La Madonna della fontana
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La Madonna della fontana - Antonio Accordino
LA MADONNA DELLA FONTANA
Il giovane Andrea, Marco Zappetta, ultimo dei tre figli di Eugenio e Carmela Portella, che sia nato sotto un cavolo, non è un modo di dire, o meglio, una falsa pudicizia, corrisponde proprio a verità.
La mamma, l’ha dato alla luce, proprio in un campo di cavoli, sul margine destro, quasi a ridosso del confine del viottolo che lo separava da un filare di pomodoro e piselli, ove ha lavorato fino all’ultimo minuto.
La gioia per la solerte e naturale conclusione del parto, avvenuto sotto l’assistenza della suocera che vi lavorava a gomito, e che provvide immediatamente a chiamare il figlio ed i parenti sparsi per i campi, evidentemente non diede spazio a nessuno di attardarsi ad osservare il neonato fin nei dettagli, era talmente tanta l’emozione che nascose loro, le fattezze del bambino, anche perché non era facile, a primo acchito, notare il segno, e neanche successivamente a casa, dove furono accompagnati con tanto amore ed una precauzione, diciamo spropositata. durante il salutare bagnetto effettuato appena entrati nella dimora, lasciò loro lo spazio di osservare.
I presenti, in breve, sembrarono tutti, nessuno escluso, che fossero annebbiati da una cataratta, appesantiti, soverchiati da una fitta nuvola nera, di una confusione allarmante, tanto da non notare che il bambino, nell’incavo del gomito sinistro, era segnato, insomma era marchiato, da un’escrescenza a forma di un piccolo salvadanaio, di quelli a borsetta, dentro il quale, le donne usano conservare i soldi spiccioli, le monetine.
La Signora Carmela, un mattino, qualche mese dopo il parto, terminato di fargli il bagnetto, perdendosi negli occhi di Marco, Andrea, su quel figlio, sul suo pargolo, volendo gustarselo qualche minuto in santa pace, bearsi della sia bellezza, delle sue candide fattezze, asciugandogli la faccia, le spalle, le braccia, le gambette, l’addome, il sesso, le mani, lentamente, teneramente, baciandolo, proseguendo a zone, accarezzandolo, s’accorse inavvertitamente, forse a causa dello strofinamento anche se leggero, che la piega del gomito sinistro, il borsellino, iniziò ad aprirsi in un bel sorriso, fino ad allargarsi, in una grande, ampia bocca.
Il sorriso, ad un tratto però, atteggiato nella sua radiosità, si contorse, e forse si fornì, o così le sembrò, di una certa, beffarda, rozza goffaggine, mettendo fuori, ecco che presentò, espose la testa di una vipera ed in men che non si dica, il rettile, sforbiciando la sua lingua, si eclissò, iniettando, molto probabilmente, nell’avambraccio, eruttando in esso, con estrema veemenza, una quantità enorme, inverosimile, di veleno, tanto che il suo volume, si triplicò, si gonfiò talmente, e diede adito a credere, che forse, originò una neoformazione.
Il borsellino, con il passare dei giorni, nei momenti meno impensabili, si apriva e cresceva a guisa di una bocca, o cratere pulsante, tipo Macalube o vulcanello, e velocemente, in un modo straordinario, l’arto, si gonfiava per intero, compresa la mano.
La neoformazione o che fosse, probabilmente, lavorava sottopelle, manipolava l’elemento costitutivo inducendo muscoli, tendini a difendersi, a gonfiarsi.
La struttura, l’avambraccio, il polso e la mano, che andava ad impregnare, ad insufflare in modo totale, ornava la superficie della pelle, di una guaina a fasce, simile ad un carapace, non proprio di quel tipo, però parecchio duro, forse non osseo, comunque simile ad una pelle ruvida, coriacea.
L’avambraccio, il polso e la mano, l’arto intero, si svilupparono in un modo straordinariamente robusto, con una circonferenza, oltre tre, quattro volte, la sua naturale conformazione.
L’arto, in un arco di tempo, insomma in men che non si dica, divenne di una enormità pazzesca, assunse la forma, vogliamo dire di una porchetta, di un’aragosta adulta, molto grassa, con la testa, a disegnare il palmo della mano e le antenne, le chele e le tenaglie, a formare il resto, ovvero le dita. Il processo dello sviluppo di esso, e del suo immediato rientro nella normalità, effettivamente fu talmente veloce, che negli occhi di Carmela, passò come un lampo che le lasciò il dubbio se avesse visto bene o che fosse stata colpita da un’allucinazione, relegandola in una specie di non senso, trasecolando, spingendola, precipitandola in una voragine infernale.
L’avambraccio, la pelle, assunse l’aspetto di cuoio, un carapace che lo avvolse interamente, con polso e mano, tanto che la signora Carmela, si mise addosso, una tale paura, una nevrosi quasi isterica, a cui non seppe opporsi e stava per svenire, raggiunse l’orlo del precipizio..
Il fenomeno, in un breve lasso di tempo, forse poco più di un respiro pieno, profondo, a pieni polmoni, forse bastante per darle il tempo di chiamare qualcuno della famiglia, nella speranza che la suocera, il marito, la cognata, od anche, pur vergognandosi, almeno una delle vicine di casa, anche se le case coloniche distavano l’una dall’altra anche centinaia di metri, udissero il suo grido d’aiuto, e le dessero un poco di conforto, ecco che però, la mostruosità, come la chiamò subito, senza pensarci, si era ritirata, scomparsa nei meandri della piega, della plica dell’avambraccio, lasciando il segno quasi impercettibile, di un occhiello, di uno spiffero orizzontale, serrato, diciamo del borsellino..
Il bambino, sotto l’occhio indagatore dei parenti, sembrava sereno, non mostrava nulla di particolare, un dubbio però, attraversò la mente di Carmela, non ne era certa, e tanto più, intendeva addossare a quella creatura innocente, una colpa e dichiarare quanto di mostruoso aveva visto.
La signora Carmela, invero percepì, notò, gli svolazzò negli occhi, una specie di passaggio veloce, del colpo d’ala di un uccellaccio primordiale, forse, anzi sicuramente scomparso, che le scompigliò non solo i capelli, un tantino, anche e soprattutto, la mente, le sembrò di vedere Andrea, Marco, lanciare dalla bocca, una linguaccia viperina, uno spiritello che non lasciava presagire, niente di benevolo. .
L’avambraccio, era rotondo, molto consistente, si poteva configurare, se non una porchetta, non proprio arrosto, ripeto, un’aragosta meravigliosamente grassa, con il polso e la mano che fosse, che venne ad armarsi mostrandosi ben fornita di chele, ed altri arnesi.
Lo sguardo atterrito della madre, della signora Carmela, non riuscì ad indagare, non ne aveva gli strumenti, però comprese che sostanzialmente, l’arto, compresa la mano, rassomigliasse ad un congegno, molto probabilmente fornito di un automatismo, di un organo meccanico complesso.
Il polso, appariva come se fosse foderato, non di cuoio come di solito, adottano alcuni atleti cercando di proteggersi per evitare slogature, meglio, protetto da una pelle spessa e nel contempo morbida, proprio adatta a nascondere la sua vera essenza, la natura.
La struttura che avvolse l’avambraccio, che lo confezionò, scivolando sotto la piega e proseguendo componendosi con il palmo della mano, crebbe non in simbiosi con lo sviluppo del bambino, nel giro di pochi minuti, raggiunse la misura stabilita, che il gene maligno, gli aveva riscritto, riprogrammato, sicuramente accelerando la velocità di crescita, dunque possiamo dire, non certo in modo naturale, riuscendo ad azionare le nuove esigenze, inserite e programmate, secondo il nuovo processo. .
L’arto, con polso e mano, avevano la capacità di ruotare senza alcun vincolo, sorprendentemente, per ogni dove, ovunque, come se fosse un attrezzo meccanico, uguale, identico a quelli che usano gli operai specializzati, nei lavori di scavo, di demolizione di strutture, resti di ponti, di autostrade, di costruzioni edili abusive, insomma secondo le necessità.
La mano, fu corrotta in un modo abominevole, gradualmente a seguito del completamento dell’arto, secondo il processo evolutivo ascrittogli, si andò a formare, si configurò in un modo inusuale, diciamo che strutturalmente, fosse mastodontica, di una misura tripla, forse quadrupla, di quella normale e dimostrava una capacità specialistica ed immediata, di fornire gli strumenti adeguati alla struttura.
La mano, supportata dal meccanismo dell’avambraccio, diciamo che si presentava con una normalità fuorviante, all’occorrenza però, tirava gli artigli e scopriva immantinente, le sue variegate qualità, era costruita per fornire tutti i servizi, con la possibilità di afferrare, di prendere qualsiasi cosa, di tagliare e di offendere chiunque gli sembrasse scorretto, che gli si ponesse davanti, con l’intento o meno, casualmente o non, di fermarla, che reputasse avversario, o peggio nemico, che volesse impedirgli di entrare in possesso dell’oggetto o del bene che si era prefissato di avere, insomma dimostrò delle qualità nascoste, possiamo ben dire, non un’imitazione, era operativa, colpiva con una ferocia inaudita. .
Il polso, nella parte superiore, pareva fosse costituito, con una fascia di cerchietti, uno sull’altro, simile a quelli che ornano il collo delle donne africane, il carpo, si elevava disegnando i vari ossicini, uguale ad un carapace ben organizzato, articolandosi, sviluppando un ‘ azione sorprendentemente elasticizzata, come contemplasse una tattica, pronta a sferrare un attacco in qualsiasi momento, contro l’avversario, il nemico che cercasse di fermarla.
L’ arto sembrava fosse inserito in una struttura di una taglia extra, molto larga, la neoformazione che s’annidava all’interno di esso, come se fosse un soprannumerario, prodotto dalla piega, in un continuum di cerchi e piastre, con grandezze sempre diverse, raggiunto il margine superiore del carpo, ove sono distribuiti gli ossicini, forse si distrasse un attimo, si mise a guardare il pollice, o diede questa impressione, tastò le dita che si ponevano lateralmente e con fare arrogante, di sfida, dando all’istante, subito, immediatamente, il segno di sé, ruotò su se stessa e si mise supina a guardare in alto come ad interrogare il cielo o chiamarlo a testimone, e senza aspettare oltre, entrò in azione creando nell’aria circostante, un vortice, un turbinio per spazzare via ogni cosa si trovasse nei paraggi, come se fosse in grado di distribuire le nuvole, accorparle e caricarle del suo veleno, metterle a scaricare, con fulmini e saette, persino a provocare una tempesta immane, di vento e grandine, e senza volere preservare la sorpresa, si sedette su se stesso, come in una poltrona vicaria ed eresse dritto, minaccioso, uguale ad un chiodo metallico, il dito medio.
Il formato del dito, aveva una caratteristica, diciamo meno appariscente del polso, cioè, era costituito, con una numerosa quantità di anellini, cerchi, naturalmente meno grandi di quelli del polso, ne contava circa cinquanta, ottanta, cento e forse anche di più, perché cresceva con scatti perentori, diciamo a stantuffo, e diventava difficile osservarli, sicuramente, con una velocità di crescita, pari o forse superiore al feto nel grembo materno che per un periodo di circa nove mesi, ed a volte, tollerabilmente, anche qualche giorno oltre, si crogiola, giocherella, nella piscina, nella vaschetta privata che la mamma gli ha confezionato per curarlo e farlo venire bene.
La crescita del dito medio, era molto significativa, e per questo dava adito a pensare che probabilmente eseguisse un progetto speciale, avanzato, rivoluzionario, che coadiuvato, a sua volta dalle dita specializzate, a tenaglia, forbice, martello, cacciavite, presentava sotto l’unghia, conservava ed evidenziava all’occorrenza, una specie di stiletto, una lama sottile ed affiliata, pronta ad infilzare un ipotetico avversario.
Il malcapitato, il nemico che l’avesse sfidato, che fosse entrato in competizione per il possesso di qualcosa, qualsiasi che si fosse presentata, avrebbe subito, improvvisamente, senza che potesse avvedersene in tempo, di percepirlo, un assalto, sicuramente, mortale.
La battaglia che si sarebbe ingaggiata, avrebbe avuto un esito scontato, il dito, molto probabilmente, era stato creato come strumento atto ad offendere, con una perfezione tale da sembrare un monile antico, diciamo un gioiello unico, con la prerogativa assoluta di entrare, subdolamente, assolutamente in competizione ed impossessarsi del bene, di qualsiasi valore, insomma il contendere andava oltre il prezzo di mercato.
Il genere, maschio o femmina, umana, animale o cosa, un oggetto qualsiasi, diventava lo svago, il massimo, godurioso divertimento, la preda più ricercata, più ambita, il suo possesso, scatenava una guerra fino all’ultimo respiro, insomma, non comportava, come a parafrasare un vecchio detto fascista, prigionieri.
I cerchi, gli anellini che componevano il dito medio, ruotando nella maniera di uno stantuffo, di una talpa, spingevano lo stiletto, il punteruolo in modo che avanzando, perforasse la resistenza del nemico.
Il condizionamento della mano nei confronti dell’avambraccio, pareva inevitabile.
L’attivazione dell’avambraccio, spingeva la mano, molto probabilmente, ad eseguire obbligatoriamente, qualsiasi movimento comandasse il serpentello infiltrato.
L’influenza del serpentello, direi che fosse assolutamente primaria, credo però, che l’unità umana, normale, naturale, contribuisse all’attacco anche perché, per un altro verso, era funzionale allo scopo.
L’arto, possiamo ben dire, era in connessione con il polso e la mano, ed essa si muoveva, prendeva, lasciava, indicava, colpiva, accarezzava, eseguiva i suoi ordini, insomma era identica se non fosse stato per l’attributo specializzato, e per il pronunciamento del dito medio.
L’altra mano, l’alter ego, la destra, sostanzialmente, sembrava guardasse, pareva stesse in attesa per intervenire nel caso il principe del male, abusasse sconsideratamente del potere, che certo, non era misurabile, non era conosciuto, quanto il serpentello, gliene avesse conferito, attribuito per raggiungere lo scopo.
Il serpentello, penso che la tenesse a guisa di uno specchio per le allodole, in effetti, essa, credo che fosse, se non quasi, del tutto ininfluente, o meglio, percentualmente, contasse, in misura irrisoria.
Il dito medio, il suo atteggiamento, incuteva timore, chi avesse avuto la possibilità di osservarlo, restava sorpreso da cotanta virilità, ed anche se timidamente, fin da subito, Andrea, Marco, diede, diciamo, dimostrazione del suo intendere, quasi accecando, Tonino, il fratello più grande, di età superiore alla sua, di circa dieci anni, e possiamo escludere il moto involontario, sicuramente per gelosia, per futili motivi.
L’atto vandalico, invero fu accettato a livello di un incidente domestico, però negli anni, gli eventi cruenti si accumularono ed i genitori, parenti e presenti, continuarono a trattare la cosa allo stesso modo, nessuno provò ad inquadrarli in una vera e propria strategia, dicendo che un ragazzo di quell’età, di pochi anni, non era credibile che fosse dichiarato, un avanzo di galera.
Andrea, Marco, crescendo, usava il dito medio della mano, la potenza dell’arto, gli attrezzi legati e tenuti nascosti nelle dita, in modo improprio, diciamo come un’arma offensiva, per attaccare, procedeva sempre peggio, egli manifestò una malefica attitudine contro gli altri, sembrava fosse stato delegato a svolgere le azioni più cruente, vergognose, a volte, proprio criminali, per ottenere quello che voleva.
L’arto, coadiuvava la mano, in modo perfetto e quando il serpentello, s’arrabbiava od intendeva perseguire un interesse personale, particolare, si armava e veniva fuori dichiarando una guerra totale, forse non era indipendente, sicuramente non lo era, però la scrittura, a vista pareva condizionata, funzionava in maniera perfetta, quasi fosse un robot telecomandato, sembrava collegato al un centro di smistamento, di azioni che un’entità superiore gli ordinasse di compiere senza por nulla in mezzo.
La mano, con l’avambraccio ed il polso, a vista, si presentavano come un arto normale, i suoi movimenti, a volte, sembravano addirittura, incerti, l’automatismo, pareva non controllato, evidentemente seguiva un andamento guardingo, probabilmente, il serpentello non intendeva mostrarsi, gli ordinava calma, un modo subdolo per scatenare indisturbato, l’attacco mortale, però l’impulso era unitario con l’avambraccio ed il polso, anche se a volte, funzionavano come fossero indipendenti l’uno dall’altro, aggiungiamo che ognuno di loro, appariva secondario, si muoveva in modo improprio, cioè libero, sia nelle coordinazioni che nell’ordinario operare, però colpivano all’unisono. .
L’arto, pareva seguisse un ciclo di riempimento e di defaticamento, dando l’impressione quando operava che fosse una struttura soprannumeraria, non era siamese, il serpentello che faceva capolino dal borsellino rientrando immediatamente per proseguire sotto traccia, con volute inverosimile, si infiltrava contorcendosi, seguiva una strada ben disegnata, diciamo che si distendeva fino in fondo, percorreva l’avambraccio, entrava nel polso e si presentava con una sciabola, un pungiglione, un gancio, oleava della sua sostanza, i muscoli, i tendini e gli ossicini che subito s’irritavano gonfiandosi, correndo alle armi, e si conduceva per appartarsi con il dito, che prendeva vigore, che si ergeva.
La mano, sentendosi protetta, si apriva e si chiudeva, ruotava e cominciava a manipolare gli elementi che le si presentavano davanti, utili o malevoli che fossero, con l’intento preciso per volgerli a suo favore, e molte volte, riusciva a capovolgerli, a miscelarli e corrompendoli, combinava altri elementi e li mescolava sulla lingua del serpentello che non gli pareva vero di rinnovare ed irrobustire il suo prodotto, che diventava talmente tossico, perfino capace di erodere, sciogliere e crearne di nuovi e più terribili che a trovarli in natura è impossibile, degradando, impedendo un sereno quanto normale stato, invertendo il proseguimento della conversazione o pratica burocratica, o rapporto d’affare, si comportava, agiva come fosse in una guerra all’ultimo sangue, diciamo che svolgeva la parte di un mafioso, di uno spirito malsano, ammaestrato a ricavare da ogni rapporto, un punto, un appannaggio fuori dal patto, possiamo affermare senza tema di essere smentiti, che rassomigliasse ad un contratto curato, molto bello nelle parole e nella grafica, negli articoli però, nascondeva il male più atroce, le condizioni capestro più inverosimili, una gabbia perversa, allucinante.
Andrea, Marco, dunque, usufruisce di un arto sinistro oltre il naturale, che ha sicuramente il diavolo in corpo, insomma di qualcosa di speciale, di minaccioso che nel tempo, si dimostrerà terribile.
I genitori, i parenti, coloro che lo frequentavano abitualmente, diciamo che non accettavano il suo modo di fare, il suo agire, lo accolsero, come fosse una disgrazia, una vera barbarie, inimmaginabile, una maledizione e con il pensiero del dopo, inconsapevolmente, si può dire che avessero ragione, però, il serpentello, il male, all’incontrario di quel che temevano genitori, parenti ed amici, era favorevole, un grande alleato del figliolo, del ragazzino, di Andrea, Marco.
I genitori, non capivano, anzi disperati, consultarono il medico di famiglia che li indirizzò presso un chirurgo originario del luogo che svolgeva la sua professione, in un grande Nosocomio Universitario, in una famosa clinica privata, al seguito del Professore Gerardasso, almeno si sapeva, nella città industriale di Melaglio.
Il Dr. Princiotto Alfredo, compaesano di Andrea, Marco, in estate, veniva a trascorrere le vacanze, le ferie in città ed abitava in casa dei genitori.
Il Dr. Alfredo Princiotto, era nativo di Fagna, ove erano, ancora residenti i genitori, non proprio in centro, in periferia, in contrada Buffa, ed ecco che il vicinato, venuto a conoscenza, si recava a trovarlo per un consulto, un consiglio.
La nomea della famosa clinica privata, a seguito del luminare di chirurgia, nella quale aveva conseguito la specializzazione e per il quale lavorava, il Dott. Prof. Gerardasso, diciamo che gli faceva una gran pubblicità e non a caso, era stato sottoscritto, un collegamento con la clinica privata locale, di nome, Gerania, nella quale a volte, secondo l’esigenza, gli offriva, magari indebitamente, la possibilità di eseguire qualche intervento, per altro, il Dott. Alfredino, come erano soliti chiamarlo i paesani, svolgeva, la professione, a Buffa, nella casa dei genitori, riuscendo a crearsi nel tempo, un anno dopo l’altro, una nutrita clientela..
La città di Fagna, situata nella provincia di Rosanta, non conta molti abitanti, negli anni, per effetto dell’emigrazione, si è ridotta di numero, diciamo che adesso, non ha una popolazione numerosa e molti esercizi, molti negozi sono stati chiusi, la città è grande, il suo territorio è molto esteso, però ha poche risorse per svolgere attività qualificate e dunque è poco conosciuta.
Il Dott. Princiotto, medico chirurgo, originario della contrada Buffa, località agricola della piana, diciamo periodicamente, non saltuariamente come accade per le vacanze, ritorna a casa, a trovare i genitori e sfrutta la fama del Luminare, del Famoso Professore Gerardasso, del Medico con il quale lavora, nella clinica, nel nosocomio della città di Melaglio.
Il Dott. A. Princiotto, riceve nella casa dei genitori, diciamo che esercita abusivamente, emette parcelle, piuttosto salate come se fosse a Melaglio, con l’intento, certamente, di pagarsi il soggiorno, a raggranellare le spese quotidiane della sua permanenza, gli impegni sono tanti ed i soldi non bastano mai, gli facevano eco, i paesani, e c’era posto, anche per qualche altro spicciolo, esentasse, per la brioscia con la granita, che apprezzava moltissimo, e del gelato da passeggio che per la sua bontà, ne avrebbe mangiato un pozzetto, tanto che era solito dire che il bar Angelo, meritasse il premio Nobel del gusto e della cortesia..
La parcella che rilascia ai pazienti, possiamo benissimo chiamarla, foglio inutile, è segnato, sporco di scarabocchi, veri e propri tratteggi che non rassomigliano, neanche alla scrittura stenografica, invero non sono tali e neanche ricevute, non sono nulla, il foglietto è carta bianca, forse per appunti o giuochi antistress, non ha alcuna intestazione e nessun timbro.
Il foglietto che consegna loro, potrebbe essere una preziosità per un psichiatra, linee e tratteggi, cerchietti, dadini, disegnini di bambini, non certo prescrizione di farmaci o di erbe salutari od altro, no, neanche, non riporta il nome di un medicamento o che tale si possa chiamare, una tisana, un estratto di erbe, una crema, addirittura non riporta neanche la somma, forse la scrittura, lo scarabocchio, può intendersi, dico a buttarla così, un trastullarsi con la penna, un pensare antico, un pseudo lavorio mentale, non certo una raccomandazione o piuttosto un saluto.
La povera gente, è risaputo che per la salute, non bada a spese, paga sollecitamente e senza chiedere alcuna ricevuta o fattura che sia, donandogli in più, la roba fresca e genuina del proprio orto, che ha coltivato nel campo.
I viaggi della speranza, diciamolo pure, che hanno coinvolto la famiglia Zappetta, sono stati assolutamente, evidenti ricatti, senza ottenere alcuna soluzione pratica, anzi si possono considerare, sicuramente, delle operazioni aggravanti.
Il comportamento dell’arto super specializzato, di Andrea, Marco, anziché migliorare, guarire, diciamo che peggiorava, gli impiastri, le medicine, le terapie, gli interventi taglia e cuci, al quale era sottoposto nella clinica del Professore Gerardasso, sotto il diretto controllo, del dott. Princiotto, non avevano dato nessun risultato positivo, forse sul momento sembrava che fosse, ma qualche giorno dopo, arrivato a casa, il suo funzionamento riproduceva gli stessi effetti, riprendeva peggio di prima, assumeva atteggiamenti più distorti, andava oltre la sua, propria, normale conduzione.
Il serpentello, forse si era assopito, riposava un po' per la fatica, evidentemente però, ripresosi, superato l’attacco, si faceva un esame mnemonieo di quanto gli era accaduto e si presentava con maggiore grinta, meglio, sembrava inferocito, corrotto a tal punto che probabilmente, la pazzia aveva preso il suo sopravvento.
La famiglia Zappetta, seguendo il dott. Alfredino, tribolando per quel ragazzino senza vedere un barlume di miglioramento, con le risorse economiche accumulate in tanti anni di lavoro ridotte al lumicino, a questo punto, decisero d’interrompere i trattamenti, smisero di continuare con i viaggi