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Il Ladro che Beveva Rye: Bernie Rhodenbarr, #9
Il Ladro che Beveva Rye: Bernie Rhodenbarr, #9
Il Ladro che Beveva Rye: Bernie Rhodenbarr, #9
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Il Ladro che Beveva Rye: Bernie Rhodenbarr, #9

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About this ebook

Dalla sua prima comparsa nel 1977, Bernie Rhodenbarr si è guadagnato la crescente simpatia di un pubblico internazionale. Questo personaggio, scanzonato e dalle mani leste, i cui talenti come investigatore riescono a tirarlo fuori dai guai in cui lo hanno messo le sue abilità di ladro, conquista il cuore e la mente dei lettori romanzo dopo romanzo.
Il Ladro che beveva Rye è la sua nona avventura.

Il romanzo di Gulliver Fairborn, Il Figlio di Nessuno, aveva cambiato la vita di Bernie Rhodenbarr. Ma adesso la bella Alice Cottrell, che anni prima era stata l'amante di Fairborn, vuole che il nostro ladro - libraio e bibliofilo - penetri in una stanza del Paddington, incantevole albergo di New York, e che rubi delle lettere molto personali di quello scrittore prima che un'agente letteraria di pochi scrupoli possa venderle.
E' un'occasione per utilizzare le sue rare abilità al servizio dell'autore, tanto famoso quanto notoriamente geloso della propria privacy. Ma quando Bernie arriva, l'agente è morta... e Bernie è accusato di omicidio. (Lui odia quando questo capita!)
Forse è una vendetta della sorte: Bernie si era veramente appropriato di una collana di rubini mentre se ne andava. (Ma la collana era là, e lui è un ladro.) Adesso, però, è in una situazione anche peggiore, e dovrà usare ogni trucco possibile - forse perfino convincendo il solitario Fairborn a uscire dalla sua vita isolata - per arrivare a una conclusione soddisfacente di questa trama sempre più intricata.

LanguageItaliano
Release dateAug 1, 2018
ISBN9781540174666
Il Ladro che Beveva Rye: Bernie Rhodenbarr, #9
Author

Lawrence Block

Lawrence Block is one of the most widely recognized names in the mystery genre. He has been named a Grand Master of the Mystery Writers of America and is a four-time winner of the prestigious Edgar and Shamus Awards, as well as a recipient of prizes in France, Germany, and Japan. He received the Diamond Dagger from the British Crime Writers' Association—only the third American to be given this award. He is a prolific author, having written more than fifty books and numerous short stories, and is a devoted New Yorker and an enthusiastic global traveler.

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    Il Ladro che Beveva Rye - Lawrence Block

    UNO


    La hall era messa un po’ male a causa dell’usura. Il grande tappeto orientale aveva visto i suoi giorni migliori ormai molto tempo fa. I sedili dei due divani Lawson erano invitanti ma leggermente afflosciati e, come il resto dei mobili, dimostravano l’effetto del lungo utilizzo. In questo momento erano occupati; vi erano sedute due donne in animata conversazione, mentre a pochi metri di distanza, un uomo con una lunga faccia ovale e la fronte alta stava leggendo un numero di GQ. Portava un paio di occhiali da sole che lo rendevano elegante e sornione. Non so come rendessero la rivista. Scura, immagino.

    Anche se la hall poteva essere un poco a terra, l’impressione generale che dava non era tanto di decadimento, ma di comodità. Il fuoco che ardeva nel caminetto, gradevole a vedersi in una frizzante giornata di ottobre, poneva tutto nella miglior luce possibile. E, centrata sopra la mensola del camino, dipinta con un tal iper-realismo che si sarebbe voluto allungare una mano, prenderlo e abbracciarlo, vi era l’immagine di ciò che dava il nome all’albergo.

    Era un orso, naturalmente; ma non del tipo la cui predilezione per lasciare le proprie feci nei boschi è altrettanto proverbiale quanto il cattolicesimo del Santo Padre. Questo orso, lo si vedeva subito, non era mai stato in un bosco, e men che meno vi si era comportato in modo poco responsabile. Indossava una giacchetta rossa, in testa portava un cappello da pioggia floscio di color blu, e aveva i piedi infilati in un paio di allegri stivali di gomma color canarino. Era raffigurato su uno scaffale, tra una vecchia borsa da viaggio di pelle e un sacchetto di Harrods; un cartello sopra di lui annunciava Deposito bagagli e . . .

    Ma non serve che continui, vero? Se non avevate questo orsacchiotto, certamente conoscevate qualcuno che lo possedeva. Perché questo era l’Oracchiotto Paddington in carne e ossa, chi altri poteva essere? E chi meglio di lui poteva ornare la hall del leggendario Hotel Paddington?

    E leggendario era la parola giusta. Il Paddington, sette piani di mattoni rossi e ornamenti di ferro, sorge all’angolo tra Madison Avenue e la 25esima strada Est, di fronte a Madison Square e non lontano da dove era il Madison Square Garden di Stanford White. (Che era il secondo Madison Square Garden, e non il Garden n. 3, quello che ricordano i vostri genitori tra l’Ottava e la 15esima, o quello attuale, il Garden n. 4, sopra la Penn Station. Il Garden di White era un capolavoro di architettura, come lo era la Penn Station originale. Sic transit gloria . . . di quasi ogni maledetta cosa.)

    Ma non la gloria del Paddington, che era sorto prima del Garden ed era sopravvissuto a tutto. Costruito agli inizi del secolo, aveva visto rinnovarsi i suoi dintorni (e la città, e il mondo) continuamente nel corso degli anni. E tuttavia il vecchio hotel era rimasto sostanzialmente sempre lo stesso. Non era mai stato veramente di gran lusso; aveva sempre avuto più ospiti fissi che di passaggio, e fin dagli inizi aveva attirato personaggi del mondo dell’arte. Targhe di bronzo agli ingressi ricordavano alcuni dei più celebri inquilini del Paddington, tra i quali gli scrittori Stephen Crane e Theodore Dreiser, e l’attore shakespeariano Reginald French. John Steinbeck vi aveva soggiornato per un mese, durante un periodo di disarmonia coniugale; e Robert Henri, l’attore della Ashcan School, vi aveva vissuto prima di trasferirsi dalle parti di Gramercy Park, qualche isolato più in là, verso sud-est.

    Più recentemente, l’hotel aveva attirato delle Rock Star inglesi, che sembravano meno inclini a distruggere le stanze qua che non in altri hotel americani – vuoi per rispetto delle sue tradizioni, vuoi perché pensavano che il danno fatto da loro sarebbe potuto passare inosservato. Due di essi erano morti nell’edificio: uno assassinato da uno sbandato che si era portato in camera; l’altro, più convenzionalmente, per un’overdose di eroina.

    Anche la musica classica era rappresentata, da almeno due degli ospiti fissi e da occasionali artisti in tournée. Un pianista ottantenne, Alfred Hertel, il cui concerto di Natale faceva ogni anno il tutto esaurito alla Carneige Hall, aveva occupato un appartamento all’ultimo piano per oltre quaranta anni. Sull’altro lato dello stesso piano viveva l’attempata diva Sonia Brigandi, il cui carattere leggendario era sopravvissuto al declino della sua leggendaria voce di soprano. Ogni tanto uno dei due, o entrambi, lasciavano la porta aperta e uno suonava qualcosa di Puccini, Verdi o Wagner, mentre l’altra cantava, per la gioia (o la noia) degli altri ospiti.

    Al di là di quello, non si parlavano. Le dicerie abbondavano – che avevano avuto una storia d’amore, o che erano stati rivali a causa di un altro ospite. Si diceva che lui fosse gay, benché fosse stato sposato due volte e avesse figli e nipoti. Lei non si era mai sposata, e si diceva che avesse avuto amanti di entrambi i sessi. E tutti e due sarebbero andati a letto con Edgar Lee Horvath, che non aveva mai dormito con nessuno. Tranne che i suoi orsi, ovviamente.

    Era stato Horvath, il fondatore del Realismo Pop, a dipingere l’Orsacchiotto Paddington sopra il caminetto della hall. Aveva preso possesso di alcune stanze dell’albergo negli anni Sessanta, poco dopo il successo della sua mostra personale, e vi ci era vissuto fino alla morte, nel 1979. Il dipinto era stato un regalo per l’hotel fatto nei primi anni in cui vi soggiornava, e con il forte aumento di valore delle opere di Horvath dopo la sua morte ora valeva probabilmente circa un milione di dollari. Ed era là, appeso davanti a me in piena vista, in una hall praticamente senza sorveglianza.

    Ma naturalmente solo un pazzo avrebbe potuto rubarlo. Edgar Horvath aveva dipinto tutta una serie di orsacchiotti, dalle prime creazioni di Stieff, un po’ spelacchiate, ai moderni pupazzi di peluche; uno di essi, di qualche foggia, era sempre presente nei suoi ritratti, paesaggi, o interni. I suoi paesaggi di deserti, dipinti durante un breve soggiorno a Taos, hanno orsetti distesi alla base di un enorme cactus, o a cavalcioni di una staccionata, o appoggiati a un muro di mattoni.

    Ma per quanto se ne sapesse, aveva ritratto il Paddington solo una volta. E il dipinto era notoriamente appeso nella notoriamente vecchiotta lobby dell’hotel. Era lì, pronto a essere preso, ma poi? Se lo si rubava, come e a chi lo si sarebbe rivenduto?

    Sapevo tutto ciò. Ma le abitudini sono dure a morire, e non sono mai riuscito a guardare qualcosa di grande valore senza tentare di immaginare un modo per metterlo in salvo dalle mani del legittimo proprietario. Il dipinto aveva una pesante cornice di legno dorato, e io valutai se sarebbe stato meglio tagliare la tela dalla cornice, o portarselo via, cornice e tutto.

    Ero intento a immaginare un furto aggravato quando l’impiegato al bancone mi chiese se poteva essermi utile.

    Scusate, dissi. Stavo guardando il quadro.

    La nostra mascotte, disse. Era un uomo sui cinquanta, che indossava una camicia di seta verde scuro col colletto aperto e una cravatta a stringa con un fermaglio di turchese. I capelli erano del nero che danno le lozioni Just for Men, e le basette erano più lunghe di quanto avrebbe consigliato la moda. Era ben rasato, ma sembrava gli mancassero dei baffi, che sarebbero dovuti essere impomatati.

    L’ha dipinta il povero Eddie Horvath, disse. La sua morte fu una grande perdita, e così ironica.

    Morì in un ristorante, vero?

    Proprio qua all’angolo. Eddie seguiva la peggior dieta possibile: viveva di hamburger, Coca Cola e cupcakes Hostess. Poi un qualche medico lo convinse a cambiare, e da un giorno all’altro divenne un fanatico dell’alimentazione sana.

    E non gli faceva bene?

    Io non notai alcuna differenza, disse, "tranne che era un po’ fissato sulla cosa, come succede ai convertiti nei primi tempi. Sono certo che gli sarebbe passata, ma non ne ebbe la possibilità. Morì a tavola, soffocato da un pezzetto di tofu."

    Terribile.

    Terribile da mangiare, disse. E tremendo dovere morire a causa sua. Ma il quadro di Eddie ci ha collegati per sempre all’Orsacchiotto Paddington, al punto che si crede che l’hotel abbia preso il nome da lui.

    Invece, l’albergo c’era già prima, vero?

    Da un bel po’ di anni. Il libro di Michael Bond sul nostro orsacchiotto nel deposito bagagli non ha più di trent’anni, mentre l’albergo risale ai primi del secolo. Non sono sicuro se prendemmo il nome dalla Stazione di Paddington o dal quartiere attorno. Che non è il migliore del mondo, devo dire, ma nemmeno tra i peggiori. Alberghi economici e ristoranti cinesi. Molti irlandesi cercavano stanze qua attorno, appena scesi dal treno che arrivava alla stazione di Paddington. C’era anche una fermata della metropolitana qua, ma non posso credere che l’hotel abbia preso il nome da essa.

    Certamente no.

    E certamente siete davvero gentile ad avermi lasciato chiacchierare così. Ditemi, posso servirvi?

    Le chiacchiere, notai, avevano cambiato il suo accento, che aveva assunto un’intonazione leggermente inglese. Gli dissi che avevo una prenotazione, e lui chiese il mio nome.

    Peter Jeffries, dissi.

    Jeffries, disse, scorrendo un pacchettino di schede. Non mi pare che . . . oh, santo cielo. Qualcuno lo ha scritto come Jeffrey Peters.

    Dissi che era un errore comprensibile, essendo abbastanza certo, mentre lo dicevo, che l’errore fosse mio. In qualche modo ero riuscito a scombinare il mio stesso pseudonimo. Invertire il nome e il cognome è una conseguenza probabile se si sceglie uno pseudonimo che consiste di due nomi propri; che è qualcosa che i dilettanti tendono a fare spesso. E ciò era più sconfortante dell’errore stesso. Non ero forse un professionista? Dove sarei finito se cominciavo a comportarmi da dilettante?

    Compilai la scheda – un indirizzo di San Francisco, data di partenza dopo tre giorni – e dissi che avrei pagato in contanti. Tre notti a 155 dollari per notte, più le tasse, più un deposito per il telefono fecero circa 575 dollari. Contai sei biglietti da cento; il tizio si passò un dito sul labbro superiore, lisciando i baffi che non aveva, e mi chiese se volessi un orso.

    Un orso?

    Indicò tre Orsacchiotti Paddington che stavano sopra uno schedario e che erano identici a quello sopra il caminetto. Vi sembrerà incredibile; disse, ormai senza accento inglese, e forse è vero. È cominciato dopo che il quadro di Eddie diede nuova notorietà al nostro hotel. Sapete, lui collezionava orsacchiotti; e quando morì la sua collezione fu venduta per cifre folli da Sotheby’s. Avere il pedigree della Collezione Horvath vale per un orsacchiotto quello che valgono, per una collana di perle coltivate, alcune ore al collo di Jacqueline Onassis.

    E quegli orsi erano i suoi?

    Oh, no, no, purtroppo. Sono i nostri, comperati dalla direzione presso qualche produttore, non saprei bene quale. Se un ospite vuole, può avere la compagnia di un orsacchiotto durante il suo soggiorno. Non c’è alcun sovrapprezzo.

    Veramente?

    Non dovete pensare che sia tutta generosità da parte nostra. Un numero sorprendentemente grande di clienti decidono che preferiscono portarsi a casa Paddington invece di farsi restituire il deposito. Certo, non tutti si portano su in camera un orsacchiotto, ma tra quelli che lo fanno, pochi ci vogliono poi rinunciare.

    Lasciatemi l’orsacchiotto, dissi sconsideratamente.

    Allora mi dovete lasciare una cauzione di cinquanta dollari, che vi restituiremo con piacere alla partenza, a meno che decidiate di restare per sempre insieme.

    Contai qualche altra banconota, lui mi scrisse una ricevuta e mi diede la chiave della stanza 415. Poi radunò i tre orsacchiotti e mi invitò a sceglierne uno.

    A me sembravano tutti uguali, per cui feci ciò che faccio in casi simili. Presi quello a sinistra.

    Ottima scelta, disse, come un cameriere quando ordinate la costata di agnello con patate novelle. Mi chiedo sempre, quali sarebbero le scelte non buone? Se non sono buone, perché stanno sul menu?

    Che simpatico, iniziai a dire; ma a metà della frase il simpatico animale mi scivolò di mano e cadde sul pavimento. Mi chinai, rialzandomi con il peluche in una mano e una busta viola nell’altra. ANTHEA LANDAU è ciò che vi era scritto in stampatello, e null’altro. Era per terra, dissi all’impiegato. Devo averci messo sopra un piede.

    Lui fece una piccola smorfia, poi prese un Kleenex da una scatola che era sul ripiano dietro il bancone e strofinò l’impronta che la mia scarpa aveva lasciato. Qualcuno la deve avere lasciata sul banco, disse sfregando con impegno, e qualcun altro deve averla fatta cadere. Poco male.

    Paddington sembra essere sopravvissuto.

    Oh, lui è uno resistente, disse. Ma devo dire che mi avete sorpreso. Non pensavo che avreste voluto l’orso. È un giochetto che faccio con me stesso, cercare di indovinare chi lo vorrà e chi no; ma dovrei smettere, perché non sono bravo. Chiunque potrebbe tenerlo o non tenerlo. Gli uomini in viaggio d’affari sono quelli meno probabili, ma vi potrebbero sorprendere. C’è un signore di Chicago che viene qua due volte al mese, ogni volta per quattro giorni. Prende sempre l’orsacchiotto, ma non se lo porta mai a casa. E nemmeno gli importa che sia uguale ogni volta. Non sono identici, sapete. Hanno grandezze diverse, come pure il colore dei cappelli, delle giacche e degli stivali. Gli stivali di solito sono neri, ma nel quadro sono gialli.

    Ho notato.

    I turisti tendono a prenderlo, e lo vogliono tenere come ricordo. Specialmente le coppie in luna di miele. Tranne una coppia . . . la donna voleva portarsi via il Paddington, il marito rivoleva il deposito. Non ho molte speranze per quel matrimonio.

    Poi tennero l’orso?

    Sì, e probabilmente lui finirà col litigare con lei per l’affidamento quando divorzieranno. Ma per la maggioranza delle coppie, non è un problema. Vogliono l’orso. Gli europei, tranne gli inglesi, di solito non lo portano nemmeno in camera. Invece i giapponesi sempre, a volte anche più di uno, e pagano e se li portano sempre a casa.

    E gli fanno delle foto, azzardai.

    Oh, non ne avete idea! Foto a loro, con l’orsacchiotto in braccio. Foto a me, con o senza orso. Foto di loro con l’orso, in strada davanti all’albergo, e davanti al quadro del povero Eddie, e nelle loro stanze, e davanti alle stanze dove è vissuto o morto qualche nostro ospite famoso. Che cosa pensate che se ne facciano di tutte quelle foto? Quando troveranno il tempo di guardarle?

    Magari nella macchina fotografica non hanno la pellicola.

    Eh, Mr. Peters! disse. Che mente subdola avete.

    Non ne aveva idea.

    Orso o non orso, la stanza 415 non sembrava valere 155 dollari (più tasse) a notte. La moquette marrone era consunta, il cassettone segnato qua e là da bruciature di sigarette dimenticate, e la sola finestra dava su un cavedio di aerazione. La stanza era così piccola che, come direbbero i comici del Friars Club, si doveva uscire in corridoio se si doveva cambiare idea.

    Ma non mi ero atteso nulla di diverso. Il Paddington era un affare per gli ospiti fissi, che per uno spazioso appartamento con una stanza da letto pagavano per un mese meno di quanto pagasse un ospite occasionale per una settimana in una stanza come la mia. Immagino che vi fosse un vantaggio reciproco; gli occasionali pagavano più del giusto per godersi il fascino del posto tra pittori, scrittori e musicisti, e così sovvenzionavano gli artisti che ci stavano tutto l’anno e fornivano quel fascino.

    Non ero ben sicuro di come l’animaletto col cappello floscio entrasse in questi calcoli. Simpatico o carino, come preferite, aveva certo senso dal punto di vista del marketing, dando all’hotel un volto umano (be’, orsino) e rappresentando di per sé una piccola fonte di guadagno. Se la metà degli ospiti prendeva l’orso, e di questi la metà decideva che non se ne voleva separare, e se il guadagno per ogni peluche era almeno del cinquanta per cento, be’, alla fine dell’anno faceva abbastanza da pagarsi la bolletta della luce, o almeno una buona parte di essa. Abbastanza, come minimo, per renderla un’operazione in attivo.

    C’era una mensola sopra un caminetto, che da tempo era stato chiuso con mattoni e intonacato, e fu lì che appoggiai Paddington, in modo che potesse guardarsi bene attorno ed essere certo che fosse tutto a posto. Ti lascerei guardare dalla finestra, gli dissi, ma non c’è nulla da vedere. Solo un muro di mattoni, e un’altra finestra con le tende tirate. E forse non è una cattiva idea, tirare le tende. Che ne pensi?

    Non rispose. Tirai le tende, gettai la mia valigetta sul letto, feci scattare le serrature e la aprii. Misi camicie, calzini e biancheria in un cassetto, appesi i pantaloni nel piccolo armadio, chiusi la valigetta e la appoggiai al muro.

    Guardai l’orologio. Era ora di andarmene. Avevo qualcosa da fare.

    Salutai l’orsetto, che prestò la stessa attenzione del mio gatto, quando lo saluto. Chiusi la porta fino a fare scattare lo scrocco, ma diedi anche due mandate con la chiave prima di prendere l’ascensore per l’atrio.

    Le due donne avevano finito di discutere, o erano andate a farlo da qualche altra parte. Il tizio con la faccia lunga, la fronte alta e gli occhiale da sole di tartaruga aveva posato GQ e stava leggendo un tascabile. Mi avvicinai al banco e vi depositai la chiave. Era una vera chiave di metallo, non una scheda elettronica come quelle degli alberghi più recenti, e aveva attaccato un pesante ciondolo di ottone, progettato per punirvi, se uscivate con la chiave, scavandovi un buco nella tasca. La lasciai con piacere, felice di avere una scusa per avvicinarmi al banco e dare un’occhiata alle tre file di caselle corrispondenti alle stanze degli ospiti.

    La busta viola che avevo trovato per terra era nella casella 602.

    Misi giù la chiave, rivolsi un cenno e un sorriso al tizio con i capelli troppo neri, e vidi un gentiluomo di mezza età, alto e snello, che entrava nell’atrio dalla strada. Sembrava uscito dalle pagine di GQ, che stava leggendo il tizio con la faccia lunga. Indossava una giacca e dei pantaloni sportivi di ottimo taglio, ed era in compagnia di una donna molto più giovane.

    I nostri sguardi si incrociarono. I suoi occhi si aprirono quando mi riconobbe. Non potevo vedere i miei, ma penso che avessero fatto la stessa cosa. Riconobbi lui, come lui aveva chiaramente riconosciuto me. E facemmo ciò che fanno due gentiluomini quando si incontrano nella lobby di un albergo. Ci passammo di fianco senza dire una parola.

    DUE


    Il mio negozio è il Barnegat Books, una libreria antiquaria nella 11esima Est tra University Place e Broaway. Il Paddington è quattordici isolati verso nord, a Manhattan gli isolati in direzione nord-sud sono dieci al chilometro, e lascio fare i calcoli a voi. Volevo aprire alle due, come promette il cartello sulla mia porta, ma qualche minuto prima o dopo era lo stesso, ed era una giornata troppo bella per prendere il metro o un taxi. Ero arrivato in taxi, con la valigia, ma potevo tornare a piedi, ed è quello che feci.

    Tagliai per Madison Square, porgendo i miei omaggi alla statua di Chester Alan Arthur, ventunesimo Presidente degli Stati Uniti, uomo con ancora più nomi di Jeffrey Peters. Proseguii per Broadway, tentando di ricordare che cosa sapessi di Chester Alan Arthur e, una volta aperto il negozio e portato fuori il tavolo delle occasioni (3 per 5 $, a scelta), frugai tra i miei scaffali fino a trovare la Vita dei Presidenti, di William Fortescue. Era stato pubblicato nel 1925 e arrivava fino a Warren Gamaliel Harding (un nome, un cognome, e un secondo nome che era in pratica una scelta a caso). Il libro era stato evidentemente scritto per dei ragazzi, anche se non riuscivo a pensare che molti adolescenti ora spegnerebbero MTV per vedere che cosa Fortescue avesse da dire su Franklin Pierce e Rutherford Birchard Hayes (che, noterete, non vantava alcun nome proprio).

    Il volume di Fortescue era da lungo tempo nel Barnegat Books, essendo compreso nel lotto di libri originale quando comperai il negozio da Mr. Litzauer, anni fa. Nemmeno mi aspettavo di venderlo presto, ma ciò non voleva dire che sarebbe finito sul tavolo delle occasioni. Era un volume di pregio, del tipo che vi piace avere in un negozio di libri, e non era questa la prima volta che lo consultavo. Fortescue mi aveva informato qualche mese addietro su Zachary Taylor, benché non ricordi molto di quello che lessi, né perché mi interessasse. Però era servito allora – Fortescue, non Taylor, intendo – e mi serviva adesso.

    Tenni il libro sul banco, leggendolo durante i momenti di morta, dei quali vi è abbondanza nella vita di un libraio antiquario. Però nel pomeriggio ebbi un po’ di traffico, ed effettuai qualche acquisto e qualche vendita. Una cliente abituale trovò dei polizieschi che non aveva letto, oltre a un Fredric Brown fuori stampa che pensava di avere letto, ma che avrebbe riletto volentieri. Avevo avuto lo stesso pensiero, e mi spiacque vedere che il libro se ne andava prima che potessi dargli un’occhiata, ma questo fa parte del gioco.

    Un signore robusto con grossi baffi passò molto tempo a sfogliare un’edizione in sei volumi, legatura mezza pelle, della Storia Britannica prima della Conquista Normanna, di Oman. Era segnato a 125 dollari, e forse avrei fatto un certo sconto, ma non troppo grande.

    Tornerò, disse infine, e uscì. Forse lo avrebbe fatto, ma non ci contavo. I clienti (o meglio, i non-clienti) usano quella battuta finale, rivolgendola ai negozianti come gli uomini dicono alle donne Ti telefonerò. Forse lo faranno, forse anche no, e non vale la pena di stare ad aspettare accanto al telefono.

    Il cliente successivo portò dentro un libro dal tavolo delle occasioni, pagò i suoi due dollari, e chiese se poteva curiosare per un po’. Gli dissi di fare pure, ma che era un passatempo rischioso. Non si sa mai quando si trova qualcosa che si deve comperare ad ogni costo.

    Correrò il rischio, disse, e sparì tra gli scaffali. Si era fatto vedere un paio di volte nella settimana prima, con un aspetto presentabile anche se un poco dimesso e un lieve sentore, non sgradevole, di whisky. Era sui sessanta, più o meno la stessa età del tizio che avevo visto nell’atrio del Paddington, con una bella abbronzatura, una barbetta e dei baffi ben regolati. La barba era tagliata a V e finiva a punta, ed era brizzolata come le sopracciglia e i capelli, almeno quelli che si vedevano spuntare da sotto il berretto marrone.

    Era la prima volta che comperava qualcosa, ed ebbi il sospetto che considerasse i due dollari una specie di quota di ammissione. A certe persone piace ingannare il tempo nelle librerie – come a me, prima che acquistassi la mia – e Mr. Barba d’Argento mi dava l’idea di uno che non avesse molto da fare, né che avesse dove farlo. Non era un barbone, era troppo ben curato per esserlo, ma sembrava dover solo far passare il tempo.

    Se fosse rimasto fino alle diciotto, gli avrei chiesto di darmi una mano a chiudere il negozio. Ma a quell’ora se n’era andato già da un bel po’. Il mio telefono suonò alle cinque e mezza, ed era Alice Cottrell. Ho preso una stanza, dissi. Non menzionai l’orsacchiotto.

    E stasera?

    Se tutto va bene, dissi. Se no, ho la stanza per altre due notti. Ma penso che prima sarà, meglio è.

    Poi dicemmo le cose che un uomo e una donna si dicono quando sono stati l’uno per l’altra un po’ più che un libraio e una cliente. Abbassai la voce nel dirle, e la tenni bassa anche dopo che Mr. Barba d’Argento mi fece un cenno di saluto e uscì. Lei si congedò dopo una giusta dose di paroline dolci, e poco dopo trascinai dentro da solo il tavolo delle occasioni. Fatto ciò misi dell’acqua fresca nella ciotola di Raffles, croccantini nel piattino, e mi accertai che la porta del bagno fosse aperta, nel caso dovesse usarlo. Poi

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