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Fratelli alpini
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Fratelli alpini

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A settantatré anni dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale, è qui raccolta la storia di due fratelli, Saverio e Sinesio, che prestarono servizio militare negli Alpini durante l’ultima guerra mondiale.
Anziché fare come il crepuscolo, che anticipa il buio della notte cancellando i ricordi, passando dall’appannamento della memoria storica all’oblio, ho cercato di raccogliere fra queste pagine la storia del trascorso militare nel periodo di guerra della mia famiglia.
Durante la mia infanzia seduto sotto il pergolato della casa, mio nonno mi parlava della guerra e io ascoltavo con curiosità. In seguito, da adulto, a volte sono apparse nei miei pensieri delle ombre, tali da poter far ripiegare il tempo e curvarlo nel solco dei ricordi, per poter dare una spinta alla tenda del sipario e retrocedere ancora nel tempo per scrutare i drammi vissuti dai miei cari durante il periodo della guerra.
LanguageItaliano
Release dateJul 25, 2018
ISBN9788828364368
Fratelli alpini

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    Fratelli alpini - Saverio Marcante

    FRATELLI ALPINI

    Saverio Marcante

    Titolo: Fratelli alpini

    Saverio Marcante

    Immagine di copertina: luca472

    Grafica di copertina e Realizzazione e-book: Rosso China Servizi Editoriali

    Tutti i diritti riservati

    A mio figlio Giovanni.

    A tutti coloro che amo,

    che mi hanno visto negli anni percorrere il cammino della vita,

    a tutti gli amici affezionati,

    al tempo che passa inesorabile

    che ci spinge via come le foglie in autunno.

    Poi il pensiero torna a Giovanni,

    mio unico figlio,

    nella speranza che possa vivere in felicità

    in un mondo migliore.

    Prefazione

    A settantatré anni dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale, è qui raccolta la storia di due fratelli, Saverio e Sinesio, che prestarono servizio militare negli Alpini durante l’ultima guerra mondiale. Questo libro nasce dai racconti di mio padre, dalle mie ricerche e da ricordi di quel periodo. Mio padre Sinesio era sempre stato recalcitrante a raccontare quel periodo di guerra trascorso nel Regio Esercito. A volte ero incuriosito e insistevo nel chiedergli particolari di quei momenti tragici. Quando richiamava alla mente quei momenti e ascoltavo i suoi racconti, le sue parole venivano fuori con voce profonda, quasi pesasse ancora a distanza di molti anni su di lui quel ricordo. Nel rievocare quel periodo, mandando giù il fastidioso nodo che aveva in gola, riprendeva il racconto del suo percorso di guerra, descrivendone i luoghi e le sofferenze cui fu sottoposto. Parlava del militarismo portato all’estremo dell’esaltazione dai suoi Ufficiali e tra un racconto e un altro faceva una lunga pausa, forse per riporre nel cassetto ricordi di ciò che aveva appena descritto, per poi raccogliere altri suoi trascorsi e narrarli come solo lui sapeva fare. I suoi occhi diventavano lucidi quando richiamava alla mente i volti dei suoi compagni morti durante le battaglie. Una sorte diversa toccò a suo fratello, morto prigioniero in un lager della Germania. Vorrei che questo mio scritto fosse dedicato a quel periodo e sapesse trasmettere quei momenti drammatici vissuti dagli Alpini nella mente dei giovani e dei lettori, come un ricordo indelebile.

    La famiglia Marcante proveniva da Schio, una città della Provincia di Vicenza, nel Veneto.

    Mio nonno paterno Giovanni nacque il 7 febbraio del 1883 a Schio (Vicenza). Partecipò alla grande guerra del 15-18 nel 75° Reggimento Fanteria della Brigata Napoli, combattendo nelle grandi battaglie dell’Isonzo. In quel periodo, per molti mesi condusse una guerra di trincee piene d’acqua e fango, coperte di neve e gelo, combattuta con assalti alla baionetta. Durante un’azione, Giovanni fu colpito in un occhio da una scheggia che gli produsse alcune ferite al volto. A seguito delle ferite venne riformato. Fu posto in congedo nel 1917 con un solenne encomio, nel quale si diceva che aveva servito con fedeltà e sprezzo del pericolo la sua Patria. Questo era il riconoscimento che la Patria testimoniava ai combattenti che avevano lasciato sui campi di battaglia parte di se stessi. Negli anni che seguirono, dovette fare i conti con l’artrite alle gambe che lo rese invalido. Molto prima degli inizi della Seconda Guerra Mondiale vi furono anni turbolenti in Italia e in quel periodo s’instaurò la dittatura. Mio nonno e i suoi tre figli facevano parte di una numerosa famiglia di contadini, con idee politiche contrarie alle regole di Mussolini. Conosciuti dal regime come sovversivi, a loro come a molti altri non furono risparmiate le angherie del fascismo, e per non indossare la camicia nera furono costretti a lasciare la propria terra per trovare rifugio in alcuni paesi della Provincia di Torino, fra cui ultima destinazione Piossasco. Fra mille sforzi e stenti, Giovanni iniziò a coltivare un appezzamento di terreno sulla collina; questo rappresentò per la famiglia il loro unico sostentamento.

    Nel 1939 il mondo fu nuovamente percorso dal vento della guerra. Le truppe germaniche invasero la Polonia. Iniziò così la Seconda Guerra mondiale. Molti anni fa, cercando dei vecchi documenti in un cassetto di una credenza, ho trovato una guida turistica della Croazia; al suo interno erano raffigurate moltissime cartine geografiche a tergo delle quali erano riportate varie annotazioni con racconti di episodi avvenuti durante lo svolgimento del servizio militare in zona di guerra, scritti da mio zio caporal maggiore Saverio e da mio padre caporale Sinesio. Dalla lettura dei fogli matricolari si nota la carenza nel rilascio delle licenze, quando si prospettava un rientro a casa dai propri cari il destino li riportava alla realtà della guerra, poiché proprio in quei periodi si aprivano nuovi fronti di combattimento. A questo proposito si può notare che Saverio, una volta partito per il fronte, non fece più ritorno a casa. Esaminando il congedo di Sinesio si legge che vi fu solo una licenza usufruita nel giugno 1941.

    Mio nonno Giovanni pensava ai suoi due figli in guerra, la sua vita in quel periodo bellico era legata a un tenue filo di speranza e lo sconforto a volte prendeva il sopravvento. Mia nonna Silvia si ammalò e morì di crepacuore pensando ai propri figli. Mio nonno Giovanni, quando nell’aprile del 1944 giunse la terribile notizia dell’avvenuta morte di Saverio, cadde in uno sconforto immenso.

    Saverio Marcante

    Introduzione

    Anziché fare come il crepuscolo, che anticipa il buio della notte cancellando i ricordi, passando dall’appannamento della memoria storica all’oblio, ho cercato di raccogliere fra queste pagine la storia del trascorso militare nel periodo di guerra della mia famiglia. Per mio padre Sinesio gli anni vissuti con le stellette parvero non passare mai. Quando fu chiamato alle armi la prima volta, svolse il servizio militare come soldato di leva. In un secondo tempo fu richiamato nel territorio dichiarato in stato di guerra sul fronte francese. Poi fu chiamato e giunse in Albania a combattere sul fronte greco-albanese. In seguito il suo Reggimento intervenne nei Balcani in Jugoslavia.

    L’alpino Sinesio scrisse sul suo diario:

    Noi speravamo che la guerra finisse presto, era per noi diventato un chiodo fisso; speravamo che tutti i nostri sforzi sinceri tendenti a fermare il nemico fossero serviti a questo scopo.

    L’Alpino Sinesio svolse varie mansioni, fra cui anche quella nelle Salmerie del Gruppo Belluno, il servizio consisteva nel trasporto a dorso di mulo dei rifornimenti necessari, quali viveri e bevande come cognac, anice, munizioni, fieno e vettovagliamento alle truppe impegnate al fronte. Era un compito considerato ingrato e meno riconosciuto, ma nello stesso tempo il più importante. Quando si rendevano necessari gli approvvigionamenti, bisognava partire a qualunque ora, con qualsiasi condizione meteorologica, di giorno e di notte, col sole, con la pioggia o con la neve. I rifornimenti avvenivano di solito la notte o con la nebbia, per nascondersi il più possibile dai greci. Durante il servizio non si poteva mai parlare, né tantomeno fumare; per nascondere il più possibile le operazioni i militari partivano distanti l’uno dall’altro, viaggiavano isolati o in gruppetti al massimo di tre o quattro con i rispettivi muli.

    Molti fra loro caddero vittime, rivolti con la faccia conficcata nel fango di una mulattiera, altri furono feriti. Per loro i combattimenti contro il nemico terminarono e iniziarono le cure mediche con dolori atroci. All’ospedale da campo mancava tutto. Per non perdere tempo si amputava.

    Proseguì il suo percorso e raggiunse la Francia che lo colse l’8 settembre 1943. Dopo seguì lo sbandamento delle truppe, chi non venne arrestato dai tedeschi, compreso mio padre Sinesio, si diede alla macchia, periodo che durò fino al 25 aprile 1945, giorno in cui terminò la triste esperienza. Durante gli anni della guerra, Sinesio trascorse mesi per difendere una linea di sbarramento, a volte impegnandosi in un contrattacco con la baionetta, combattendo contro un nemico superiore di uomini e mezzi. Nel periodo successivo dell’armistizio, per sfuggire agli ex alleati tedeschi e alle squadre fasciste che infestavano e imperversavano nelle vallate e nelle pianure circonvicine alla sua abitazione, si dovette nascondere costretto a scavare ancora una volta una buca, come aveva fatto sulle sperdute montagne oltre il mare, per potersi difendere dal nemico.

    Durante la mia infanzia seduto sotto il pergolato della casa, mio nonno mi parlava della guerra e io ascoltavo con curiosità. In seguito, da adulto, a volte sono apparse nei miei pensieri delle ombre, tali da poter far ripiegare il tempo e curvarlo nel solco dei ricordi, per poter dare una spinta alla tenda del sipario e retrocedere ancora nel tempo per scrutare i drammi vissuti dai miei cari durante il periodo della guerra. Nella primavera del 1944, giunse dal lager della Germania la notizia della morte di Saverio. In quel periodo mio padre Sinesio fu braccato dai nazifascisti e dai tedeschi; i primi per farlo aderire al RSI, i secondi per portarlo nei campi di concentramento in Germania. Si nascondeva nei boschi delle borgate sulla montagna per sfuggire alle continue perlustrazioni svolte alla ricerca dei partigiani e dei militari considerati disertori.

    Servizio militare

    Sinesio a quel tempo apparteneva alla classe 1918 del Distretto Militare di Torino. Finiva l’inverno, nei primi giorni tiepidi di primavera il sole illuminava la collina di Piossasco dove sorgeva la casa di Sinesio, solitaria al limite di una vigna alle pendici meridionali della montagna. Nel cortile una specie di pergolato manteneva sospese le viti di uva fragola. All’ingresso a quel tempo vi erano due pilastri avvolti dai glicini, al fondo del pendio scorreva la strada Comunale che collegava il Comune di Piossasco alla frazione Gai. Per raggiungerla bisognava percorrere una piccola discesa.

    Dopo aver trascorso la mattinata nei campi, la famiglia si radunò all’interno della casa attorno a un vecchio tavolo rettangolare per il pranzo, una trave di rovere sosteneva il solaio traballante, dalle piccole finestre entravano i raggi del sole che illuminavano la parete dove un orologio a cucù misurava il trascorrere del tempo. Il fabbricato consisteva e si sviluppava su due piani con un tetto a spiovente formato da tegole rosse, privo di balconi; le finestre rivolte al sole filtravano in quei giorni la calda luce primaverile.

    Il 29 marzo 1939 la porta era rimasta aperta e si vedeva il prato antistante, appena oltre la strada che costeggiava il pascolo; nella stradina apparve un uomo in divisa nera, con una mano sventolava un fazzoletto che usava per asciugarsi il sudore e con l’altra spingeva la bicicletta in salita. L’abbaiare del canelupo Ras lo accompagnò mentre percorreva gli ultimi metri che lo separavano dal cancello. Sinesio uscì nell’aia e si avvicinò alla guardia comunale che, dopo un breve saluto, poggiò la bicicletta alla recinzione e dalla borsa estrasse la cartolina rosa di chiamata alle armi, inviata dal Distretto Militare di Torino. Gli avvenimenti mondiali non facevano presagire nulla di buono; pensava che la chiamata alle armi fosse ancora lontana, ma gli eventi la anticiparono.

    Trascorsero alcuni giorni, il tempo di prepararsi per la partenza, quando arrivò l’ora; si avviò con le lacrime agli occhi, non prima di aver abbracciato suo padre e la sua mamma e suo fratello in quel momento tutti preoccupati, che lo strinsero al loro petto e piangendo dalla commozione gli diedero alcuni avvertimenti: «Torna presto, scrivi, stai bravo, stai attento, ricordati le orazioni al mattino e alla sera».

    Salutò suo fratello. La mamma ammalata guardò suo figlio, mentre un velo di malinconia attraversò i suoi occhi.

    Sinesio uscì dal cancello di casa e s’infilò subito nella stradina che s’inoltrava fra la campagna e il bosco; dopo aver percorso pochi decine di metri, si voltò a guardare ancora una volta la sua casa pitturata di bianco. Un fine venticello fischiava dolce e leggiadro, in quel momento riuscì a creare un’allegra e festosa armonia che lo accompagnò in quella triste giornata.

    Era dal 1936 non esisteva più il trenino a vapore che collegava in modo diretto Piossasco, Torino, Pinerolo; dopo la soppressione della linea, una corriera collegava Piossasco a Orbassano, poi il trenino proseguiva sulla linea Torino-Giaveno, elettrificata nel 1937.

    Salì sulla corriera al mattino presto per raggiungere Orbassano, dove attese il trenino appoggiato a una colonna della stazioncina; quando il convoglio giunse, le vetture si preannunciarono con uno stridere prodotto dalla morsa dei freni.

    Salirono tutti a bordo, si ritrovò tra molti ragazzi della sua età uniti dal medesimo destino e si avviarono tutti verso la città di Torino. Mentre il trenino iniziava la sua corsa sulla via ferrata, Sinesio si sistemò all’interno del vagone sedendosi accanto ai finestrini e guardando altri giovani richiamati dei paesi vicini che parlavano fra di loro, scambiandosi delle battute per superare quel momento di ansia.

    Durante il viaggio il trenino continuò senza particolari problemi la sua corsa scivolando dolcemente sui binari. Mentre attraversava la campagna, Sinesio guardò il panorama con suoi casolari, notò lunghi filari di alberi allineati lungo la strada che costeggiava la ferrovia; in quel momento transitarono molte persone in bicicletta, altre a piedi, alcune macchine che, passando, sollevarono un enorme polverone, quasi a offuscarne la visuale. Quando superarono il trenino, le vetture mandavano un segnale con il clacson come era la consuetudine.

    Davanti ai ragazzi in viaggio cominciarono a profilarsi le prime case della città di Torino. Dopo appena un’ora, verso mezzogiorno, il treno arrivò alla fermata di via Sacchi, prospicente la Stazione Centrale di Torino; Sinesio scese dal trenino e si diresse all’interno della stazione, cercando il binario del treno che lo avrebbe condotto a Pinerolo. Nella stazione sostava parecchia gente: vi erano anche molti soldati in uniforme accompagnati dalle amiche e dalle mogli. Nella confusione riuscì, aggrappandosi allo sportello, a salire appena in tempo; trovò fortunatamente ancora un posto a sedere nello scompartimento, diede un’occhiata all’orologio, per qualche minuto rimase in silenzio, poi si alzò e si appoggiò al finestrino del corridoio, guardò verso la stazione, riconobbe un amico in partenza per altre destinazioni e riuscì a salutarlo con un gesto della mano. Esitò un momento, sembrava che volesse dire qualcosa, invece entrò lasciando il corridoio e si risedette. Frugò nella tasca interna della giacca, prese un astuccio metallico da cui estrasse una sigaretta, il fumo impregnò subito con un sapore amaro tutto l’ambiente, girò la testa e si guardò intorno. Quando ebbe la certezza che non poteva continuare con la sigaretta, la spense fra il mormorio dei viaggiatori.

    Il treno, dopo un fischio di avvertimento del capo stazione, iniziò il lento movimento, e dopo due ore di viaggio arrivò a Pinerolo.

    Il sole brillava ancora, l’aria era pura. Sinesio scese dal treno e con i suoi bagagli si avviò a piedi verso la caserma, passò in centro città costeggiando piazza Fontana, si avvicinò al Duomo, passò sotto i portici, camminò ancora per un quarto d’ora e si trovò davanti alla caserma Berardi. Esattamente il mercoledì del 29 marzo 1939 iniziò il suo servizio militare nel Btg Fenestrelle del 3° Reggimento Alpini.

    Nella piazzaforte dove molti altri giovani erano radunati in attesa di disposizioni, un sott’ufficiale li accolse inquadrandoli in fila per due. Dopo l’appello, furono presi in consegna dall’ufficiale del deposito che li condusse alla mensa, dove vennero distribuite le stoviglie in alluminio, il gamellino¹, il bicchiere, il cucchiaio, la forchetta, il coltello e la borraccia.

    1 Piatto fondo.

    Il giorno dopo, al mattino presto, venne distribuita a ciascuno di loro la prima colazione con latte e caffè e un panino di colore bruno di farina integrale. Terminata la colazione, si presentarono dentro a un grande capannone che sembrava un magazzino del ghiaccio, dove oltre un centinaio di giovani si trovarono nudi in attesa della visita medica. Quel giorno pioveva, faceva molto freddo, nonostante la stagione primaverile le montagne erano coperte di neve. Dalle alte cime proveniva un vento gelido, i medici forse volevano testare la resistenza di quei giovani in quell’ambiente. Nessuno di loro li vide però tremare dal freddo, per molto tempo (per oltre un’ora) li lasciarono nudi in attesa della visita; ma i loro vent’anni fecero dei proseliti, resistettero e superarono la visita. Li confermarono di sana e robusta costituzione.

    Iniziò l’istruzione militare, dall’uso del fucile al governo dei muli. Furono consegnati i tesserini di riconoscimento riportanti dei numeri di matricola, poi furono assegnate le varie mansioni. La caserma si presentava ben organizzata: l’ordine e la pulizia erano inappuntabili. La regolarità della vita in quel periodo era decisa dal comandante del Reggimento. Nei vari angoli della caserma erano presenti degli austeri ornamenti rievocanti la Patria, con delle raffigurazioni che riportavano i fasti gloriosi delle battaglie sostenute dal reggimento durante i vari conflitti. Tutto ciò alimentava l’animo del corpo facendo nascere lo spirito guerriero della truppa. Vi era poi una scrupolosa osservanza dell’uniforme, che era simbolo di contegno inappuntabile: doveva essere indossata con la massima fierezza.

    Poco dopo tornò un sottufficiale che li accompagnò nel deposito corredi. Da quel momento si spogliarono degli abiti civili per indossare la divisa che sarebbe stata la loro compagna per molto tempo. Fu consegnato tutto il necessario: scarpe, gavetta, indumenti intimi. Provvidero al vestiario necessario e all’armamento personale così composto: una divisa in panno grigio-verde (con le famose fasce gambiere che servivano a coprire le gambe dalla caviglia fino alginocchio), una divisa in tela grigia che si usava per il servizio di fatica in caserma, due camicie di lana, due maglie, mutande di lana e di cotone, calzini di lana e cotone e una fascia panciera di purissima lana bianca con l’ordine di indossarla tutte le notti per ripararsi dal freddo. Il sottufficiale di turno s’interessò personalmente, diede consigli sulle taglie dei vestiti mentre li provavano in modo che fossero della giusta misura. Per completare il corredo da alpino venne l’ora della consegna del cappello di feltro verde, con penna nera d’aquila posta sulla sinistra del cappello indossato. Il fregio del Reggimento e un passamontagna. Scarponi con chiodi sporgenti e scarponcini per la libera uscita; dal fondo di un magazzino il sottoufficiale tirò fuori una vecchia mantellina in panno grigio e verde consunta e ammuffita. In quel momento disse a tutti i presenti che, con quella mantellina sulle spalle, gli alpini della guerra 1915-18 si avviavano verso i vari fronti. Fu per loro come una bandiera. La usarono per coprirsi le spalle, li accompagnò per tutto il loro cammino, li riparò dalla pioggia che scorreva sulla loro divisa alpina, li protesse dal gelo e dal vento che soffiò sul loro viso, nelle fredde e lunghe notti d’inverno offrì il calore per riparare le loro mani semicongelate. Tutto il vestiario doveva essere messo in una borsa valigia. Il magazziniere consegnò uno zaino contenente la seconda divisa e delle coperte; un telo per la tenda che veniva arrotolato e fissato lungo lo zaino con delle cinghie. Ogni alpino era in possesso di un telo, che costituiva solo una parte della tenda; per formarne una completa era necessario unire il proprio telo a quello di altri quattro

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