Trinacria Israel
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Anteprima del libro
Trinacria Israel - Maurizio Antenore
Indice
Note Biografiche
Prologo
Risveglio
Prima settimana
Un anno prima
Primo incontro
Basicò
Oltre la Striscia
Scilla
Come d’ali di una farfalla
Messina
L’Angelo senza nome
Un piccolo favore
Protocollo W
Ritorno a casa
Yoseph
Fantasmi dal passato
Il biondino
Hackman
L’alternativa
Tripi
Oggi
Inferno
L’ultimo approdo
Epilogo
Bibliografia e fonti di ricerche
Saggistica
Richiami
Maurizio Antenore
TRINACRIA ISRAEL
ISBN | 9788893213684
Questo libro è stato realizzato con PAGE di Youcanprint
Youcanprint.it
Note Biografiche
Nato a Milano il 17 maggio 1958. Diplomato come perito meccanico nella mia città natale, dove ho lavorato sino agli anni ‘90, mi sono trasferito a Torino, dove tuttora esercito la mia attività come dipendente in una nota industria meccanica. Il primo romanzo, che ha avviato la mia avventura letteraria, è "Hedulis, le tre Sorelle" edito da Kimerik. "Trinacria Israel" è dedicato agli afflitti da razzismo e guerre fratricide, descrivendo l’attuale dramma che lede il popolo Palestinese; le notizie che giungono ogni giorno da quelle aree disastrate, ci offrono una panoramica insufficiente per comprendere appieno la tensione conflittuale esistente tra due popoli che si contendono un territorio siccitoso e inospitale, almeno dal nostro punto di vista europeo.
Come addentrarsi in vicende così lontane dalla nostra sfera culturale e sociale? Una breve sinossi può descrivere il mio punto di vista e rispondere all’ovvia domanda che, probabilmente, ti sei già posto: "Se fosse la nostra Patria, l’oggetto da contendere, come ci sentiremo nei panni dei Palestinesi?"
Sarah è una ragazza Israeliana innamorata di un suo coetaneo, residente dall’altro versante di quella barricata che divide due mondi opposti: la Striscia. Uscita dall’isolamento del gruppo Haredim, fondamentalisti religiosi che plasmano la loro vita applicando alla lettera la dottrina della Torah, inizia la sua avventura appassionata, da sognatrice ma che precipiterà in un dramma senza ritorno, dai toni foschi e imprevedibili.
Tutto ruota nell’ambito di un "universo parallelo", almeno così l’ho immaginato, dove Palestina e Israele non esistono nella configurazione attuale; gli eventi si svolgono in Italia o almeno, ciò che ne rimane…
Prologo
"Non respiro, maledizione! Se riesco a sfilarla, forse potrò ripararmi."
Non ho nessun’altra risorsa ma affannarsi nel cercare di proteggermi dal pulviscolo e dal fumo maleodorante con la camicetta è diventata un’impresa disperata. Nonostante sia riuscita a sfilarla dalla vita della gonna, non arrivo a sollevarla per portarla alla bocca. Tento assurdamente di slacciare i bottoni guardandomi contemporaneamente a destra e sinistra ma le mie azioni sono confuse, private di una qualsiasi logica indotta dal terrore incalzante; strofinando gli occhi accecati dal fumo, vago senza meta disperando nel poter trovare un qualunque riparo dai proiettili e dalle schegge di cemento e sassi che piovono da tutte le parti.
"Laggiù … laggiù c’è qualcosa…". Finalmente! È un frammento di parete o di cosa non so, un’origine incerta, forse un muro di cinta o ciò che rimane di una casa abbattuta dalle cannonate; in pratica solo un lembo di cemento e calce e mi affretto nell’accoccolarmi dietro ad essa in cerca di un’improvvisata protezione. Comunque è un luogo sicuro, dove poter strappare quei maledetti bottoni e portare il tessuto alla bocca. Poi, con la coda dell’occhio, intravedo un disegno. A quella vista il mio terrore sembra ammansirsi in una manciata di secondi che trascorrono misericordiosamente lenti, doni inaspettati che infondono, in quel caos assordante, uno strano senso di pace. Così questo è il tramezzo, o meglio ciò che rimane della stanza di un bambino o di una bimba che si divertì a disegnare farfalle. Sfioro, accarezzando con la mano quei disegni infantili, farfalle colorate che volteggiano di fiore in fiore più altre figure di cui non rimane un granché, forse cuoricini e lettere di una frase ormai incomprensibile, ridotta in cocci come il resto della casa.
Un urlo mi risveglia improvvisamente. Una giovane donna che serra in petto tra le braccia un fagotto, probabilmente un neonato, mi sta urlando qualcosa che stento a comprendere. Poi alza la mano additando verso la mia direzione. Non oso guardare dietro di me, oltre quel muro, oramai paralizzata dalla paura.
Sento la morte avvicinarsi accompagnata da un rombo assordante, una vibrazione che scaturisce dal terreno, così intensa che penetra fra le membra sino alle ossa, aderendo tutt’uno al mio corpo. Chiudo gli occhi sperando in una fine rapida, la meno dolorosa possibile quando qualcosa mi agguanta con decisione il braccio destro, strattonandomi dolorosamente e trascinandomi via. A questo punto immagini e sensazioni si accavallano disordinatamente: l’uomo in divisa d’assalto che mi afferra, il suo volto segnato da una ferita sulla guancia ancora sanguinante e sporca di fango, quel rumore assordante proveniente alle mie spalle e che si materializza in una forma scura, enorme cui risaltano i cingoli che frantumano quel muro, la mia ultima protezione.
Non odo più il frastuono stordente, incredibilmente slegato, dissolto da queste visioni devastanti. L’ultima cosa che intravedo, prima di perdere i sensi, è una fiammata continua e ripetitiva fuoriuscire dal mostro di metallo che stava per schiacciarmi e contemporaneamente quella donna con il suo fardello serrato fra le braccia. Non ha smesso di stringerlo per un solo istante, in un ultimo, disperato e inutile tentativo di proteggerlo prima di esplodere come una bomba.
Risveglio
Dove sono?
Mi ritrovo, non so come, in un luogo completamente sconosciuto ma stranamente non avverto né smarrimento né scoraggiamento; in contraddizione alla mia personalità osservatrice, sempre attenta nel cogliere ogni singola sfumatura o mutazione degli aspetti volubili del mondo che ci circonda, situazioni che hanno sempre sollecitato la mia curiosità entusiastica che, a detta di alcuni, talvolta sprofonda nell’infantilismo, ora come ora non colgo alcun interesse per esso.
È qui, tutto intorno a me, indubbiamente reale ma lo percepisco come qualcosa di più di un semplice "luogo"; è quasi consistente neppure avesse preso le sembianze di un’Entità vivente. Riesco a percepirne la tangibilità in modo stranamente curioso, al pari di un oggetto materiale che posso facilmente palpare, anzi sfiorare con tutto il mio essere, tanto da ritenere le mie mani delle inutili appendici; è avvertibile la sua realtà, dove si sovrappone una natura aleatoria, precaria e incerta, comunque percettibile tanto quanto la mia contradittoria indifferenza per esso. È oltretutto così smisurato che stento a distinguere una qual parvenza di confine, comparabile a un piatto deserto, mi verrebbe da pensare e dovunque volti lo sguardo trovo impossibile scorgerne l’orizzonte.
Anche il concetto di tempo è mutato, anzi completamente cancellato ma in quest’assurda situazione qualcosa d’indecifrabile si sta contrapponendo al mio stato di abbandono, una sensazione che lentamente ma inesorabilmente sta affiorando; è diventata così intensa che m’induce a ridestarmi da questa condizione di catatonia, qualcosa mai provata sino adesso.
Libertà! Sono finalmente libera da ogni legame con un passato di cui non voglio più farne parte e la conseguente oppressione che m’imprigionava, svincolandomi da incomprensibili tristezze e ansie. Già, incomprensibili; ripensandoci non ricordo più la loro origine, cancellate dalla memoria insieme a fatti e situazioni che sfumano in questa nuova esistenza, immagini fluttuanti che tentano inutilmente di riemergere ma che affosso impietosamente e con convinta risolutezza. Tutto quello che mi circonda, anche se la parola "tutto" non ha più alcun significato, mi appare splendido e meraviglioso, come un sogno e l’inverosimile prende forma, acquista realtà e … inizio a volare.
Sfreccio così rapidamente tra quelle "cose", simili a nubi bianche e lattiginose, che istintivamente socchiudo gli occhi in un ovvio riflesso di protezione per poi rendermi conto che nulla può più ferirmi. Urlo di gioia attraversando una nube dopo l’altra e poi un’altra e un’altra ancora, cabrando e ruotando su me stessa come un uccello alla sua prima esperienza di volo, ammirando l’ormai lontana terra sotto di me … la terra … improvvisamente quelle immagini hanno il potere di riattizzare l’ansia repressa che credevo di aver vinto!
Riconosco le strade della città, la campagna e con orrore, le colonne di fumo degli incendi; l’angoscia che sembrava finalmente dissolta, mi afferra con violenza come un artiglio trascinandomi a terra, precipitando senza alcun controllo. Una luce abbagliante si è accesa davanti a me accecandomi impietosamente e a questo si sovrappongono dei richiami incomprensibili, praticamente urlati. Ma cosa dicono? Un nome? Qualcosa che devo, ma non desidero fare? Non voglio… non voglio tornare indietro!
Qualcuno mi colpisce… mi fa male… io… io…
«Sarah! Svegliati… avanti… non dormire!»
«Io… io non voglio! Lasciatemi in pace!»
Uno schiaffo mi coglie di sorpresa. È dato con decisione ma lo avverto come se l’impietosa mano fosse avvolta da qualcosa di morbido, al pari di un guanto. Non sento dolore ma la rabbia indotta da quel gesto violento mi assale; vorrei muovermi, alzarmi e urlare di smetterla ma mi sento serrata come in una morsa, rendendomi poi conto che sono bloccata su un letto, afferrata dalla stessa persona che mi sta ordinando di svegliarmi.
«Apri gli occhi; Sarah… aprili! Riesci a vedermi?»
Che domanda stupida! Ma dove mi trovo?
«La luce… spegnete questa luce, vi prego…»
«Ecco; così va meglio. Ne sei fortunatamente uscita e ora facciamo in modo da metterti più a tuo agio. Alziamo un po’ lo schienale del letto e
cerca di non dormire.»
«Le mie gambe… non riesco a muoverle…»
«Non ti preoccupare; è solo un effetto temporaneo dell’anestesia e fra non molto sparirà. Comunque non muoverti troppo; i punti ti potrebbero far male.»
«Punti? Le gambe… il braccio… cos’è? Dove sono?»
«Sei in ospedale, mia cara e ringrazia il Creatore di essere salva; poteva essere peggio e, se non fosse stata per la rapidità di quel soldato che ti ha trascinato via, quel carro armato ti avrebbe travolto e nelle migliori delle ipotesi, perso le gambe.»
Ecco i ricordi riaffacciarsi e vorrei scacciarli. Sarà il freddo di questa stanza ma non è la sola cosa che m’induce a tremare, senza controllo.
Sono terrorizzata e trovo inutili se non bugiarde le rassicurazioni dell’infermiera sugli ovvi effetti collaterali dell’anestesia. Il locale, a detta di lei, è caldo forse anche un po’ troppo ma il gelo che sento è intenso; anche le lenzuola mi sembrano bagnate e le immagini violente della battaglia, gli spari, le urla e le imprecazioni dei soldati e della gente impazzita dal terrore si sovrappongono al gelo del tessuto che mi avvolge, diventando tutt’uno… il freddo e la paura… la luce abbagliante della stanza e i lampi degli spari…; poi il sonno torna prepotentemente, invincibile ma con una forza caritatevole che m’induce a chiudere gli occhi.
È una liberazione e torno a dormire.
Prima settimana
Perché i miei genitori non sono qui?
Continuo a pormi la stessa domanda da giorni, ormai. Anche adesso, mentre rigiro il cucchiaio nella scodella, ancora colma di minestra appena sorseggiata e fissando le piccole stelline di pasta che sguazzano nel liquido ambrato, dando l’impressione di un rincorrersi senza fine, non riesco a pensare ad altro. Eppure li devono aver avvisati ma per motivi a me ignoti, nessuno si è ancora fatto vivo. È quasi pomeriggio, la fine delle visite di parenti, amici e di là dalla porta socchiusa colgo le loro voci un po’ festanti, i piagnucolii dei bambini e discorsi frammentati: "Ancora qualche giorno e torneai a casa… sai, tua cugina non smette di chiedere…" e altro ancora, chiacchierii di cui non m’importa un gran che, ma cui sentirò la mancanza fra qualche minuto, quando tutti torneranno alle loro case. Poi il silenzio, rotto da passi svelti oppure i cigolii delle ruote di qualche carrello o lo scampanellio di un degente che desidera dell’acqua per ristorarsi o la padella, piccoli rumori che proseguiranno ininterrottamente per tutta la notte.
«Sarah! Non hai ancora toccato niente, neppure l’altro piatto.»
Sembra comparsa dal nulla o forse ero così sprofondata nei miei pensieri che non ho nemmeno visto la porta aprirsi; la stessa infermiera cui ricordo il suo sonoro ceffone, il primo giorno per svegliarmi dal torpore dell’anestesia. L’ho odiata quel giorno per poi pentirmene amaramente; d’altronde i suoi modi rudi facevano parte di un copione comune a tutti gli infermieri e medici. Era ovvio, dovevano svegliarmi. In seguito ne apprezzai i modi cordiali, quasi materni come adesso mentre guarda sconcertata quei piatti ancora colmi, preoccupata sinceramente per la mia salute. Dvorak, o Deborah tradotto tra i Gentili, ma io preferisco chiamarla Debby, in termine amichevole, forse un po’ americaneggiante ma di uso comune tra noi giovani.
«Non hai mangiato niente anche oggi. Come pensi di ristabilirti? Digiunando?»
«Non ho fame.»
«Devi sforzarti, altrimenti…»
«Non si è fatto sentire nessuno.»
Le ultime parole le ho pronunciate così, di getto, fissando il vuoto oltre la sponda del letto e lei si è ammutolita. Con la coda dell’occhio la intravedo passarsi una mano fra i capelli, afferrare frettolosamente il vassoio per poi guardarsi attorno, indecisa dove porre quelle stoviglie con il loro inutile contenuto, oramai freddo; poi, accompagnandolo da un sospiro, tenta un mesto tentativo di rassicurarmi:
«Devi avere pazienza; vedrai che arriveranno… presto. Al momento devi solo pensare di ristabilirti, nutrendoti adeguatamente. Sei sotto peso e non toccare cibo non ti aiuterà certamente.»
«Non è da loro! Sono certa che qualcuno gli impedisca di avvicinarmi. Mia madre poi è sempre stata protettiva, oltre i suoi normali doveri. Ha sempre avuto paura di tutto, anche farmi attraversare la strada da sola. Lo so; non dovrei parlare così di lei. È una donna perennemente sommersa da timori spesso incomprensibili, un’ansia trasmessa da sua madre, la mia povera nonna, deportata dai nazisti in quel campo di concentramento, dove non rivide più i suoi genitori; era ancora una ragazzina…»
Mi rendo conto che non mi ascolta o forse sta pensando a come rispondermi e in che modo; colgo un farfugliare sottovoce, qualcosa di cui
mi sfugge il significato tranne un mozzicone di frase, pari a una bestemmia: "Per Yahweh!. Quel nome noi non lo pronunciamo mai; detto da lei, una donna così cara, dolce e materna, mi sorprende e forse non dovrei essere colta da tale sconcerto. Yahweh è il nome di Dio secondo la nostra cultura ed evitiamo di pronunciarla, seguendo i dogmi della Sacra Scrittura:
Non pronunciare il nome di Dio invano…". Al massimo e sempre con il dovuto rispetto, evitando di scandirlo alla fine di ogni discorso neppure fosse un banale epiteto, come una sterile e scurrile parolaccia, diciamo: Adonai… Maestro.
«Cosa mi nascondi? Ti prego, non te ne andare.»
«Ho detto che devi avere pazienza!»
Sembra scocciata, infuriata e quasi sbattendo il vassoio sul tavolo si precipita verso di me. Che cosa vorrebbe fare? Sgridarmi o addirittura colpirmi, come il primo giorno ma stavolta per farmi stare zitta? È così vicina e collerica che alzo la mano per difendermi ma le sue parole, appena sussurrate, mi colpiscono più di un pugno allo stomaco:
«C’è sempre un soldato di guardia fuori dalla porta e potrebbe sentirci.»
«Come…?»
«Ma cosa ti aspettavi? Non sei stata soccorsa gratuitamente o per compassione; qualcuno ti ha strattonato prima che quel carro armato ti travolgesse perché ti ha riconosciuto, non so come, per un’Israeliana.
Cosa damine ci facevi oltre il confine in zona di operazione di guerra?»
«Io… io… ero la per caso; volevo vedere…»
«Ma… che cosa? Insomma mia cara, sai bene come la pensano "gli altri". In quelle zone ci odiano e se qualche terrorista ti trovava, non avrebbe esitato di rapiti… o peggio.»
«Non c’era nessun terrorista… io…»
Non riesco a proseguire e le parole che vorrei dire sono represse da un pianto singhiozzante, un’irrefrenabile ansia; è