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I sei giorni dell'Onnipotente
I sei giorni dell'Onnipotente
I sei giorni dell'Onnipotente
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I sei giorni dell'Onnipotente

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About this ebook

Una ventiquattrore scaraventata giù da un bus in corsa. L'urlo di un professore: “C'è Dio in quella valigetta!”. È l'inizio di un putiferio internazionale. La trama prende spunto dalla leggenda catara per cui alcuni oggetti e un “segno divino” sono nascosti in Italia. Ed è ai giorni nostri, fra il Lago di Garda e il Lago d'Iseo, che si snodano le vicende di un archeologo, di un professore e dell'ultimo dei Catari, riportato magicamente in vita insieme all'ultimo dei suoi Apostoli, Meunier. Un archeologo individua una “luce-potenza” di Dio (racchiusa in un prisma) nascosta, per secoli, dai Catari. Deciso di mantenere il segreto, purtroppo a causa delle sfavorevoli situazioni e per un complesso di circostanze, svela al mondo l'esistenza del sacro e divino oggetto dell'onnipotenza. Accorrono i mass media, la polizia, le mafie, i governativi, le multinazionali, la setta ariana del Kiklos, i fanatici mercenari internazionali: tutti vogliono impadronirsene della reliquia, e con essa poter dirigere o distruggere la comunità continentale e comandare il mondo. All'archeologo aspetta una impresa dura e faticosa, tra rischi e pericoli per la propria vita, per affidare la reliquia in mani sicure.
LanguageItaliano
Release dateSep 24, 2018
ISBN9788869631801
I sei giorni dell'Onnipotente

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    I sei giorni dell'Onnipotente - Gianmarco Dosselli

    Gianmarco Dosselli

    I SEI GIORNI DELL’ONNIPOTENTE

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2018 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869631801

    Indice

    Introduzione

    Prologo

    Capitolo primo

    Il segreto del forziere dei Catari

    Capitolo secondo

    I primi indizi

    Capitolo terzo

    Sulle tracce del sacro prisma

    Capitolo quarto

    La mafia siciliana

    Capitolo quinto

    Rischi e agguati

    Capitolo sesto

    La mafia russa

    Capitolo settimo

    L’ex custode

    Capitolo ottavo

    Interminabili agguati

    Capitolo nono

    La setta Kiklos

    Capitolo decimo

    Ultima difficile missione

    Capitolo undicesimo

    Il matrimonio

    Capitolo dodicesimo

    A sangue freddo

    Introduzione

    Il papismo ne comprese i pericoli circa la crescita del Catarismo, una eresia accidiosa per la Casa cristiana e cattolica. I Catari credevano che la Chiesa romana con tutte le sue immense ricchezze e i suoi preti corrotti fosse opera del diavolo. In questa ottica, l’ostilità della Chiesa nei loro confronti diventa più che comprensibile. Ripudiarono il clero separato dai laici e i sacramenti e credevano che ogni uomo potesse avere un contatto diretto con Dio, saltando il ruolo mediatore della Chiesa e della lingua latina. Il catarismo stava divenendo una religione forte e maggioritaria, benché molto probabilmente la grande maggioranza degli albigesi praticasse in forma attenuata i princìpi di questa eresia, che non tutti distinguevano per esempio da quella dei valdesi.

    Nel 1204, Innocenzo III aveva accettato che la quarta crociata si trasformasse in un assalto all’Impero bizantino, nella certezza che ciò potesse indurre alla riunificazione della Chiesa greca con quella romana.

    Nel 1206, il beato e presbitero spagnolo, Domenico di Guzman, tentò di annunciare la legge divina, ma ebbe un insuccesso; indi, nel 1208, prendendo come scusa l’assassinio del legato pontificio, Pierre de Castelnau, il Papa proclamò la crociata contro gli eretici, e l’esercito francese aveva invaso la Linguadoca. La serie di scontri che ne era seguita, meglio celebre col nome di Crociata degli Albigesi, aveva portato (anni dopo) alla estinzione totale dei catari e al conseguente termine dell’indipendenza della regione.

    Nell’estate 1209 la cittadina di Béziers venne accerchiata e distrutta e quasi tutta la popolazione trucidata. Ai militi crociati che gli chiedevano come sapere la differenza tra i Catari e i fedeli cattolici, Arnaud Amaury, abate di Citeaux, che ricevette l’incarico dal Papa di reprimere l’eresia catara durante la crociata contro gli Albigesi, dichiarò queste celebri parole: "Uccideteli tutti, Dio li riconoscerà. Due settimane dopo la città di Carcassonne fu ripresa, mentre Monfort la lotta continuò. L’estate successiva, il capo dei crociati, Simon de Montfort, ordinò al rogo 140 catari che ripudiarono le fede cattolica. Caddero le fortezze della regione dove gli eretici avevano cercato riparo: Termes, Puivert, Lastours,… Il popolo definisce tutto ciò come episodio della crociata Guerra dei castelli", che in realtà fu una reale conquista territoriale.

    Luglio 1213. Simon de Monfort conquistò la vittoria battagliera, presso Muret, distruggendo il capiente esercito alleato di Pietro II d’Aragona e di Raimondo VI, conte di Tolosa; il primo venne ucciso.

    La guerra avanza. Nel 1215, il conte di Tolosa si riprese la sua capitale. Tre anni dopo, durante un ennesimo attacco, morì sul luogo di battaglia Simon de Montfort; questi fu ucciso da una pietra gettatagli addosso dalle donne di Tolosa che difendevano le mura della città. Alla sua morte i crociati si disorientarono e furono cacciati da Carcassonne nel 1224.

    Sul tardi, una crociata organizzata dal re francese Luigi VIII per consolidare il proprio potere, e trionfò a tal punto che Raimondo VII (successore) fu obbligato a sottoscrivere il Trattato di Meaux, capitolando.

    Nuovo papa: Gregorio IX. Codesto creò l’Inquisizione, la cui missione era sbarazzare e giudicare gli eretici. La conquista territoriale era fatta, ma il primo obiettivo della crociata contro il catarismo fu una inesorabile sconfitta.

    1244. Da Montsegur, territorio dell’eccidio dei Catari per volere dei Crociati laddove mise fine definitiva all’eresia catara, quattro dei suoi seguaci, i perfetti, vennero incaricati di portare in salvo un oggetto segreto che non sarebbe mai dovuto finire in mano ai Crociati. A raccontarlo ai soldati del papa durante un interrogatorio è Pierre-Roger Mirepoix, capo difesa, uno dei pochi fedeli rimasti in vita dopo l’assedio. I quattro perfetti riuscirono a dileguare, ed oggi si continuano a trovare le tracce di questo oggetto misterioso, che in molti ipotizzano custodisse un segreto che avrebbe potuto cambiare il destino della Chiesa di Roma. C’è addirittura chi pensa potesse trattarsi del sacro calice dell’Ultima Cena, che secondo la leggenda la coppa sarebbe stata trasportata da Maria Maddalena e Giuseppe d’Arimatea in fuga dalla Palestina nel I secolo dopo Cristo; altri, di un libro divino per farsi Dio; altri ancora immaginavano a uno scettro dotato di poteri magici. Quel che è certo è che rappresentasse di qualcosa di estremamente importante che molti continuano a cercare nelle vicinanze di Montsegur, ma che, invece, avrebbe potuto raggiungere un luogo più lontano, addirittura oltre le Alpi: sul lago di Garda. Tra Sirmione e Desenzano, si dice (secondo un manuale filosofico del XVI secolo) che i quattro perfetti trovarono protezione per ben oltre il periodo dell’assedio e dell’eccidio di Montsegur. Storici e ricercatori ammettono che Montsegur è un luogo speciale dove dopo tre mesi di assedio nel Marzo del 1244, gli ultimi catari che si erano arroccati nella fortezza, si arresero in cambio della vita. Gli accordi non furono rispettati e si trovarono ad affrontare il rogo, salendo sulle pire allestite sul posto. Si pensa che i Catari, infatti, fossero riusciti a sopravvivere per altri 30 anni oltre le Alpi, dove godevano della tolleranza e la protezione delle mura di Sirmione ed una certa facilità a diffondere e radicare la propria dottrina grazie alla lotta di potere tra Guelfi e Ghibellini.

    Secondo fatti indiscreti, il reperto potrebbe essere stato trafugato in Lombardia, il primo approdo certo raggiunto, e nascosto in un anfratto tra le rovine della villa del poeta Catullo, a Sirmione. La cittadina catulliana era assai famosa per la tolleranza ed era un baluardo garantito per eretici in fuga da mezza Europa. I catari restarono in Italia fino al 1277, quando circa 170 di loro, tra autorità religiose e fedeli, vengono catturati e arsi vivi a Verona.

    La storia continua con il mistero del reperto prezioso. Dove lo avrebbero portato i quattro fedeli? L’Italia ha l’onore di nascondere vari segreti e cenni di mistero che dopo lunghi secoli attendono delucidazioni. Le tracce di questa eresia nei due centri lacustri sono, infatti, attualmente evidenti. A Desenzano del Garda, ad esempio, era presente una Chiesa catara in cui si praticava la dottrina del dualismo assoluto e che annoverava ben 500 perfetti sotto la custodia e la direzione del vescovo Giovanni da Lugio. In quanto Sirmione, aveva da sempre costituito uno dei garantiti baluardi dei fuggiaschi catari senza distinzioni liturgiche e dottrinali. A centinaia, i perseguitati toccavano tappa nella cittadina e si rifugiavano, con ogni probabilità tra le rovine della villa del poeta Catullo. Non è affatto da escludere, dunque, che i perfetti sfuggiti alla strage di Montsegur abbiano tentato di raggiungere proprio il Lago di Garda per nascondere il misterioso oggetto. Che sia dunque proprio in Italia il fantomatico segreto dei Catari?*

    *(da fonte web)

    Prologo

    1944. Nino intento a fagocitare il suo pasto. Gli occhiali adagiati sul naso ciranesco, storto, buffo, da comico dell’avanspettacolo. Volto grigio e butterato, a causa di segni del vaiolo che ebbe contratto nell’infanzia. Ogni boccone per lui fu come fosse una comunione; masticò il pezzetto di mollica oliata, lentamente, passando il boccone dai molari di destra a quelli di sinistra, una-due-tre volte, prima di inviarlo nello stomaco.

    Con lui la giovane sorella. Una strana ragazza: la carnagione del viso scura, una sottile fascia di tela nera attraverso la fronte, un vestito vagamente zingaresco con molte frange e una coperta sulle spalle.

    Lui, sempre in attesa di un rastrellamento nazista, che sapeva inevitabile. Una mattina di metà gennaio, un colpo di mortaio esplose sul tetto di casa sua. I colpi si moltiplicarono, colpendo altri edifici. La confusione nella strada fu alquanto orrenda. Ovunque un vociare concitato e un movimento sparpagliato di uomini. Soldati tedeschi impegnati in una retata.

    Si aprì la porta e un ufficiale tedesco si affacciò. Alto, protetto da una divisa scura, stretta in vita da una cartucciera. Infilata nella cartucciera, la fodera con la temibile Luger P8. L’ufficiale prelevò senza riguardo Nino, invitandolo a incamminare verso il vialetto del cimitero periferico. La sorella protestò, ma venne zittita sotto la minaccia di un’arma.

    Dall’altro lato della strada una frequentabile casa coloniale fascista, chiamata Casa della madre e del bambino, edificata per salvaguardare la salute dei bambini e con ambulatori di puericultura. Accanto all’ufficiale tedesco, due reclute: un soldato moro e biondiccio l’altro, volti truci, che non s’aspettarono di scoprire niente di importante ed entrarono nel cimitero per pura curiosità, al servizio dell’ufficiale. Nel camposanto file ordinate di pietre tombali orizzontali, rovinate dalle intemperie. Alcune affossate nel terreno. Molte pietre, specie quelle ben conservate, apparvero riccamente scolpite: motivi decorati, emblemi di famiglia o di clan, un guazzabuglio di simboli massonici. Ma all’ufficiale s’interessò di due tombe, quelle indicate come decorazione varie austere spade. Tombe poste all’interno dell’unico sacello costruito nei primi dell’undicesimo secolo, affiancato a una piccola cappella settecentesca in disuso da tempo.

    Spade ritratte che variarono di dimensioni e a volte di disegno, seppure leggermente. Secondo l’uso dell’epoca, la spada del defunto veniva deposta sulla tomba e il suo contorno inciso nella pietra e quindi cesellato.

    Quali spiegazioni Nino dovette fornire all’ufficiale tedesco? L’interno del sacello parve un groviglio di erbacce. Due pietre tombali irrimediabilmente consunte e spaccate, posate sul pavimento. A Nino venne dato una piccozza dal soldato biondiccio; l’altro soldato gli accennò di divellere le due tombe. Il rifiuto del custode fece adirare l’ufficiale. Il biondiccio reagì e Nino fu costretto a piegarsi, e qualcosa di duro lo colpì alla nuca. Provò un dolore acuto, e vide il pavimento salire verso di lui. Anche l’altro soldato reagì, e il custode sentì la cartilagine del suo naso cedere sotto il pugno. Sulla sua faccia le involontarie lacrime si mescolarono con il sangue. Cercò i suoi occhiali, ritrovandoseli quasi subito.

    Il medesimo soldato gli riconsegnò la piccozza. Daccapo Nino la scagliò, stavolta lontano. L’ufficiale lo schiaffeggiò a mano piena, mentre il soldato biondiccio gli sferrò ancora un pugno. Il colpito sentì sulle labbra il sapore del sangue e vide il sogghigno del soldato moro. Nino barcollò, andando a finire contro la parete, ma tornò verso l’avversario biondo, e lo colpì con un diretto al mento. Questi cadde come una donnina.

    L’ufficiale si infuriò ulteriormente, buttando giù una filippica in lingua madre. Balzò su Nino e fece scattare la lama del coltello. Nino indietreggiò e la lama scintillò all’altezza della gola. Inchiodato contro la parete, cercò il respiro. Alla vista della lama, tutto il suo coraggio scomparve. Un avviso detto in italiano. Dopo un po’, l’ufficiale mollò la sua preda.

    Nino stavolta s’impegnò all’uso della piccozza. Divelse la lastra marmorea orizzontale. L’apparizione del cadavere non sconvolsero i tre tedeschi. Il soldato moro se ne occupò per rovistare l’interno della cassa lignea marcescibile. Lì, nulla di ciò che cercasse l’ufficiale. Nino divelse la seconda tomba; stesso risultato. In entrambe solo ossa e abiti semi polverizzati.

    L’ira dell’ufficiale non poté contenere nel suo stato d’animo: bestemmiò. Il soldato moro ammise che la storia del cimitero gardesano fu dunque una storia ingarbugliata e si riferisse alla fantasia dei Catari. Nessuno scrigno in una delle due tombe dei munifici pretori, sepolti nell’antico sacello. L’ufficiale rifiutò di credere che avesse esplorato il cimitero sbagliato. Ordinò che il custode venisse arrestato e portato via.

    L’ufficiale, sospettando che potessero essercene altre speciali sepolture, sondò il terreno con il suo temperino e in effetti ne trovò alcune, ma non ne ricavò niente di interessante. Non vinto, ordinò al soldato moro di far azionare un escavatore a benna frontale attiguo al lato nord del camposanto tradito.

    Se il luogo verrà mai ripulito a dovere, queste pietre tombali potrebbero rivelare ancora molte cose importanti! fu il pensiero dell’ufficiale.

    Un disastro! Dopo un’ora abbondante apparve lo spettacolo di un cimitero irriconoscibile rispetto alle rovine: decine e decine di lapidi abbattute, dodici bare scoperchiate, scheletri a cielo aperto. Ossa umane sparpagliate e ricoperte solo in parte dalla terra e da pezzi di bare spaccate. Il soldato biondo diede un calcio a un teschio che rotolò ai piedi dell’ufficiale.

    Il tentativo dell’ufficiale tedesco di competere con il Creatore, persino di sostituirsi a Lui e usurpare il suo posto, divenne una débâcle. Della vigliacca azione dell’ufficiale, soltanto Dio può avere la prerogativa di creare forme dal nulla, di creare la vita con l’argilla; se l’uomo creava una replica di quelle forme e una replica della vita, con la pietra, il minerale o qualsiasi altra sostanza abusava della prerogativa celestiale … ne faceva una parodia o una pessima imitazione.

    La ricerca del reperto proseguì fino all’oscurità. Poi, la resa definitiva.

    In un’alba di ghiaccio, sotto un cielo senza colore, l’ufficiale e i due soldati partirono per Desenzano. Con essi anche il povero Nino, condotto alla stazione. Lì in zona i marciapiedi ingombri di deportati. Nel giro di mezz’ora, i due carri bestiame si colmarono, o meglio si stiparono di umani. Una ottantina per carro. Appena salito Nino, la porta scorrevole, spinta dal di fuori, cigolò sulle guide arrugginite. Un colpo sordo, scatti di lucchetti e la voce di un soldato: "Geschlossen" (Chiuso).

    Nino incominciò ad agitarsi. Guadagnò una finestrella, incastrò il volto tra una sbarra e l’altra della grata e al gerarca fascista più a portata di voce urlò: "Dove andiamo? La risposta arrivò dal marciapiede: Fullen, campo di prigionia."

    "Che c’entro io per essere spedito laggiù! Mi dovete curare e proteggere. Le convenzioni internazionali…"

    "Lasciate perdere le convenzioni. Nel corso di una guerra così sanguinaria non c’è tempo per ricordarsi di quelle."

    Povero Nino. Quale stata la colpa attribuitagli, premiato con un terribile castigo?

    Capitolo primo

    Il segreto del forziere dei Catari

    Lago di Garda, ai nostri giorni. Tra Sirmione e Desenzano, nella spianata di Rivoltella, l’edificio di tre piani pronto per essere abbattuto. Esso era la vecchia casa coloniale fascista, la Casa della madre e del bambino.

    Il capo squadra demolitori indicava un punto a una decina di autorità amministrative presenti allo spettacolo.

    «Al momento del botto, prima crollerà il lato ovest, poi tutto il resto per effetto di una serie di nove esplosioni distanziate di un secondo l’una dall’altra. In otto-dieci secondi l’intero edificio dovrebbe essere raso al suolo.»

    «Le macerie si espanderanno? Raggiungeranno la Statale?» chiese il vice sindaco avvicinando il volto a quello di lui; il mento proteso in avanti.

    «No, affatto. Secondo i calcoli effettuati le macerie ingombreranno solo il piazzale per un raggio di venticinque metri. Il resto ricadrà su se stesso o nello spazio libero dietro l’edificio. Ci sarà solo un polverone.»

    Il vice sindaco, sbiobbo di natura, scosse il capo. Un’esplosione significava un’eruzione incontrollata di detriti in tutte le direzioni. I vigili locali avevano già provveduto a isolare la zona. Le autorità e gli addetti al lavoro si ripararono a lato della ex chiesuola del camposanto, la stessa della quale furono saccheggiati tutti gli ornamenti e le statue dai tedeschi. Della costruzione restavano solo due muri pencolanti. Nel cimitero, tra le ortiche spuntavano pietre tombali sfasciate con scritte illeggibili. Un consunto scenario! I saccheggiatori, nonostante tutto, erano ancora attivi; depredavano le tombe non solo coloro che pensavano di trovarvi qualcosa di valore ma anche su commissioni di chirurghi che volevano scheletri su cui fare pratica.

    Il vice sindaco scartò la lattina vuota di birra a lato dei piedi di Alessandro Luciani, un archeologo alla Sovrintendenza ai Beni monumentali del Nord Italia e professore presso l’Università degli studi di Pavia. Lo studioso borbottò qualcosa e si arrestò tanto bruscamente che il vice sindaco gli andò a finire addosso.

    «Signor Svanera, lei non ha rispetto per l’ambiente lasciato trascurato da anni. Questo vecchio cimitero ha storia e cultura.»

    «Non siamo interessati a questo posto di merda. Non ha senso proteggere questo misero cimitero etrusco o fascista, affrontando spese stratosferiche in telecamere, in custodi e in recinti! Anche l’altro ieri è stato compiuto un furto, qui. Lasciate che i tombaroli portino via tutto, così è finita ‘sta storia di cimiteri fantasmi, come sta per finire lo scheletro di cemento dell’edificio mussoliniano che ci ha rotto i coglioni fino ad adesso. Dopodomani si farà un repulisti di questo cimitero, e facciano i suoi uomini il meglio di portarsi via qualche cazzata storica. Questa zona sarà recintata fino a quando il Ministero delle Infrastrutture non deciderà che cosa farsene.»

    «Parole incompatibili per un vice sindaco.» disse in tono mesto.

    «Non faccia caso alla mia saggezza, dottor Luciani.» ridacchiò il rachitico secondo cittadino, seppur ammirando l’altezza fisica dell’archeologo. «In tanti luoghi, molte tombe di cimiteri usati come confino sono senza nome.»

    L’atmosfera si elettrificò con il suono delle sirene: due fischi a un minuto all’esplosione. Un boato, poi uno spigolo prese a piegarsi. Dopodiché, tutto quel restava del palazzo era un cumulo di macerie alto quattro metri. Un lavoro eccellente, di precisione. Le autorità complimentarono l’impresa.

    «Lavorare nel campo delle esplosioni non è cosa da poco: basta un solo errore per esser tagliati fuori.» ammise orgogliosamente il caposquadra alle autorità. «Sono contento che tutto sia finito bene.»

    Il cumulo di macerie ora stava lì, come presenziarsi al pubblico prossimo a visitare per curiosità. Nessuno se ne avvide al momento dell’esplosione: il boato creò un’apertura nel terreno cimiteriale posto al retro dell’antico sacello.

    «Visto, dottor Luciani, il suo cimitero è intatto. Il terremoto esplosivo è stato garante.» fece seccamente il vice sindaco spingendolo avanti. «Vi lascerei a piagnucolare come un bamboccio. Arriveranno gli operai comunali per mettere dei provvisori recinti all’edificio crollato e sostituire il vecchio recinto al perimetro di questo camposanto scaduto e indemoniato; è poco per la protezione, ma la rete nuova aiuta anche allontanare i malintenzionati furfanti babbei, rispettando così il suo desiderio e la richiesta fattaci due anni fa.»

    «Non è mai troppo tardi. E lei è molto spiritoso. Domattina invierò due miei assistenti i quali daranno una sistemata e segnaleranno i referti abbandonati del secolare camposanto.»

    Quando arrivarono due addetti comunali, la zona era già del tutto deserta.

    «Soli in questo brutto posto, che ne pensi? I morti ci guardano.» riuscì a chiedere all’altro collega un operaio calvo, quasi all’età della pensione.

    L’altro, baldo giovine, sui venticinque anni, bofonchiò qualcosa e guardò l’anziano con occhi lampeggianti.

    «È dei vivi e non dei morti che dovresti aver paura.»

    Improvvisamente il giovine si fermò. Nel terreno erboso accanto al sacello vide un buco. Si portò le mani accerchiando la bocca emettendo un richiamo al compagno.

    «Che cosa c’è, Nikola? Hai intravisto un fantasma?» lo canzonò l’operaio calvo, grattandosi i denti con la lama di un temperino. Non appena accostatosi al giovine, replicò stupefatto: «Un buco! Due settimane fa non v’era. Beh, adesso lo sappiamo!»

    «Pare vi ci siano dei gradini. Servirebbe una torcia per illuminare l’interno?»

    L’anziano operaio si sbrigò al furgonato per prelevare una torcia di massima potenza. Nikola puntò i raggi della luce dentro il buco, e vide quel che predisse: dei gradini scomposti e sciupati dal tempo.

    «Io proverei scendere.» disse il ragazzo. «Mi seguiresti, Aldino?»

    «Sei proprio scemo.»

    «Pensaci: se individuassimo qualcosa di importante passeremmo alla storia come degli eccezionali scopritori. Carter, ad esempio, scoprì la tomba di Tutankamen.»

    «È morto sotto la maledizione del faraone.» disse Aldino, indurendo la mascella mentre cercava di padroneggiare il timore.

    «Ti ripeto che i vivi sono più pericolosi dei deceduti. Se vedessi un tesoro là sotto, il tutto mi apparterrà. Oppure, se compatti, trionferemo in ricchezza.»

    Preso com’era dalla discussione con Nikola, Aldino sobbalzò quando vide il collega scendere frettolosamente, anziché cautamente. Sospirò. Si sentì in colpa per il rifiuto e senza che l’altro glielo rinfacciasse. Dopo dieci secondi decise di scendere.

    Lì sotto solo odore di tanfo e di terra umida. Alla fine dei gradini, il sotterraneo apparve loro più grande di un corridoio catacombale; a tratti, doveroso camminare carponi. Avanzarono strisciando fino alla prima curva, poi altro breve percorso finché individuarono un passaggio alto più di due metri e una specie di sarcofago; sul coperchio una scritta: Meunier.

    «Iddio, mi dà impressione di scoprire un tesoro d’inestimabile valore!» riprese a commentare Nikola, trattenendo la sua gioia esplosiva. «Probabilmente dovrebbe contenere uno scheletruccio puzzolente. Avanziamo, collega.» Un piede sopra un gradino marmoreo, inavvertitamente, ed ecco che dalla volta scese una lastra di pietra e una seconda si levò dal pavimento un po’ più avanti. «Trappole del genere sono abbastanza comuni in questi passaggi, a volte lunghi più di mezzo chilometro e scavati affinché i religiosi potessero nascondersi agli invasori e trovare rifugio per sé e per le loro sacre reliquie.»

    «Quale film hai visto per dire queste cose, Nikola?»

    «Ma va là! Nozioni enciclopediche; io leggo storie e geografie. Non tu, in andropausa, che guardi porno su Internet!»

    «Non sei proprio carino con un collega anziano.» borbottò simpaticamente Aldino.

    «Là, in fondo, bisognerebbe entrare uno alla volta. Serve superare la prima barriera.»

    Oltrepassata la barriera, i due operai individuarono una cella. Due leoni di bronzo, sdraiati, elementi decorativi di una vasca dello stesso materiale; al centro di essa un’ara sulla cui cima v’era un piccolo baule.

    «Mai nulla di simile è stato scoperto negli altri cimiteri precristiani del Garda. E l’abbiamo scoperto noi. Siamo ricchi!» esultò Aldino.

    «Ssst… credo sia brutto urlare. Ho solo un consiglio per te: prendere il forziere e portarlo in superficie.»

    Non per niente faticoso prelevare quel forziere secolare e per nulla pesante. Presero lo scrigno e si sbrigarono al ritorno all’aperto. Appena i due oltrepassarono il lastrone, l’ara indietreggiò fino al bordo della vasca, si aprì un varco quanto bastasse per un sarcofago in salita, proveniente dal successivo sotterraneo. Il coperchio si scostò. Apparve lo scheletro ricoperto da una polvere bruna sui tessuti ornamentali e il capo su un cuscino dall’apparenza nuovo. Dalle dimensioni scheletriche davano un’altezza di un metro e ottantacinque; si arguiva che doveva aver torreggiato come un gigante tra i suoi contemporanei. Per la ricchezza degli oggetti rinvenuti dentro il sarcofago, con ogni probabilità l’uomo sepolto aveva esercitato la propria autorità sul territorio. L’ossido di rame del sarcofago aveva contribuito a conservare la magnifica veste di lana che il morto aveva indosso al momento della sepoltura.

    Le terrificanti mani abbassarono il cappuccio orlato di madreperle verdi che coronava il cranio. Nel teschio, i bulbi degli occhi erano in ottimo stato. Lo scheletro si ricoprì di carne, di muscoli e, poi, dell’epidermide.

    Nel frattempo, il bauletto a chiusura stagna vide la luce del sole. Aldino non si fidò aprirlo.

    «Sappiamo l’hotel dove soggiorna il famoso archeologo Luciani. Abbandoniamo il lavoro per motivi forzati; non ci daranno per recidivi. Questo forziere va consegato all’interessato. Ci premieranno. Finiremo sui giornali nazionali.» ammise il giovine. Il calvo approvò.

    I due erano più di buon’umore che negli ultimi giorni. Raggiunsero Desenzano con il furgonato comunale e compirono a piedi il breve tragitto tra la folla assiepata nelle movimentate vie, e giunsero poco dopo dinanzi all’Hotel Fiore. Nella hall, Aldino posò il bauletto sul tavolo fratino, con esagerata lentezza. Alla reception, Nikola chiese urgentemente dell’archeologo.

    Aldino colse un rapido movimento nell’attimo in cui scese l’archeologo; questi voltò appena il capo in direzione del bar e subito lo rivolse in direzione dei due. L’archeologo scrutò il forziere, quindi si fece dire da quei due la ragione della presenza del bauletto.

    §§§

    Presso la zona del secolare camposanto, del furgonato comunale, carbonizzato, non restava che una carcassa metallica deformata dal calore e dall’urto. Si distinguevano i corpi scheletrici in quella specie di nuda gabbia.

    «Non può essere Nikola. Lui è alto. L’altro corpo chissà di chi potrebbe essere.» esclamò un poliziotto urbano.

    «Le proporzioni di un uomo bruciato si riducono di un quarto, a volte anche di un terzo.» spiegò il tenente Aldo Bariselli.

    Accanto ad un video plasma gigante sul quale apparivano le tragiche fotografie dei due custodi trucidati, stava seduto il capitano Roberto Rosmani, capo del Comitato sicurezza regionale; questi osservò che il passeggero aveva tentato di sottrarsi al rogo dopo aver telecomandato

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