Professione scrittore
By AA. VV.
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Come funziona uno scrittore? Quali sono i suoi “attrezzi” del mestiere? Come nasce un racconto o un romanzo? Come si arriva alla pubblicazione? Molti sono gli interrogativi intorno a una professionalità tanto affascinante, quella dello scrittore, da avere alimentato nel tempo una larga parte del nostro immaginario collettivo. Territorio meno esplorato, poi, quello della cosiddetta “Letteratura per Ragazzi”, che subisce spesso lo snobismo della “Letteratura tout court”, la quale sembra considerare la prima come una realtà di “Serie B” o una sorella meno nobile, tanto da arrivare a negarle, a volte, la qualifica stessa di “vera letteratura”. Proprio alla Letteratura per Ragazzi è dedicato questo libro, con l’intento di offrire uno sguardo lucido e disincantato, senza giudizi preconfezionati, su un settore che vive una doppiezza forse ormai strutturale: da una parte il mercato editoriale spinge, tentando di salvare il salvabile; dall’altra certa critica “ufficiale” tira indietro, provando più o meno coscientemente a screditare la sua presunta “sorella minore”. Tra i due fuochi si trovano gli scrittori, tanti, diversi, ciascuno con le proprie modalità di approccio. Questo libro guida il lettore in un viaggio dentro ai segreti della scrittura e del mestiere di scrivere. Un viaggio dove a condurre il timone sono gli autori stessi. Ventuno autori per ragazzi, per la precisione, tutti soci ICWA (Italian Children’s Writers Association), che si autoraccontano nella propria professione, svelando anche alcuni “segreti” o “trucchi del mestiere”. Un libro per studiosi, bibliotecari, operatori culturali, insegnanti, progettisti in ambito culturale e sociale, librai, scrittori, curiosi, aspiranti scrittori, scrittori esordienti, studenti, genitori e lettori in genere e per chiunque voglia saperne di più sullo scrivere per ragazzi.
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Professione scrittore - AA. VV.
Cover
Introduzione
Che libro è questo?
Un numero sempre maggiore di persone sembra interessarsi alla scrittura narrativa.
Lo fanno da sempre – com’è ovvio – gli scrittori di narrativa, per necessità pratica, per abitudine e per professione; lo fa chi lavora nel mondo editoriale, per lavoro e, si spera, anche per passione; i librai, per motivi presumibilmente simili; le aziende, soprattutto con l’utilizzo di pratiche di comunicazione quali lo storytelling; e lo fanno anche il sistema di istruzione scolastica e gli aspiranti scrittori, anche loro da sempre.
Quest’ultima categoria presenta però dei tratti che sembrano quantomeno curiosi.
Ciò che più stupisce è che il numero degli aspiranti scrittori cresca a dismisura. Sembra muoverli un agglomerato di sentimenti, in parte indecifrabili, tra cui si intravedono desiderio di fama, piacere di fronte ai libri e ai gesti fisici dello scrivere, un pizzico (quanto basta?) di orgoglio e superbia, scarsa propensione all’autoironia, ma anche qualcosa che assomiglia a desiderio di comunicare, senso della responsabilità sociale e amore per la cultura.
C’è poi il grado zero dell’aspirante scrittore
: il credere/sentire che se si è data l’anima per scrivere qualcosa, il mondo non potrà fare a meno di quel qualcosa
. Alcuni ci credono fino al punto di apparire disposti a lottare senza tregua affinché quel qualcosa
possa arrivare al grande pubblico, salvo poi rendersi conto che il mondo può andare avanti a prescindere dalle loro produzioni.
Dai diari minimi
dell’aspirante si staglia però l’identikit di un altro tipo
di scrittore: quello che ha un tale desiderio di arrivare al risultato, da considerare orgoglio, superbia e simili come freni che rallentano il percorso.
Sempre più spesso entrambi i tipi
arrivano alle scuole di scrittura, ma quanti di questi alunni sono disposti a lavorare con fatica e sudore in vista del loro fine? Gli aspiranti scrittori sono davvero interessati a capire fino in fondo come funzionano il talento, la profondità – anche tecnica – della scrittura e il mondo letterario-editoriale? Questo non è dato saperlo. Ciò che si può dire è che sono interessati a capire cosa accada nella mente di uno scrittore.
E per quanto riguarda le altre categorie
? Quanto è grande l’interesse a comprendere la scrittura? Anche questo non è possibile saperlo. Ciascuna di esse si avvicina alla scrittura narrativa da diversi angoli prospettici e in vista di diversi fini.
Alla maggior parte dei manager basta vendere il prodotto; a pochi interessa anche come rendere migliore la vita delle persone. E se rendere migliore la vita di qualcuno si ponesse poi in contrasto con il profitto?
A ben guardare, l’azienda è un organismo stupefacente, in grado di assimilare ogni cosa e di digerirla, per poi rigurgitarla e riuscire persino a presentarla come nuova e a darla in pasto ad altri.
Zen, New Age, Psicologia Facile, Arte della Guerra di Sun Tzu, Scrittura Creativa e altro: tutto finisce in imbuti, stomaci e frullatori aziendali, per poi esserci servito come la succulenta novità del decennio.
Ai librai la scrittura sembra interessare, anche se non a tutti. Molti oggi lavorano all’interno di aziende in franchising, e lì non ci sono librai, ma commessi. Nella maggior parte dei casi ci si accorge che potrebbero vendere qualsiasi cosa: libri alla stessa stregua di pannolini per neonati, caramelle, gomme per auto o chiavi inglesi. I commessi migliori, però, si dimostrano pronti a imparare la lezione dai loro fratelli nobili: i librai indipendenti
.
Il libraio indipendente è – o ci si aspetta che sia – un global consultant: sa quello che potrebbe piacere al suo interlocutore perché è abituato a radiografare culturalmente le persone; conosce ciò che vende e sa consigliargli percorsi di lettura. Certo, rimane pur sempre un commerciante...
Ai bibliotecari la scrittura interessa per lo più per promuovere la lettura. Percepiscono uno stipendio e non hanno bisogno di dare in prestito più libri possibile per veder aumentare la loro remunerazione. Devono però ungere il meccanismo, diffondere cultura, promuovere la crescita di un territorio, educare lettori. Organizzano così serate letterarie, conferenze, incontri con l’autore, progetti di lettura e molto altro. A loro la scrittura interessa, ma per lo più nella fase finale, cioè come prodotto culturale uscito dalle penne degli scrittori e in quanto oggetto
fruibile.
La biblioteca è lo scrigno delle scritture. Molti di questi luoghi-spazi-strutture vanno avanti tra innumerevoli difficoltà; altri – spesso non per colpa loro – sembrano invece trovarsi decentrati dal loro compito naturale e si riducono a burocratici musei di carta accatastata. Nei casi migliori – sempre più numerosi, visti i progetti culturali avviati o ri-avviati negli ultimi anni – accade perciò che bambini educati (anche) da bibliotecari diventino adulti che continueranno a leggere e a nutrire il proprio spirito.
Al sistema di istruzione scolastica interessano sia i libri di narrativa sia la scrittura narrativa in sé: i primi più come tentativo di educare alla lettura e oggetto di valutazione che come viaggio e avventura; la seconda soltanto come punto del programma e oggetto di studio all’interno di quella sotto-materia (o modulo) chiamata narratologia
(lato passivo della fruizione) e mai come sapere utile per comporre testi narrativi originali (lato attivo della produzione).
Il risultato pressoché uniforme è che le scuole tendono in generale a soffocare il piacere della lettura e a troncare sul nascere quello della scrittura. Se si registra – sempre più spesso – un’esile tendenza contraria, non è per l’attività curriculare, bensì per quella progettuale, in cui esperti esterni e associazioni conducono progetti all’interno delle classi.
Il dato più sorprendente però è un altro. Elementi di narratologia – che potrebbero costituire una delle basi da cui partire per apprendere l’artigianato della scrittura – vengono studiati nella scuola primaria, nella scuola secondaria di primo grado, nella scuola secondaria superiore e in alcuni casi anche all’università. Tanti anni in cui si ripetono le stesse cose, in maniera via via più approfondita. Il risultato è però agghiacciante
: nella quasi totalità dei casi, gli ex-alunni del sistema educativo arrivano alle scuole di scrittura per imparare (anche) le tecniche base e alcuni concetti di narratologia, che non ricordano di aver già studiato almeno tre volte e che quindi devono ri-apprendere ex novo.
C’è poi un altro dato: a scuola non si fa altro che scrivere e l’italiano è materia fondamentale. Un alunno che dovesse fermare il proprio percorso appena assolto l’obbligo scolastico, avrebbe passato dieci anni a scrivere continuamente relazioni, temi, ricerche e a leggere narrazioni. Come è possibile che in tutti questi anni non gli sia mai stato chiesto di scrivere un testo narrativo? Tanto più che la nostra è ormai una scuola basata sulle competenze (il saper fare), non più e non tanto sulle conoscenze (il sapere fine a se stesso). Che senso ha studiare tanta scrittura narrativa senza mai rendersi conto nella pratica del modo in cui andrebbe costruita e senza mai dar prova di averne acquisito il saper fare? Che fine fa l’apprendimento per competenze?
Al di là dei punti più o meno dolenti, gli approcci alla scrittura narrativa – e se ne sono citati soltanto alcuni – sono innumerevoli. A volte seri, altre imbarazzanti, altre ancora comici o, peggio, grotteschi.
Impossibile procedere per categorie generali e individuare una volta per tutte quale aspetto interessi ciascuna di esse. Forse non ci sono denominatori comuni. Tranne uno: il desiderio di sapere cosa si muove dentro
uno scrittore. Chi non avverte il fascino della scrittura, avverte però quello dello scrittore
.
Questo libro non può rispondere a tutte le domande. Prova però a svelare come funziona
uno scrittore di narrativa. Che lo si ammetta oppure no, saperne un po’ di più affascina tutti noi, poiché riguarda almeno una parte dell’immaginario collettivo.
Perché è stato scritto questo libro?
«Perché?» non è una domanda da farsi. È spiazzante perché ambigua. Rivela un’indecisione e un’oscillazione tra causa e fine: «A causa di cosa?» oppure «Per quale fine?»
«Perché?» contiene entrambi i quesiti.
Le cause che hanno portato alla nascita del presente contributo sono state meraviglia e curiosità di fronte al processo creativo. Cause che, in fondo, si riducono a una: il bisogno di conoscere.
Alla causa
poi è strettamente legato il fine
: questo libro è stato scritto per soddisfare quel bisogno di conoscere.
A giustificare una pubblicazione, e non una mera ricerca personale, sta poi il fatto che il libro risponda a un bisogno di conoscere rilevato come diffuso.
Per chi è stato scritto questo libro?
Nelle intenzioni si rivolge a tutti. Dove tutti
è necessariamente un’iperbole e una potenzialità. Sembrano però molteplici le esigenze a cui la presente ricerca potrebbe dare almeno parziali risposte, e altrettanti i possibili fruitori: studiosi, bibliotecari, operatori culturali, insegnanti, progettisti in ambito culturale e sociale, librai, scrittori, curiosi, aspiranti scrittori, scrittori esordienti, studenti, genitori e lettori in genere.
Come è nato questo libro?
Poco prima di iniziare la ricerca, mi era capitato sott’occhio Come si scrive un romanzo, di Maria Teresa Serafini. Nel libro si indagava il mistero della scrittura, chiedendone giustificazione agli scrittori stessi. Non si trattava di un’analisi, ma di un’autoanalisi. Il libro aveva un’impostazione generalista e non settoriale, rivolgendosi allo scrittore tout court.
In quel periodo io avevo già effettuato una scelta di campo: la letteratura per ragazzi.
È stato allora che ho riscontrato un vuoto. Avrei voluto leggere un libro settoriale
, per sapere come lavorassero gli scrittori per ragazzi
, come facessero a inventare le loro storie e se il loro metodo fosse simile a quello degli scrittori per adulti
.
Certo, uno scrittore per ragazzi è comunque uno scrittore, ma è impossibile – mi dicevo – che il suo metodo possa dedursi con completezza e precisione soltanto in base a un semplice sillogismo. Devono pur esserci specificità che lo differenzino dai suoi colleghi generalisti
.
È stato allora che ho tentato di applicare il Primo Principio dello Scrittore
: se il libro che vuoi leggere non esiste, devi scriverlo tu.
Mentre riflettevo su questo, ero già socio di ICWA (Italian Children’s Writers Association). A questo punto il gioco è fatto, mi sono detto. È bastato infatti esporre il progetto alla presidente Manuela Salvi e, tramite lei, agli associati. Risposta: via libera. Potevamo iniziare.
Da chi è stato scritto questo libro?
L’autore del libro è in generale ICWA e in particolare ciascuno degli scrittori (tutti soci ICWA) che hanno aderito al progetto. L’ideatore e promotore della ricerca sono io, ma il suo punto focale e il suo vero scopo non sono le domande, bensì le risposte, cioè gli scritti degli autori. Di ventuno autori, per la precisione.
Il libro si compone dunque di ventuno scritti, che rivelano altrettanti modi e metodi di essere scrittori di professione nell’ambito della letteratura per bambini e ragazzi
e che rispondono, ciascuno a suo modo, alle domande di chi vuole saperne di più.
Come è stato scritto e cosa contiene davvero?
Ci siamo organizzati così.
Dopo aver pensato in modo compiuto al progetto, ho stilato una lista di domande, chiedendo agli scrittori di sceglierne liberamente alcune e di rispondere in modo discorsivo.
Un primo limite è stato il divieto di organizzare il testo frammentandolo in domande e risposte; un secondo, quello riguardante la lunghezza del contributo, che doveva oscillare tra le dieci e le quindici cartelle.
Alcuni autori non hanno rispettato il secondo limite. In quasi tutti i casi ho però deciso di accettare lo stesso il lavoro, chiedendo aggiustamenti soltanto per lunghezze molto inferiori o molto superiori a quella stabilita.
La lista delle domande non compare in questo libro: è servita soltanto ad alimentare le riflessioni, a dare uniformità ai contributi e a consentire l’espressione di diversi punti di vista sugli stessi argomenti. Se ne offre tuttavia un saggio:
Come e perché hai iniziato a scrivere?
Come e quanto le tue letture hanno influenzato la tua scrittura?
Hai frequentato scuole o macinato
libri di teoria per diventare scrittore? Ritieni che sia utile o necessario farlo?
Come e quando scrivi? Hai orari o luoghi particolari o fissi?
Qual è il tuo metodo di lavoro? Usi scalette?
Hai rituali scaramantici
?
Prima di iniziare a scrivere devi avere tutto chiaro oppure inizi anche senza un’idea precisa?
Ti è mai capitato di iniziare a scrivere utilizzando la prima stesura come un meccanismo o un metodo per cercare e intercettare la storia?
Gli ingredienti dello scrittore: un elenco.
Hai mai avuto il blocco dello scrittore, cioè il blocco della pagina bianca? Come lo hai gestito in passato e come lo gestisci ora?
Gli ottantadue quesiti proposti sono stati così ripartiti:
spunti generali per tutti (n. 57);
spunti in aggiunta per chi scrive testi di albi illustrati (n. 9);
spunti in aggiunta per gli illustratori (n. 16).
Riassumendo, questi sono gli argomenti generali sui quali ho chiesto di riflettere: rapporti scrittore/scrittura, scrittore/lettori, scrittore/mondo editoriale, scrittore/società.
Ricorrenze e discordanze
Come nelle speranze e nelle previsioni, le risposte non hanno fornito un risultato uniforme. Non esiste lo scrittore
, ma i singoli scrittori
in carne e ossa, ciascuno con il suo particolare approccio.
Molte le diversità. Molte però anche le ricorrenze.
Mi preme in limine segnalare alcuni punti a introduzione dei contributi presenti nel libro.
1. Sono i personaggi e le loro voci a guidare la storia; la storia si scrive da sé
Non so che impressione facciano queste affermazioni. Quasi nessuno è disposto a credere che la storia si scriva davvero da sé. Al massimo alcuni le prendono come una trovata simpatica degli autori. In altri casi risultano invece discretamente irritanti, in quanto portano a pensare che lo scrittore parli soltanto per suscitare meraviglia e per incantare altre menti, spolverandovi sopra mistero quanto basta. Nessuno, in buona sostanza, le prende sul serio. Tranne gli scrittori.
Bisogna essere riusciti a scrivere una storia, non solo averci provato, per capire che non c’è alcuna menzogna.
Quando si scrive una storia, di solito capita questo.
Si parte con in testa alcuni punti fermi. Non tanti. Mentre si scrive, ai personaggi si fanno fare e pensare certe cose e si escogitano scene e azioni. Alcune risultano efficaci e provocano frammenti fluidi e scorrevoli di narrazione e di scrittura, altre no. Lo scrittore, mentre scrive, sente istintivamente cosa dovrà assecondare e cosa dovrà minimizzare e fa quindi fuoriuscire soltanto ciò che avverte, a livello di sottile e istantanea impressione, come propizio e promettente. In genere all’inizio la difficoltà nello scrivere è maggiore, poi decresce. È come se, scrivendo, si accumulasse man mano, in un punto imprecisato nella propria coscienza, una serie di cose
da far dire ai personaggi e da far accadere. Spesso capita che queste cose
siano diverse da quello che si era immaginato all’inizio, così lo scrittore si trova davanti a un bivio: insistere con quello che aveva pensato prima di iniziare a scrivere oppure assecondare le nuove fonti di idee e i nuovi sentieri di creatività che gli vanno via via sgorgando in numero sempre maggiore. Quasi sempre viene scelta la seconda via, fino ad arrivare a un punto in cui tutto scorre in modo più o meno fluido e senza intoppi apparenti.
Chi scrive davvero la storia? Certo, lo scrittore. Egli lo fa però insieme al suo inconscio, che è simile a un baule interiore fatto di idee, emozioni, conversazioni ed esperienze vissute, immagini, film, frammenti di dialoghi reali o immaginati, pensieri e chissà cos’altro. Un baule con un’organizzazione tutta propria, in cui regna una forte dose di imprevedibilità. Neanche lui, lo scrittore, conosce il luogo da cui sono sgorgate le idee narrative primordiali di una narrazione. La storia è venuta fuori, poi vai a spiegarlo al lettore!
2. Far decantare la storia
La maggior parte degli scrittori – forse tutti – afferma di non riuscire a correggere un proprio testo a ridosso della scrittura. Per editarlo, deve prima dimenticarselo.
La letteratura sembra dunque simile al vino: per essere buona, deve decantare.
Salvo poi chiedersi: «Perché?»
Una domanda da non fare agli scrittori: loro il perché lo sanno e non devono interrogarsi ogni volta per decidere se lasciare a riposo una nuova storia.
I motivi diventano però chiari quando si chiama in causa il meccanismo psichico-cognitivo sottostante. Quando si legge un testo che si è appena scritto, non si presta molta attenzione. A ben vedere, non ci si accorge nemmeno che non lo si sta propriamente leggendo
. Si sta invece compiendo un’operazione a metà tra leggere
ciò che vediamo e sostituire
le righe che ci scorrono sotto gli occhi durante la fase di lettura/revisione con quelle rimaste in memoria dalla fase di scrittura.
Questo è ciò che accade con le strutture linguistiche e lo stesso si può dire per quelle narrative.
È ovvio, quindi, che tutto suoni
. Le parole e le frasi che scorrono ci lasciano chiarezza forse non solo perché sono oggettivamente chiare, ma anche perché di quei significati è già piena la nostra mente, a prescindere dalla lettura. Così però è difficile distinguere tra significato che scaturisce solo dal testo
e significato proveniente invece dalla testa
. Tutto fila
? Certo! Ma a filare
è il testo o la testa? In definitiva: il testo è davvero chiaro come sembra?
Se si lascia invece passare del tempo, le immagini che affollavano la mente a ridosso della scrittura se ne saranno andate. Dovremo quindi affidarci solo al testo per ricostruire significati grammaticali e narrativi. Se qualcosa non fila
, il buco non sarà più riempito dalla nostra mente/memoria e gli eventuali punti incerti potranno essere smascherati.
Simili motivi giustificano poi la prassi di far leggere un testo a una persona terza
.
In fondo, anche quando toccasse a noi rileggere il nostro testo, il passare del tempo non servirebbe ad altro se non a diventare ‘terzi’ a se stessi
.
3. Il genio è all’un per cento ispirazione, al novantanove per cento traspirazione.
(Thomas Alva Edison)
La prima volta che ho sentito questa frase ero studente di un corso di narrativa. Strano come certe affermazioni possano distruggere un intero immaginario, coincidente in buona parte con quello collettivo.
Lo scrittore viene infatti a volte raffigurato come quello strano soggetto, in delicato equilibrio tra normalità e follia, insidiato improvvisamente da possessioni estetiche, alle quali cede sfornando scrittura senza sforzo apparente. Come si può facilmente immaginare, non è così che funziona.
Anche questo gli scrittori lo sanno già. Sanno che per scrivere qualcosa di letterario non basta la cosiddetta ispirazione
.
Inoltre ispirazione
è un termine che non sembra saper portare bene gli anni
. Ne dimostra tanti, è troppo vecchia-scuola. Pochi ne ricordano il significato esatto. L’ispirazione non è l’affiorare alla mente dell’idea contenutistica. Quello è solo uno spunto. L’ispirazione, si diceva bene un tempo, è uno stato di incandescenza emozionale in cui intuiamo-vediamo sia il contenuto sia la forma, cioè sia l’idea base sia il modo di oggettivarla in qualcosa di fruibile e godibile da chiunque.
E allora, se nell’ispirazione l’intuizione-visione è così completa, perché non basta? Il fatto è che per restituire al mondo ciò che abbiamo intuito-visto c’è bisogno di tanta fatica. Traspirazione
, per l’appunto.
Qualcuno domanderà: «Però, così facendo, dove finisce tutto il romanticismo
della creazione artistica?»
A questo si potrebbe controbattere: «Deve per forza esserci?»
E comunque c’è, a ben vedere: la traspirazione non elimina l’ispirazione, la porta alla luce. Stiamo liberando una statua da un blocco di marmo, come un artigiano di bottega.
Le trovate pubblicitarie e superficiali sul romanticismo della creazione
lasciamole alle vulgate popolari; noi teniamoci l’artigianato.
4. Le scuole di scrittura
Altro tema controverso. Scuole sì, scuole no.
La maggior parte degli scrittori sostiene che le scuole di scrittura possano essere utili, ma per lo più paragonano la loro utilità a quella di una ciliegia sulla torta.
Alcuni autori rivelano di non averne frequentate, e che, forse, se lo avessero fatto, sarebbero stati più bravi. Aggiungono poi che non è solo la conoscenza delle tecniche a far sì che si diventi (bravi) professionisti. Anzi, a sentire loro, questa è la cosa meno importante.
In parte, però, mentono. Bisogna saperli ascoltare, gli scrittori: non dicono che le tecniche non servono, ma che possono anche essere imparate sul campo
. Certo, forse una scuola potrebbe accorciare i tempi, ma non è detto che questa debba essere una strada obbligata.
Qualche editore – specie quelli della piccola e media editoria – e qualche scrittore – soprattutto quelli che pubblicano nella piccola e media editoria – sostiene che le scuole di narrativa normalizzino
la scrittura, sfornando solo piatti succulenti per la grande editoria.
Non è questa la sede per discutere se questo avviene sempre, a volte o mai. Di certo esistono anche buone scuole di scrittura che non costringono ma aiutano a maturare spontaneamente.
Dietro a queste dispute sembra però profilarsi anche un altro problema. Un problema culturalmente e intellettualmente imbarazzante, in quanto riguarda le politiche culturali ed educative di una nazione e la dignità delle professioni
. Può ridursi a queste domande: quali sono i motivi per cui alcuni Paesi considerano una certa professionalità come insegnabile e altri considerano l’insegnamento di quella stessa professione come leggero
, se non addirittura disdicevole? Nel senso: perché in Inghilterra, come in molti altri luoghi, esistono corsi di laurea in Scrittura Creativa e in Italia no? Quali sono i motivi che stanno dietro al fatto che un Paese consideri il saper scrivere narrativa come un’abilità di base da imparare a scuola – e in cui magari specializzarsi successivamente – e un altro invece come una perdita di tempo? Perché in molti luoghi si insegna narrativa e la si fa scrivere nei gradi di istruzione superiore e in Italia invece no?
Oltre che un problema di domanda di mercato e di mercato del lavoro nella sua globalità, sembra, più a monte, un problema di Weltanschauung, cioè di visione del mondo, e quindi anche di visione del lavoro e della didattica.
Il punto, all’atto pratico, appare essere questo: in Italia, per imparare a fare l’avvocato, l’architetto, lo psichiatra, l’insegnante, l’impiegato o il ragioniere, è necessario frequentare delle scuole e ottenere un diploma riconosciuto; per imparare a fare lo scrittore si deve, con un buon grado di approssimazione, sbrigarsela da soli.
5. Il talento
Molti scrittori parlano di talento
,