Il terzo suono di Tartini: Cinque storie
By sallievi
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Il terzo suono di Tartini - sallievi
Ratti
1. Il bestemmiatore polifonico
La rabbia gli era salita violenta ed opaca. Neppure la paura della morte, in questi momenti, gli segnalava i limiti oltre cui non sarebbe stato salutare spingersi.
Il panino era rimasto nel palmo della mano sinistra, come la mela di Adamo, il braccio teso in offerta o in pugno. Dimentico. Solo ogni tanto attingeva alla mollica con gesto svogliato e infantile. Si regrediva. Con l’età si regrediva. Aveva smesso di raccontarlo sorridendo il giorno in cui se ne era davvero reso conto. Poche briciole tra l’indice e il pollice. Poca fame. Molti pensieri. Come il mondo nel palmo del bambingesù. Chissà perché gli venivano in mente questi dettagli. All’improvviso il ricordarsi di quale chiesa e di quale prete erano più importanti di tutto il resto. Difesa del corpo. Chissà con che cosa aveva pagato la mente per quest’incarico. Si assecondavano a vicenda, di questo ne era certo. Altrimenti non sarebbe arrivato alla sua età. Senza neppure che gli si cedesse il posto in metropolitana. Ma Milano era troppo piena di gente perché se ne scorgessero i tratti.
La vecchiaia. E chi mai sapeva più che cos’era. Sparivano gli anziani, da quel fremito della vita troppo travolgente per chi comincia ad apprezzare il ritmo lento dei giorni lunghi. Chi si avventurava più. Meglio il cammino. La mente e il corpo. Sempre d’accordo alle sue spalle. Incarico per incarico favore per favore. Così che anche adesso, invece di gustarsi la propria ira, si trovava a pensare ad un bambingesù kitsch chissà dove e chissà quando.
Anche l’ultima volta che lo aveva assalito l’accesso di ira si era poi trovato occupato a pensare ad una chiesa. Proprio lui che aveva fatto della bestemmia un’arte poetica. Poco ci voleva, naturalmente, per un uomo come lui dotato di musicalità innata e di senso muscolare. Sì, l’una non era pensabile avulsa dall’altra. La musicalità andava espressa, e cosa meglio della parola, e cosa naturalmente migliore di una muscolatura perfetta e perfettamente guidata alla corposità del fiato, e cosa, infine, meglio della bestemmia, che riempie l’odio di consonanti e fa dell’aggressione l’arte suprema del nulla. Uccidere col fiato: Vittorio si rilassò impercettibilmente, mentre la mano destra restava a mezz’aria e un sorriso bagnato gli tagliava in due il viso scarno. La bestemmia. Pura espressione di un odio metafisico e irraggiungibile. Prova ne era l'antica condanna affissa a tutte le vetrine dei negozi ed uffici pubblici: vietato bestemmiare. Già, ma ad essere precisi, il cartello recitava vietato sputare e bestemmiare, come se una cosa non fosse possibile senza l’altra, come se entrambe fossero legate da un mistero sfuggente e per questo pauroso. Nella saliva e nel fiato, le mille forme del diavolo, le mille astuzie del male. Che schifo. Lo sputo e la bestemmia. Ma cosa ne sapevano loro, della meravigliosa collaborazione tra bocca e bestemmia, tra fiato e parola, tra erre blasfeme ed a di espirazione.
Il braccio di Vittorio si rilassò, mentre la mano stringeva più morbidamente la michetta all’olio.
Nomen est omen, Vittorio Luigi Spergiura non aveva fatto nient’altro che assecondare il proprio. Era come se il suo nome gli avesse indicato le consonanti migliori per la bestemmia più perfetta. Nessuno capiva però come mai, nonostante denunce, minacce, allontanamenti forzati e tentativi di remissione, egli frequentasse con così tanta insistenza le chiese. Ad esporre i propri stringenti argomenti, l’interlocutore credente veniva scosso dalla paura, rasentando forse il dubbio si rifiutava di capire. Così aveva finito con il parlare da solo. Con il proprio interlocutore, il giocatore di scacchi del mercoledì. Che però neppure capiva, anche se agli scacchi vinceva sempre. Immancabilmente. Ogni mercoledì. Vittorio già lo sapeva, e ogni settimana, si diceva, questa è l’ultima. Ma poi arrivava la settimana seguente, era di nuovo mercoledì, e allora spianava nella propria mente i quadri bianchi e neri e gli dava la prima mossa. Quella del vincente.
Come se dio fosse diventato quello che era se non avesse avuto l’insulto, la bestemmia e la percossa. Roba da pazzi, non capire queste cose. Se cristo fosse diventato un falegname benvoluto, benascoltato, accettato e addirittura famoso nella zona per i suoi tavoli cesellati, certo non avrebbe avuto la risonanza che poi si sa che ebbe. Certo, il vicinato lo avrebbe ascoltato, e forse si sarebbe fatto un nome come artigiano in qualche palazzo dell’epoca. Ma per tutto il resto aveva avuto bisogno della parola. Di quella buona ma anche e soprattutto di quella cattiva, audace, zeppa di consonanti e di sputo.
Niente. Non c’era niente da fare. Lui, agli scacchi, perdeva sempre. E allora, tanto per rimarcare i confini delle competenze, cominciava il proprio appassionato monologo sulla bestemmia e dio, e, già lo sapeva, il suo interlocutore non aveva nessuna possibilità di rivincita. Così, riconciliato con il fatto di perdere sempre, si allontanava verso il prossimo mercoledì da perdente, con tutti i suoi argomenti che lo accompagnavano allegri. Ma ecco che poi la desolata realtà della perdita agli scacchi si rifaceva viva, e la divisione delle competenze già non lo tranquillizzava più, così che giurava, nei suoi eccessi d’ira, mai più, mai più con lui.
Perdeva a scacchi già da 24 anni, tutti i mercoledì. Era ora che smettesse. Ma il richiamo dell’altra competenza, che si alternava in questa lotta furibonda e silenziosa, lo convinceva che certo, perdere agli scacchi e sempre con mosse che avrebbe potuto prevedere, era uno smacco, ma non avere argomenti da 24 anni su un tema così centrale della nostra cultura, era davvero una sconfitta.
Di nuovo calmo si portò un briciolo di mollica grigina e tiepida alla bocca, mentre la pupilla di sinistra credette di registrare il giocatore. Era mercoledì. Un mercoledì di novembre. Forse l’otto, forse il nove. Vittorio Luigi Spergiura girò allora la testa, stese la tavola e mise i pezzi, consunti da tante partite, uno a uno al loro posto. La regina brillava ancora della lacca antica, e quel luccichio gli bruciava più di ogni altra sconfitta: prima ancora che potesse afferrare la dama tra le sue mani lussuriose, ne era già stato designato il destino. Era l’offesa settimanale, il riscatto negatogli, in una vita in cui Vittorio Luigi Spergiura, bestemmiatore di prima qualità e di innegato talento, non era mai più riuscito a conquistare una donna al punto da farsene amare con passione. Dopo Liliana. Liliana Kulikova, la russa che aveva conosciuto prima della guerra e che aveva rincontrato una volta al mercato rionale, una donna bellissima e fantasiosa che lo aveva amato, stando a quello che di questo amore aveva fatto, con prorompenza e dedizione.
Ma c’era stato quel problema.
Non erano bei tempi. Per una russa, poi, anche se sposata bene e che parlava un italiano talmente perfetto da inibire persino lui, che già da allora aveva fatto dell’eloquio la bandiera delle consonanti blasfeme. Però c’era un fatto che, ripetiamo, sembrò passare in secondo piano, nella turbolenza di quei tempi, ma che fu per lui ancora più determinante del fatto che Liliana fosse sposata. Un marito militare sarebbe senz’altro potuto morire in guerra. No, non fu quello né nessuno degli altri eventi spiacevoli di quei tempi. Era stato invece un fatto linguistico a separarli. Il fatto che a Vittorio, quel nome, Liliana, e poi ancora Kulikova, irritava. Fosse stato qualcosa, un dettaglio nella bellezza della donna, tra l’altro perfetta, che lo avesse irritato. Avesse avuto una voce maligna o nasale, e la sua era peraltro bellissima e pastosa, avrebbe potuto zittirla, una volta per sempre: alla passione degli altri si può comandare e ingiungere, quando non si può fare lo stesso alla propria. Ma il nome, il nome no. Gli altri l’avrebbero sempre chiamata Liliana, alcuni osavano addirittura con Lilli, un nome a quei tempi certamente di moda, e vedere la sgraziatura delle elle su intestazioni, lettere, portaocchiali, o rispondere al telefono a qualcuno che avrebbe chiesto di lei, Liliana Kulikova. No. Non aveva resistito. Alla bruttezza ed indecenza di quella consonante di sfroso che era la liquida più orrenda dell’alfabeto, aveva detto no. E si era così giocato la donna, l’unica donna che mai lo avesse amato con una passione che si facesse comandare. Quelle elle. Misteriose e paurose come le gambe bellissime e morbide della russa. E quel cappa ingannevole, a mezzo tra la gola e il bacio aperto, tra quella spalancatura di aste e il civettuolo del ci acca.
Non che a Vittorio fosse mai venuto un rimpianto. Solo che ogni tanto, con la vecchiaia, un qualche dubbio sbarazzino gli sembrava mettesse una pulce, certamente inesatta, nell’orecchio.
Liliana. Non era solo questo, naturalmente. Avrebbe potuto chiamarsi Liliana Katarina. Ma si chiamava Galina, come secondo nome, un’offesa alla musica ed alla ragione. Liliana Galina. Così un bel giorno le aveva detto basta. E anche allora aveva avuto la sensazione di uscire vincente con le proprie argomentazioni perché incomprensibili all’interlocutore. Ma anche questo dubbio, da qualche tempo, sminuiva un poco il sapore della vincita d’eloquio contro il giocatore di scacchi. E Vittorio, che ben sapeva come con l’età ci si mentisse sempre di meno e ci si capisse sempre di più, aveva finito con il firmarsi per intero: Vittorio Luigi Spergiura. Con quel Luigi che era stata la vergogna della sua gioventù.
Era stata la madre. Una meridionale sanguigna e piccola, con nelle dita delle mani la forza potente dei pianisti e nella gola la irrefrenabile energia vocale della cantante. Virginia Speranza non era né cantante né pianista. Si potrebbe dire naturalmente, dato che la musica, e Vittorio era stato un caso
unico tra gli Spergiura, era bandita da generazioni dalla famiglia come dannosa alla formazione del carattere dei componenti più giovani. Persino il nonno, alpino friulano decorato al valore, si conteneva, cantando i suoi canti cadenzati e rimanti soltanto tra lo scroscio del getto d'acqua. Né cantante né pianista. Ma con una potenza vocale e una espressività drammatica per le cerimonie religiose e per le preghiere serali. Certo, quello non era canto, non era musica, era preghiera. A squarciagola. E le sue dita si erano allungate nel gesto dell’osanna. E la bocca si era allargata nelle a di madonna stendi il manto. L’orrore delle o sguaiate sommerse da quella parola, santo, ripetuta cento volte tra le esse numerevoli provenienti da tutte le regioni di Italia.
Bene assortita. Una famiglia bene assortita. Così si spiegava la bellezza procace e appariscente delle sue donne: il miscuglio dei sanguini, diceva il padre. Piacentino appassionato di Sangiovese. E così, sanluigi di qua e sanluigi di là, alla fine Vittorio se l’era beccata lui, l’unica elle della famiglia. Un nome orribile che, a sentire Speranza, gli aveva salvato la vita prima che nascesse. Una grazia o disgrazia che così gli toccava pure di ringraziare.
Soffocato in quella elle slanciata male, che sembrava volesse prendere il volo senza riuscirci, c’era ora il rimpianto della bella russa. Intravista ancora dopo la guerra al mercato rionale, tra le ultime angurie della padana tenute in serbo e le primissime uve nostrane dei pergolati piacentini. Liliana. Con i polpacci di zucca, dolci e giallognoli, e le guance che sembravano doversi spaccare a momenti, come fichi maturi gonfi d’acqua e di vespe. Certo. Non fosse stato che per il nome.
Vittorio l’aveva incontrata che non aveva ancora vent’anni e lavorava come aiuto tipografo. Lei era già sulla trentina, e abitava all’ultimo piano di un palazzo fin di siècle, una terrazza di morbido cemento da cui cadevano cascate di nasturzi e rami di oleandri. La vertigine. Gli dava la vertigine. Era più alta di lui, aveva il passo più lungo del suo, lui lavorava agli inferi di un sotterraneo, le mani sempre nere e la barba lunga sulle guance rosso cupo di collerico di pelle scura. Lei sembrava fatta di marzapane. Con le sottane fruscianti di raso e taffettà, attaccate ai movimenti di quelle gambe a elle. I piedi come radici grandissime, le braccia lunghe e grosse fatte di