliferante mondo della mitologia classica, nel quale fa vedere le dinamiche e le tensioni volte a trovare un senso nella vita.

    Le domande, si diceva. Soprattutto di fronte alle esperienze problematiche, ma anche in situazioni positive, ci chiediamo se siamo i primi a vivere quel momento, se altri hanno reagito come noi o in modo diverso, quali risposte simili o differenti dalle nostre ha trovato chi ci è vicino o lontano nel tempo e nello spazio. Ecco allora che il battezzato si accorge di non essere mai solo di fronte alle vicende della vita, sa di essere oggetto di un amore sconfinato, di un amore personale che risponde ad ogni bisogno, anche il più nascosto. E sa che tutto ciò non è frutto di un’illusione puerile, perché trova le risposte alle sue domande nella Parola. Letteralmente, in parole scritte, che si lasciano leggere da tutti, in ogni momento, in ogni occasione, che sono sempre disponibili per chi le vuole ascoltare, ed …anche interrogare. Ed è lì che il credente va a cercare le risposte, e chi crede poco o per nulla si aspetta di trovarvi almeno qualche motivo di conforto. È lì infatti che i temi della vita trovano una formulazione che va oltre la parola umana, poiché nella varietà dei casi dell’esistenza fanno emergere il senso, che è una via di liberazione. Una via di liberazione che è appunto un percorso che l’umanità può compiere se si lascia accompagnare da una sollecitudine paterna, e materna, che non viene mai meno. E in tal modo si comprende la distanza che ci separa dal modello mitico, che pure contiene tanta saggezza e la forte aspirazione a superare la contingenza. Ecco allora passati in rassegna le mille sfaccettature con cui nell’Antico Testamento si presentano le vicissitudini umane, le riflessioni, le speranze, le preghiere, le proteste e le invettive, che da tempi remoti continuano a germogliare ancora nel cuore di molti. Dal grido di Lamek, Gn 4,23s., che risuona anche oggi, insistente ed arrogante, ma mostra come la volontà del male si avviti, impotente, su sé stessa, alla tenerezza forte del Cantico dei cantici. E così per le domande sul declino delle forze, l’inquietudine sul futuro della propria esistenza, il transito attraverso la sofferenza e la perdita. Ma su tutto ciò vi è sempre una Parola di luce e di amore: la morte può essere sconfitta dal braccio potente di Dio, e sono lì a dimostrarlo i due episodi della vita di Elia e di Eliseo, raccontati con i loro particolari anche minuti, ad esempio i sette starnuti del bambino della Sunnamita tornato in vita. E, in modo definitivo nel Nuovo Testamento, è ben chiaro che è l’amore che vince ogni male, perché la Parola di Dio è ora una Persona, che realizza ogni liberazione attraverso la donazione di sé. È la realizzazione di un percorso che procedendo si trasforma: qui vien ben chiarito che le formulazioni, di ognuno dei temi esaminati, nella mitologia classica e dall’Antico fino al Nuovo Testamento non vengono presentate con un metodo cronologico o cumulativo, bensì attraverso un assiduo confronto della loro sostanza, un confronto di valori, che orienta la lettura in modo efficace.

    Non mi interessa. Non mi diverte. La mentalità diffusa oggi nel mondo occidentale, che è un prodotto della cultura postmoderna, si impone cancellando ogni forma e sopravvivenza del passato, perché è costretta ad eliminare ogni termine di confronto con sé stessa. Ponendosi come unica civiltà possibile, la nostra si blocca in un artificioso eterno presente e in tal modo è costretta a riprodurre, inavvertitamente e paradossalmente, forme esistenziali, modelli mentali e valoriali, modi di relazione, che si sono già presentati nel passato e che sono stati superati proprio da quel percorso di liberazione che è vivo nella Bibbia e che si è incarnato nella storia attraverso la fede nel Cristo Salvatore. Ne sono un esempio clamoroso i miti moderni, i racconti mitici di oggi, anche se la loro genesi segue un percorso opposto rispetto a quelli antichi. Il mito antico non era il sogno di menti bambine, secondo il modello vichiano e romantico; nasceva invece da un’interpretazione, spesso acutissima, della realtà umana e naturale che si esprimeva nella forma del racconto orale, che spesso passava all’espressione letteraria, artistica, dunque estetica. I miti moderni (in cui agiscono le potenti divinità di oggi: successo, divertimento, bellezza immutabile, anomia etica, velocità...) hanno origine dalla visualizzazione estetica prodotta e moltiplicata da televisione, cinema, pubblicità, spettacolo, che viene trasformata in interiorizzazione valoriale, ampiamente condivisa, e fatta passare come riflesso di libere ed autentiche aspirazioni generali.

    E allora ci conviene contrastare l’appiattimento che nullifica ogni diversità. Il discorso culturale si fonda sul riconoscimento delle alterità, che diventa interessante, se riusciamo a fare i confronti tra ciò che siamo e pensiamo noi con quello che erano e pensavano altre civiltà, un’operazione che qualifica la ricerca del vero (e la stessa operazione, ovviamente, va fatta anche con le civiltà attuali). Tutto il libro è costruito su questa trama di confronti che è la sola che può farci capire non solo ciò che è lontano da noi ma anche ciò che siamo e facciamo noi stessi ora. Fra tutti si può prendere ad esempio l’esame del tema dell’ospitalità, che è vista soprattutto nella sua forma più aperta che è l’accoglienza, nella sua accezione più ampia. Interrogando i racconti mitici che presentano questo momento importante nelle civiltà antiche e in genere nel mondo premoderno, si vede bene che accogliere, ospitare soccorrere chi è in difficoltà è un atteggiamento tipicamente umano. Ma è regolato da convenzioni e limitazioni. Filemone e Bauci hanno il privilegio di ospitare senza saperlo Zeus ed Ermes e ne vengono prodigiosamente ricompensati; ma nel mondo biblico è un obbligo minimale soccorrere chi si presenta alla porta come se si trattasse di un familiare, come fa Abramo alle querce di Mamre; e nel Nuovo Testamento l’accoglienza diventa amore, anche verso il nemico. Ma nella realtà neotestamentaria avviene anche il capovolgimento della relazione, come dice Fil 2, 3-11, che culmina in modo abbagliante nell’inno della kénosis.

    Ma poi che c’è di più divertente, almeno in senso culturale, che inseguire l’uso, da parte degli uomini di ogni tempo, dell’oscurità linguistica, volontaria o involontaria, quando il linguaggio, creato per comunicare, diventa esso stesso un ostacolo alla comunicazione, alla comprensione? È una scoperta che arriva ad interrogarsi sul valore del segno, un’indagine che ha portato la cultura moderna, non solo in ambito semiologico, a risultati molto importanti. E poi, che interesse potrebbe avere per noi sapere quale fosse il significato e lo scopo assegnato nei miti ai sacrifici, oppure capire quali siano le forme di tesoro che gli uomini, nel mito e nelle pratiche relazionali, hanno conservato nel tempo e trasmesso nelle tradizioni popolari e nelle arti? Intanto, se connettiamo tra loro questi due temi apparentemente privi di legami, ci accorgiamo che sono tra loro complementari: il sacrificio è quello che doniamo, il tesoro è quello che teniamo stretto perché è ciò che per noi vale di più. Pertanto ciò che sacrifichiamo e ciò che tesaurizziamo rivelano noi a noi stessi. Senza contare che poi, se ci lasciamo guidare da una riflessione arricchita di conoscenza e sapienza, arriveremo a scoprire che la nozione di sacrificio in ambito cristiano non è comparabile a nessun’altra, poiché non è più il fedele che offre qualche cosa, magari di preziosissimo come era nell’antico mondo semitico l’offerta al dio del proprio primogenito. Questa nuova nozione di sacrificio è una delle prove della fondatezza della nostra fede, che infatti non può essere il frutto delle nostre aspirazioni, dei nostri desideri o sogni, o illusioni, come sono le credenze e le pratiche sacrificali estranee al mondo biblico. Anche attraverso questo elemento si vede che è Dio che entra nella storia. Paradossalmente è Dio stesso che offre sé stesso, il Verbo, nelle mani dei suoi uccisori per colmare la distanza altrimenti incolmabile tra Lui e gli uomini, con un atto che rivela un abisso di amore nel quale viene assorbita ogni logica umana. E così il vello d’oro, un tesoro dalla consistenza per la verità piuttosto vaga, scatena una serie infinita di avventure e finisce per perdere anche quel poco di concretezza che possedeva all’inizio. Invece nel linguaggio neotestamentario, ancora una volta paradossalmente e quindi in verità, il vero tesoro è ciò che doniamo, o meglio, consiste nel donarsi.

    Un viaggio entro i temi che segnano le tappe della nostra vita, sia personale sia relazionale, si fa ascoltando le voci lontane che ci parlano dei miti, e lasciandoci guidare, accanto a queste, dalle voci dei testi biblici che hanno un timbro inconfondibile e parlano sempre la lingua di oggi. Esso mostra che anche ai nostri giorni le antiche voci di Atene, Roma e Gerusalemme per fortuna sono tutt’altro che flebili (G. Ravasi, Inglese, internet, impresa, in Ritorno ai classici, a cura di A. Zaccuri, Milano, 2017, p. 15). Un tale viaggio soprattutto ci consente di sperimentare dal vivo lo spessore culturale, valoriale, e trascendente che avvolge ogni momento della nostra giornata.

    Mauro Lasagna

    INTRODUZIONE

    Se mi ponessero la classica domanda: Sei solo su di un’isola deserta e ti viene offerta la possibilità di avere con te un libro, uno solo, che cosa sceglieresti?. Non avrei dubbi. Risponderei: La Sacra Bibbia. Perché? Perché contiene la Parola di Dio. La conoscenza di una persona si ottiene soprattutto ascoltando le sue parole o leggendo i suoi scritti. Ora è sorprendente il fatto che anche Dio, per meglio farsi conoscere, ha parlato agli uomini a volte in prima persona o nella figura di suo Figlio, a volte attraverso altri uomini come i profeti. Allora, con timore e tremore, ho cercato di capire nella Bibbia quale fosse il pensiero espresso da Dio su alcuni temi fondamentali della vita umana, tra cui, non potendo dimenticarmi della mia professione medica, la sofferenza, il dolore, la vecchiaia, la cura, la morte. Mi sono messo all’ascolto di questa Parola, per trarne gli insegnamenti nascosti ad una lettura superficiale, attraverso l’analisi dei vari personaggi che animano la narrazione sacra. Non è stata la presunzione a muovermi né la certezza di cogliere la verità ma il desiderio di imparare la lingua di Dio, che nessun uomo può insegnare, nessuna scuola può certificare ma solo Dio stesso e il suo Spirito possono trasmettere.

    Questa ricerca ha fatto sì che mi nutrissi per molto tempo di un cibo sopraffino e vitale, gustato il quale ogni altro cibo appare senza sapore.

    Non c’è nulla di più bello al mondo della Parola di Dio. Ho visto alte montagne con le cime innevate, cieli detersi e nubi che creavano mille figure, notti stellate che illuminavano il mio volto, distese immense di acqua che si perdono all’orizzonte, torrenti che chiacchierano con i prati vicini, ma nulla di tutto ciò è paragonabile alla bellezza della Parola di Dio.

    Non c’è nulla di più saggio della Parola di Dio. Ho ascoltato uomini sapienti parlare di vita e di morte, ho letto e studiato il pensiero di molti filosofi, ho analizzato le affermazioni degli eruditi, ma niente di tutto questo è paragonabile alla saggezza della Parola di Dio.

    Non c’è nulla di più rappacificante della Parola di Dio. Ho seguito corsi di psicologi che trattavano del dominio di sé, ho imparato come curare disturbi d’ansia e sedare chi è agitato, ho cercato di dare sollievo alla sofferenza delle persone, ma nessuna di queste azioni è stata più rasserenante della Parola di Dio.

    Nella Parola di Dio trovi risposta alle tue domande, soluzione ai tuoi problemi, forza nella debolezza e umiltà nella fortezza, calore quando il tuo cuore si raffredda e quiete quando è in fermento. La Parola ti disseta quando hai sete e ti nutre quando hai fame; ti guida su percorsi di pace, ti apre gli occhi per vedere il sofferente e le orecchie per ascoltare il suo lamento, dà vigore alle tue gambe per camminare nelle sue vie e soccorrere chi ti sta accanto. Ti fa povero con i poveri e più ricco dei ricchi. Ti rende balsamo per sanare molte ferite.

    La Sacra Bibbia aiuta tutti noi ad interpretare il linguaggio di Dio e questo, come per ogni lingua, lo si impara in una condizione di relazione. Il bambino impara a parlare quando si relaziona con i genitori. Il lavoratore che emigra in un paese straniero, impara quella lingua quando, oltre ai corsi specifici, si relaziona con le persone del luogo, frequenta i loro ambienti abituali, i negozi, il mercato, il bar, la scuola, la chiesa. Allo stesso modo l’apprendimento del linguaggio di Dio può avvenire solo nella misura in cui entriamo in relazione con lui. Allora riusciremo a leggere dentro le righe, a cogliere le emozioni che sottendono le parole, a capire che sono espressione di un cuore misericordioso, di un Dio paterno, che ci può anche riprendere ma alla fine ci accoglie nella sua casa, che ci corre incontro quando torniamo da lui, che ci fa vivere anche quando rinneghiamo la vita, che ci ama anche quando noi odiamo, che ci chiama amici anche quando con un bacio lo stiamo tradendo, che non ci rifiuta mai ed è sempre disposto a credere in noi.

    Ma cosa c’entrano i miti in tutto ciò? I Greci adoravano statue di marmo o di metallo, oggetti inanimati. I loro idoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni! (Sal 115,3-7). I miti danno vita a queste divinità, le trasformano in esseri immortali ma con tutti i sentimenti degli esseri umani: l’ira, la vendetta, la gelosia, l’odio e l’amore, la forza, la passione. Attraverso i miti veniva illustrata in forma di racconti la realtà dell’umanità, alla ricerca di una spiegazione alle domande insolute del genere umano: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo dopo la morte…… Anche i filosofi Greci, soprattutto Platone, e gli scrittori di tragedie, come Eschilo, Sofocle, Euripide, hanno utilizzato i miti per avvalorare le loro teorie.

    Clemente Alessandrino, intellettuale cristiano del secondo secolo d.C., pensava che la filosofia greca fosse uno strumento dato da Dio ai Greci per aprire loro la strada verso Cristo, un anticipo di verità, un mezzo per arrivare alla vera religione. Anche nei miti ho trovato risposte a situazioni critiche della vita, ma sono risposte parziali, non esaustive, sono soluzioni umane a problemi più grandi dello stesso uomo. Sono il tentativo fallimentare e incompleto di scoprire quelle verità che solo le Sacre Scritture hanno successivamente rivelato. La saggezza del sapere antico aveva bisogno di andare oltre, di superare il limite. Nel mito sono gli uomini che raccontano la storia degli dei, nella Bibbia è Dio che entra prepotentemente nella storia dell’uomo, la plasma e la racconta con il suo modo di pensare e di parlare.

    Allora l’accostamento tra miti e Sacre Scritture ha solo lo scopo di evidenziare la sublimità del messaggio divino di fronte a qualsiasi altra parola uscita dalla mente e dalla bocca degli uomini. Un messaggio a volte apparentemente duro, a volte oscuro, ma sempre impregnato della tenerezza di un Padre, un abbraccio infinito sulla nostra fugace esistenza, uno strascico di amore che ci precede, ci accompagna e ci segue, un invito continuo ad accettare pienamente il dono della vita nella certezza che qualcuno veglia su di noi e non ci abbandona nelle nostre vicende terrene.

    Sono riuscito nell’intento che mi ero proposto? Sinceramente non so rispondere, anche se lo spero fortemente.

    Alberto Zanoni

    LA VECCHIAIA

    AI NOSTRI GIORNI

    Se volessimo identificare la vecchiaia con un colore, quale sceglieremmo? Il rosso, il giallo o piuttosto il nero o l’argento? E se volessimo definire la vecchiaia con una stagione, quale indicheremmo? La primavera e l’estate o piuttosto l’autunno, come già diceva Cicerone ( La Vecchiezza, 70) o l’inverno? E come fase del giorno la vecchiaia è forse simile al tramonto o alla notte? Sono tutti accostamenti che si connotano per una sottolineatura negativa. Eppure certi tramonti sono di una bellezza infinita e riscaldano il cuore, così come la notte non è solo tenebre e oscurità. Se non ci fosse la notte, non vedremmo la luna e le stelle e Van Gogh non avrebbe potuto dipingere la famosa Notte stellata sul Rodano e l’altrettanto stupenda Notte stellata. Non si può dimenticare poi che, come diceva Kahil Gibran in un suo aforisma, per giungere all’alba, è necessario passare per la notte. Ma cosa è allora la vecchiaia? È un’età anagrafica? Sì, ma non solo, perché la carta d’identità parla soltanto di numeri in modo sterile. È un’età biologica? Se così fosse e noi avessimo l’età delle nostre arterie, come diceva Thomas Sydenham (1624-1689), qualora fossimo affetti da una aterosclerosi precoce, saremmo già vecchi a quarant’anni? È un’età psicologica, uno stato d’animo, così che una persona a cento anni si può sentire ancora giovane? Mi sembra un po’ eccessivo. È un’età sociale che coincide con il pensionamento? Ma allora i baby pensionati erano già vecchi a trentacinque anni? Tutti questi tentativi di definizione hanno in sé qualcosa di vero ma nessuno è esaustivo. Rimanendo nella cerchia di chi vede la vecchiaia con gli occhiali rosa dell’ottimismo basato su elementi concreti, amo molto la definizione di Luigi Condorelli: La vecchiaia dell’individuo è la vittoria dell’organismo su tutte le insidie ambientali che ne minacciano la validità e l’esistenza, contrastandogli il raggiungimento dei limiti di vita dalla natura assegnati a ciascuna specie. In definitiva la vecchiaia è nella sua essenza una vittoria contro il tempo e contro la morte. Durante il trascorrere degli anni si verificano delle perdite, è vero, ma è altrettanto vero che ci sono dei possibili meccanismi di compenso in modo che si stabilisca un equilibrio tra ciò che viene meno e ciò che ancora può crescere. E se la vecchiaia è un fenomeno irreversibile, non è però immodificabile; può essere modificata e talora in modo profondo: il nostro stile di vita, se pone attenzione alla prevenzione delle principali malattie, all’alimentazione corretta, ad una adeguata attività fisica, ci permette spesso di condurre meglio gli ultimi anni di vita. Così la vecchiaia diventa anche tempo di opportunità, per fare ciò che in passato si sarebbe voluto ma non si è potuto fare, per assumere nuovi ruoli, per mostrare solidarietà ad altre persone.

    Ai nostri giorni la vecchiaia è oggetto di grande ambivalenza. Da una parte minore è vista come l’età della saggezza, in cui si raccolgono i frutti di ciò che si è seminato durante la vita; da una parte maggiore è aborrita, relegata all’ultima fase della vita, una realtà quasi da nascondere. Tutti sappiamo che, se non moriamo prima, dobbiamo invecchiare ma nello stesso tempo non vorremmo mai invecchiare, nutrendo il desiderio intimo di rimanere eternamente giovani. Come accennavo in precedenza, è evidente un paradosso: più la nostra società invecchia, più nega la vecchiaia. Il mito del giovanilismo fa sì che gli adulti dilatino la loro età a oltranza, accorciando la vecchiaia fino ad identificarla quasi con la morte. Si vorrebbe fare un lifting alla vecchiaia in modo che somigli sempre più alla giovinezza, snaturandola, togliendole la sua fisionomia. Nelle rughe del volto di molti anziani non si vedono più le cicatrici del tempo, di cui andare orgogliosi come le ferite in battaglia, come segno di nobili fatiche, ma il business delle creme antiaging. Antiaging è spesso anche la nostra cultura, che spinge gli anziani stessi a rifiutare la parola vecchi, a non nominarla nemmeno, a proporsi sempre frizzanti, esuberanti, in competizione con i giovani. Chi non si adegua a questo modello giovanilistico e superattivo viene ritenuto colpevole di una vecchiaia vissuta nel disagio e nella sofferenza, un vinto, uno sconfitto, una persona senza futuro.

    Eppure proprio gli anziani sono la garanzia del nostro futuro, perché è la loro longevità a dare ai giovani la certezza che anch’essi potranno invecchiare ed avere quindi a loro volta un futuro. Gli anziani inoltre sono il frutto di una continuità generazionale che permette il dialogo tra persone di epoche diverse, talora molto lontane, e la trasmissione alle nuove generazioni del bagaglio esperienziale del passato. Più volte Papa Francesco nei suoi discorsi ha parlato degli anziani in generale e dei nonni in particolare, riconoscendo in loro la saggezza di un popolo, le radici dell’albero dell’umanità, senza le quali il tronco non può generare nuovi rami. Anziani e nonni sono la memoria del passato e senza di loro non ci può essere prospettiva di futuro. Certo, almeno dalle nostre parti, potremmo dire che non ci sono più gli anziani e i nonni di un tempo, in una famiglia allargata che abbracciava tre o quattro generazioni. È solo nei ricordi la figura del nonno che alla sera si scaldava vicino al camino e raccontava ai bambini storie vere e fantastiche, arricchite e glorificate dalla memoria, mentre i genitori preparavano i lavori del giorno dopo. Racconti di vita vissuta, di fatiche improbe, di umiliazioni. Testimonianze che non trovano spazio nei nostri libri di storia, ma che sono cariche dell’emotività e della autenticità delle vicende vissute in prima persona, che nessun testo ti può trasmettere. Erano i vecchi sopravvissuti a uno o due conflitti mondiali, che avevano sofferto la fame, che avevano vissuto la povertà, che avevano perso neonati e familiari per l’epidemia di influenza spagnola o per una broncopolmonite in era preantibiotica, che avevano visto partire figli per la guerra e mai più ritornare. Questi anziani e nonni non ci sono più, ai nostri giorni e nel nostro paese. Una volta erano persone di mezza età invecchiate precocemente, ora sono persone più avanzate in età ma dall’aspetto più giovanile. Ora i nonni non hanno lavorato fino alla consumazione del loro fisico, sono spesso pensionati con parecchio tempo libero. Il rischio è che questo tempo libero sia vuoto, vuoto di impegni, vuoto di affetti e di amore. Allora ben venga che i loro figli abbiano messo al mondo altri figli, sempre molto pochi in verità, perché così torna utile a tutti la presenza di una persona affidabile, affettivamente coinvolta, che porti i bambini a scuola e li vada poi a riprendere, li tenga a casa loro fino a quando i genitori non tornano dal lavoro, li porti a lezione di danza o di musica o di karatè; e, perché no, passando davanti ad una chiesa entri con loro per dire una preghiera davanti all’immagine della Madonna e per accendere una candelina.

    Certo, non tutti gli anziani hanno la fortuna di essere nonni e di mantenere un ruolo così importante in ambito familiare. A volte gli anziani si ritrovano privi di ruoli significativi. Non raramente capita, come ricorda Papa Francesco, che gli anziani vengano emarginati, in una imperante cultura dello scarto, che tende a mettere in un angolo varie categorie di persone, tra cui anziani e bambini, il passato ed il futuro. Gli anziani rischiano di essere esclusi, perché inadeguati ai tempi, non più produttivi e scarsi consumatori di beni. Ai nostri giorni infatti trova considerazione chi consuma, così che l’anziano è oggetto di attenzione da parte dei media nella misura in cui aderisce ai viaggi organizzati, anche se low cost e fuori stagione, in mete turistiche o religioso-gastronomiche, o acquista pasta per dentiere o lassativi o pannoloni, vasche da bagno ergonomiche con accesso facilitato, montascale elettrici, poltrone reclinabili, carrozzine motorizzate con cui cercare di muoversi in una città, in cui le barriere architettoniche frenano ogni desiderio di autonomia. Se non è così frequente trovare anziani totalmente abbandonati, non è difficile invece avvertire verso di loro un atteggiamento di indifferenza, che amplifica la loro sofferenza. L’indifferenza induce a passare oltre, a non fermarsi vicino a loro, a non essere a loro prossimi, come il sacerdote e il levita della parabola del buon samaritano. Una conseguenza frequente dell’indifferenza è la solitudine, che per un anziano corrisponde ad una malattia, ben più grave da sopportare rispetto a qualsiasi altra malattia e che a volte si trasforma in una vera e propria forma di emarginazione.

    Un rischio per gli anziani di oggi è quello di volersi adeguare ai ritmi frenetici dei tempi moderni, inseguendo il mito della velocità, che ha pervaso pressoché tutti i campi della nostra vita. Ognuno di noi, specialmente se avanzato negli anni, è bene che ogni tanto rallenti la sua corsa e si fermi a riflettere sul significato della propria esistenza, prendendo consapevolezza di quanto ancora può fare per gli altri. É nel dono del suo tempo e della sua persona che l’anziano trova o ritrova il senso di quel frammento di vita, più o meno lungo, che gli rimane, di quel futuro che ogni giorno si accorcia e prima o poi finirà.

    Una caratteristica positiva, a mio parere, hanno comunque gli anziani di ieri e di oggi: una notevole dose di resilienza. Hanno saputo resistere e trovare soluzioni idonee nei momenti più difficili della loro storia personale, caduti si sono rialzati, hanno sanato le loro ferite e riorganizzato la propria vita senza avere perso se stessi, hanno trovato una via di uscita in ogni circostanza critica. Se così non fosse stato, non sarebbero diventati anziani.

    Sono convinto della necessità che la nostra società, cominciando da noi stessi, modifichi il proprio atteggiamento e le proprie scelte verso gli anziani, con una condotta oggettivamente sempre più inclusiva, una mano tesa a chi si sta avvicinando al termine del suo percorso esistenziale e non vuole essere lasciato solo.

    Nel suo saggio La terza età, Simone De Beauvoir diceva già molti anni fa: Una civiltà che si interessa dei giovani come dei vecchi solo per i suoi fini, che tiene la gran massa dei vecchi sul limite dell’indigenza, come la massa dei giovani su quello della disoccupazione, è un fallimento.

    I MITI

    Esiodo definiva la vecchiaia come triste e molti poeti Greci la descrivevano come una situazione miserabile, paragonabile o forse più brutta della stessa morte. Aristotele nella Retorica definì gli anziani come facili al lamento, paurosi, meschini, attaccati più al passato che al futuro.

    Nella mitologia greca la Vecchiaia (Geras) è figlia della Notte (Nyx) e del Buio (Erebo), ha molti fratelli e sorelle, tra cui la Morte (Thanatos), il Fato (Le Moire), il Sonno (Ipnos), la Miseria. Nell’Olimpo in ogni modo gli dei sono di solito giovani e belli; solo pochi sono avanzati negli anni e brutti, e tra questi la Vecchiaia. Ricordiamone altri.

    Efesto, dio del fuoco e dei metalli, era anziano e zoppo.

    Le tre Erinni, dette anche Furie dai Romani o Manie, simbolo dello spirito di ira e di vendetta, erano vecchie con dei serpenti al posto dei capelli e dovevano vendicare i crimini, specialmente quelli realizzati contro la famiglia. Sono loro che istigano Clitemnestra ad uccidere il marito Agamennone, che aveva sacrificato la figlia Ifigenia, e che poi spingono Oreste ad uccidere la madre Clitemnestra e da ultimo perseguitano Oreste per aver ucciso la madre.

    Le tre Moire (le sorelle Atropo, la più vecchia, Cloto e Lachesi), impersonificavano il destino che governavano per ogni uomo grazie ad un filo che una di esse filava, l’altra avvolgeva e l’altra ancora recideva al termine della vita di una persona.

    C’erano poi le tre Graie, nate già vecchie e quindi mai state giovani, che avevano per tutte e tre un solo occhio e un solo dente che si scambiavano a turno. Abitavano nel paese della notte, nell’estremo Occidente dove non brilla mai il sole e dovevano impedire l’accesso alla via che portava alle tre Gorgoni, loro sorelle. Delle tre Gorgoni, due, Steno e Euriale, erano immortali; solo una, Medusa, la Gorgone per antonomasia, era mortale. Non si dice che fossero vecchie, ma senza dubbio erano dei mostri, con la testa avvolta da serpenti, con le mani di bronzo e con ali d’oro che consentivano loro di volare. Abitavano nell’estremo Occidente, al di là dell’Oceano, verso la Notte, vicino al regno dei morti. Le Gorgoni erano quindi esseri spaventosi per tutti i mortali e chiunque le avesse guardate veniva immediatamente pietrificato. Per questo motivo sarebbe stato un benemerito dell’umanità chiunque le avesse uccise o meglio che avesse ucciso Medusa, l’unica mortale tra di loro.

    Si inserisce qua il mito dell’eroe Perseo. La storia inizia con il nonno di Perseo, Acrisio, re di Argo. Acrisio avrebbe voluto avere un figlio maschio ma l’oracolo di Delfi gli predisse che da sua moglie Euridice avrebbe avuto solo una figlia, Danae, e che il figlio di sua figlia lo avrebbe ucciso. Acrisio

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