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lessico paesano e sottoinsiemi parentali e di casali
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Ebook309 pages4 hours

lessico paesano e sottoinsiemi parentali e di casali

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Parole, usanze e storie nel mio paese.
Il mondo rurale e pastorale raccontato attraverso il suo lessico, quello più colorito, non sempre di etimologia certa, che trova la sua ragion d’essere all’interno di un dialetto centro meridionale.
LanguageItaliano
PublisherGianni
Release dateJul 26, 2018
ISBN9788828364184
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    lessico paesano e sottoinsiemi parentali e di casali - (Giovanni D.) Gianni Gismondi

    (Giovanni D.) Gianni Gismondi

    LESSICO PAESANO

    E SOTTOINSIEMI PARENTALI E DI CASALI

    Questo è un libro di satira

    Ogni riferimento a fatti o a persone è puramente casuale

    Copyright © Giovanni Domenico Gismondi

    Indirizzo email italiano

    colmancin@gmail.com

    Indirizzo email ungherese

    gismondi.giovanni@szlgbp.hu

    Progetto grafico: 

    Mária Anna Radó e Ágnes Radó

    Le illustrazioni in copertina e all’interno del libro sono opera dell'autore /Foto e disegni/

    Edizione del

    XXIII VII MMXVIII 

    Indice

    Introduzione

    Le montagne e il sole

    La mandra

    A ball

    La pulizia

    Quelli di oltre fiume

    I briganti e gl’ ŝdrèuz

    Il venerdì sera

    Storie di Falaska

    Crasctacane

    I nostri soprannomi

    Le cariatidi

    La mia famiglia e gli altri animali

    Epilogo

    Indice delle espressioni e delle parole più colorite

    A Zizì che aveva una visione cristiana del mondo e che mi ha insegnato a scrivere.

    Nato il 16 novembre del 1918, morto il 9 novembre del 2012.

    Foto: estate 2005

    Introduzione

    Premetto subito che non sono un esperto di linguistica e nemmeno di dialettologia; in questo scritto il mio intento è stato solo quello di narrare attraverso un unico racconto frammentato in tanti momenti e situazioni diverse, quella che era, e in parte è ancora, la realtà del mio borgo, della mia valle, e del mio piccolo ed estremo lembo di Abruzzo. Si tratta di alcune case sparse, un campanile e un cimitero, ma è qui che mi sento a casa ed è qui che mi sento in patria. È solo in questo posto che posso conformare la bocca e prepararla ad accogliere i vocaboli e pronunciarli secondo la mia o nostra parlata, quella che è più naturale per i miei denti e per il mio palato; ed è qui in definitiva che vorrei tornare per ricongiungermi e restituire alla terra quello che la terra ha dato.  

    Lessico paesano... non è una grammatica dialettale e non è neanche una raccolta di termini, ma è piuttosto un amalgama di fatti e di parole, è forse l’ultima esalazione di vita di un microcosmo prossimo a scomparire. Il racconto è ambientato in un paese della Valle Roveto, al confine tra la Marsica e la Ciociaria; si tratta del mondo rurale e pastorale narrato attraverso il suo lessico, quello più colorito, non sempre di etimologia certa, che trova la sua ragion d’essere all’interno del mio dialetto centro-meridionale dove la maggior parte delle parole sono caratterizzate dalla vocale indistinta indicata nella trascrizione fonetica con il grafema ‹ǝ› (simbolo IPA International Phonetic Alphabet) e conosciuta dagli addetti ai lavori come schwa o scevà.

    Il debole fonema è presente soprattutto nei sottogruppi dialettali della media e bassa Valle Roveto, in particolare nel dialetto di Ridotti di Balsorano dove ogni vocabolo è caratterizzato da un aggregato di consonanti miste a un suono vocalico indistinto che a un orecchio poco avvezzo risulta impercettibile.  

    La vocale indistinta per essere pronunciata richiede una particolare postura della bocca, quasi una deformazione della linea labiale senza la quale il suono non si articola. Quando dal dialetto si passa all’italiano, le labbra che non sono abituate a formulare le vocali, si deformano ulteriormente e conferiscono alla bocca una configurazione vagamente circolare, irregolare e ondulata, con il tratto inferiore destro della mucosa buccale che cade verso il basso.  

    Questo è un punto importante poiché la nostra parlata dà l’impronta alla nostra personalità, essa è come un marchio di fabbrica: non siamo noi con la nostra indole a determinare il modo di esprimerci, ma è la parlata che determina il nostro carattere di abruzzesi di confine. E anche se da sempre abbiamo calzato le ciocie, non siamo ciociari, ma non siamo nemmeno abruzzesi autentici poiché l’Abruzzo vero inizia molto più a monte. Sicuramente siamo degli ibridi con una prevalenza di sangue marsicano nelle vene e l’animale a cui somigliamo di più è il mulo, con la differenza che noi figliamo, anche tanto. Come i muli però, non abbiamo mai perso la nostra capacità di portare i carichi ed è così che siamo rimasti muli a fare il nostro mestiere di muli.  

    Spesso nei vocaboli dialettali, parentali o dei casali la lettera "s è pronunciata con un suono diverso rispetto all’italiano, in molti casi essa viene strascicata fino a perdere i suoi connotati fonetici e siccome non esiste un dizionario relativo al mio dialetto, mi sono permesso, in maniera del tutto arbitraria, di rendere questo accento con il gruppo consonantico sc", un caso è la terza persona dell’indicativo presente del verbo stare che diventa scta; ancora un esempio è l’aggettivo mastro che segue un nome proprio di persona diventando Mǝchele Masctr oppure un nomignolo come Castracane che diventa Crasctacane.  

    Prima di concludere voglio chiarire ancora un caso di arbitrio da parte mia: il gruppo consonantico "sc" con il quale avrei dovuto dare inizio a (sc) ŝdǝllǝutatǝ, (sc) ŝdǝllǝngatǝ, (sc) ŝdǝllǝffatǝ, (sc) ŝdǝrrǝnatǝ e (sc) ŝdrèuz, l’ho eliminato e sostituito con "ŝ", ventitreesima lettera dell’alfabeto esperanto che ha il medesimo valore fonetico.

    Le storie narrate in questo libro non hanno alcun legame con la realtà, esse sono il frutto della fantasia dell’autore, cioè della mia fantasia. Pertanto ogni riferimento a fatti, a persone o a cose è da considerarsi una pura casualità. Il paese senza nome è una tangibilità immaginaria del nostro Sud, non certo riconducibile ad alcuna realtà vera. I personaggi, le figure, le comparse e i parenti non sono affatto reali e questi ultimi per nulla sono riconducibili ai miei veri parenti. Il libro è solo ed esclusivamente fantasia e ogni singolo fatto non è ascrivibile a nessuna realtà, tantomeno e soprattutto a quella del mio paese.

    Il diminutivo Gianni con il quale firmo ogni mio libro, lo uso solo per esigenze di carattere letterario, è più corto e si presta meglio. In realtà io mi sento Giovanni e qualche volta anche Domenico.

    (Giovanni D.) Gianni Gismondi

    Le montagne e il sole

    Pizzo Deta, 2041 metri

    Levata del sole da Monte Cornacchia, 2003 metri

    Il mio paese era formato da una decina di agglomerati frammezzati da parti di bosco, oliveti e terreni coltivati. Ogni singola realtà era composta da molte stalle e alcune case. Un forestiero che transitava nel mio paese avrebbe trovato arduo stabilire con chi interloquire. Tra stalle e case c’erano tante crepe, ma non c’era nessuna discrepanza, solo in un paio di casi le seconde erano migliori delle prime.

    Anche le nostre abitazioni, come le stalle, ospitavano tanti animali: a parte noi, c’erano i cani, i gatti, i topi e tanti babbalocc’¹ con i loro ragni. Un giorno arrivò la civiltà e furono costruite quelle nuove e come certi manufatti artistici rimasero incompiute.

    Tra le molte cose, anche noi avevamo un sole, non era come quello degli altri, ma era pur sempre un sole. Il colore ce l’aveva anche buono, come si usava dire da noi: «non era ǝ cèra cattiua»². Il contratto però ce l’aveva part-time e dalle mie parti ci stazionava poco.

    Il mio paese era situato ai piedi della montagna con il sole che gli sorgeva alle spalle. Tante cose col tempo erano poi cambiate, tranne il sole che continuava a sorgere alle nostre spalle. Era un sole tardivo e sinistro che arrivava quando le lancette dell’orologio, di quelli che ce l’avevano, viaggiavano già verso la metà della giornata. Non era mai stato un sole benevolo o riscaldava troppo o dava una mano al gelo.

    Tranne qualche accidente, noi non lo biasimavamo più di tanto, dall’altra parte del fiume si comportava anche peggio: quando da noi arrivava, da lì se ne andava, se era bel tempo non lo rivedevano più fino al giorno successivo e se il tempo era brutto lo aspettavano sine die.

    Questo aveva influito non poco sulla nostra natura e su quella degli altri che stavano al di là del fiume che tra sole, cromosomi, cultura paesana e parentale e collocazione geografica aveva fatto di noi e di quelli della Selva un campionario da laboratorio etno-antropografico.

    Con l’acqua eravamo messi un po’ meglio, d’estate spariva, ma in tutte le altre stagioni ci abbuffava.

    «Pozza abbrscà, la jetta c’ gl’ sicchie»³ diceva la gente.

    L’accidente veniva indirizzato sempre verso su, non si capiva mai chi dovesse bruciare a quell’altitudine, non ho mai pensato che il referente fosse l’acqua.

    Quando la buttava con il secchio, il nostro mondo diventava un vero pantano d’acqua che dalla terra impregnata risaliva fino in superficie formando n’allzzatur’ con tante ulobbra⁴ dappertutto. Era la fisionomia del mio mondo durante l’invernata, con le sue pozze d’acqua molto più grandi di una normale pozzanghera e nel dialetto venivano chiamate anche pscoll; queste finivano per ricoprire ogni spazio piano e col tempo si formavano anche nelle aree pendenti dando corpo a gl’allzzatur’ che indicava un pantano d’acqua sozza e fetida. Nel nostro universo la jozza regnava sovrana. Questo strano termine era un sinonimo di fanga e insieme ai sostantivi lontr e ʼncialǝf rappresentavano bene la situazione di un porcile. Così come era stato per Adamo, anche noi venivamo dalla fanga.

    L’acqua nel mio mondo dominava per nove mesi l’anno, quei pochi giorni che rimanevano se li prendeva il sole che cercava di esercitare al meglio le sue funzioni.

    Le nostre vie venivano sempre lavate dall’acqua, dopo erano così pulite che si faceva fatica a riconoscerle: uomini e bestie per molti tratti se ne costruivano una parallela fino a quando non veniva lavata anche quella. Dalle mie parti c’erano tanti torrenti e alla fine della stagione delle piogge non mancava mai che un nuovo fossato avesse preso piede di diritto sul territorio, reclamando connotati e legittimità catastale.

    Una via lavata dall’acqua

    Siccome da noi i fossi andavano a valle e le vie andavano a monte, qualche volta i fossi diventavano vie e le vie diventavano fossi: era uno scambio continuo che lasciava interdette perfino le autorità che però venivano a visitarci ogni cinque anni scavalcando fossi e vie.

    A quel tempo dalle mie parti c’erano tante mamme che somigliavano molto alle nonne, con la sola differenza nei colori: le nonne erano tutte nere, le mamme un po’ meno.

    Lavatoio e abbeveratoio pubblico con una mamma-nonna che lava i panni

    Le mamme lavavano i panni alla fontana e in casa facevano il pane; per le esigenze energetiche di un’intera settimana ammassavano cinque, sei o sette pagnotte, solo così il fabbisogno alimentare dei gatti, dei cani e dei cristiani era interamente garantito e coperto. Avanzava pure qualche crosta secca per la minestra e qualcuna ammuffita per il pastone dei porci.

    Nel mio casale c’era il giorno del pane, questo non era mai lo stesso, variava a seconda delle circostanze. Se quelli di casa avevano avuto il tempo di andare al mulino, allora la disponibilità di farina fresca invogliava mia madre a fare il pane. Non in tutti i casali era ancora viva questa tradizione, in quello mio c’era rimasta mia madre e una vicina di casa, tutte le altre famiglie il pane lo compravano, mentre Gregoria tornava dai suoi commerci con dei fagotti di pane secco, semifresco e anche ammuffito, dove lo acquistasse non si è mai saputo.

    Quando mia madre faceva il pane, un intero giorno veniva ipotecato da questa primaria e fondamentale attività. Con imprecazioni, maledizioni e bestemmie mia madre procedeva all’accensione del forno, ma prima che questo incominciasse a carburare ci voleva del tempo perché non sempre la volontà e la qualità della legna o delle frasche erano adeguate allo scopo. Mia madre quando faceva una cosa, ne aveva sempre in mente un’altra, in tal modo le faceva tutte di traverso.

    La preparazione del forno non sempre coincideva con la giusta lievitazione del pane, spesso la pastella ŝdǝllǝutaua, almeno così diceva mia madre. È difficile catalogare e definire questo strano vocabolo. Ŝdǝllǝutà apparteneva a una casistica di termini che iniziavano con la "ŝdǝ", e riguardo al pane, ŝdǝllǝutà si riferiva a una fase del processo di lievitazione. Quando questo non veniva interrotto al punto giusto, ma andava oltre cominciando a trasbordare, era il caso in cui la pastella per il pane ŝdǝllǝutaua. Un participio con queste caratteristiche fonetiche era ŝdǝllǝngat’, ma questo è opportuno trattarlo più in là, dove incontriamo il suo utilizzo.

    Per accendere il fuoco, le mamme con le mani nude trasportavano le braci ardenti da un’abitazione all’altra e a sentir loro erano anche cuciniere, ma il mangiare gli usciva sempre uguale. Il tempo lo misuravano in modo speciale: lo calcolavano con la campana e col sole. «Ateng ammassà du sagne a chigl’ crǝsctian ch’ scta a ball»⁵, era una delle espressioni ricorrenti, oppure: «Ateng afà ʼn pagnǝttigl’ a chigl’ du’ uecch’»⁶.

    A quei due vecchi non era assolutamente offensivo, l’espressione andava letta e intesa secondo la nostra logica: se uno era vecchio, era vecchio, non c’erano alternative. Tutte le cose si chiamavano col loro nome: chi stava a valle a lavorare, siccome non era vecchio, veniva chiamato cristiano. Chi non era bestia ma essere umano veniva battezzato, perciò essere cristiani equivaleva a essere uomini.

    Anche il vecchio nonostante la sua condizione, non aveva smesso di essere cristiano, ma siccome era anche vecchio, gli si addiceva meglio questo secondo termine perché non andava a creare equivoci di alcun tipo. I piccoli invece venivano indicati con chigl’ uttr’ o con chella creatura, e quando si voleva esprimere particolare affetto, allora c’era anche alma ǝ Dì. E tra bambino, creatura e anima di Dio le differenze erano minime, l’uso dell’uno o dell’altro sostantivo dipendeva dalle dimensioni della discendenza e dalle disposizioni del cuore in quel determinato momento.

    I primi rintocchi della campana erano quelli di mattutina. Era chiamata così la prima scampanata che dal campanile della chiesa dava inizio alla giornata.

    I vecchi e le vecchie andavano alla prima messa, i meno vecchi e le femmine di casa si alzavano per andare ognuno alle proprie faccende, i giovani cercavano di strappare al dovere qualche minuto in più di sonno e i ragazzi, dopo aver fatto una capatina alla stalla per appagliare le bestie di loro competenza, incominciavano a prepararsi per la scuola, non senza profumare di stalla.

    Indipendentemente dal cibo che gli si dava, le bestie andavano appagliate perché alla base di ogni foraggiamento c’era la paglia. Appagliare voleva dire letteralmente foraggiare. Il cibo degli asini e dei muli era la sola paglia, quello dei cavalli e delle mucche era un miscuglio di paglia e fieno che veniva chiamato ʼmmisctc’.

    A mezzogiorno c’era la seconda scampanata, a questo punto tutti si davano una regolata riguardo alle loro occupazioni: per le femmine arrivava l’ora di preparare ʼn muccǝc’ di qualcosa da mettere sotto i denti degli uomini; gli uomini invece dovevano dare un’accelerata alla faccenda iniziata a mattutina. ʼN muccǝc’ era un morso di qualcosa da mangiare: un po’ di pane e formaggio o in alternativa, un paio di uova e un bicchiere di vino, quasi sempre più di un bicchiere, solo così lo stomaco s’arrequiaua e il contadino s’arraddǝcriaua.

    Col muccǝc’ di qualcosa si appuntava lo stomaco, da questo momento in poi sarebbero bastate le sole calorie fornite dal vino, al quale si faceva ricorso a intervalli molto regolari, per arrivare fino alla cena. Appuntare stava per fermare o mettere a tacere i richiami dello stomaco. Senza fraintendimenti, non mancavano neanche delle espressioni del tipo: «È ora ǝ magnarǝn ca’ cazz»⁷ oppure: «Mettamǝn ca’ cazz ʼmmocca»⁸.

    E siccome queste pratiche non stavano minimamente, né nei letti e neanche nella testa della gente di terra delle mie parti, mettersi qualche cazzo in bocca voleva dire solo mangiare qualsiasi cosa che fosse commestibile e cazzo stava davvero ad indicare un alimento generico finalizzato solo a riempire lo stomaco e neanche lontanamente poteva significare altro, perché gli arnesi andavano messi nelle apposite rimesse e la finalità, secondo i santi insegnamenti, non era il piacere, ma solo il cristiano dovere coniugale.

    A parte le forze della natura che ogni tanto si manifestavano inaspettatamente, nel mio mondo dominava la quiete e tranne qualcuno, la maggioranza delle persone non era nervosa e lo stato di calma veniva espresso con il verbo arrequià, mentre il ristoro con il conseguente riacquisto delle energie, nella parlata nostra si diceva arraddǝcrià. Oggi si fa fatica ad incontrare questi vocaboli perché sono usciti definitivamente dalla bocca della gente e in quella dei giovani non ci sono mai entrati.

    Nel pomeriggio c’era la scampanata d’ gl’ tocc’ e qui la cosa si complicava un pochino. Gl’ tocc’ nel nostro dialetto erano i rintocchi della campana che segnavano l’ora del vespro pomeridiano. L’ora dei rintocchi variava a seconda dell’umore del sagrestano.

    Il sostantivo si caricava anche di un secondo significato, meno simpatico e che nulla aveva a che fare col primo. In questo caso, gl’ tocc’ assumeva significato di ictus con conseguente paralisi e lo esprimevano con questo vocabolo perché chi lo riceveva veniva considerato toccato da qualche mano misteriosa addetta alla distribuzione delle disgrazie, e non mancava mai nella lista degli accidenti che si spedivano in tutte le direzioni: «Puzz aué ʼn tocc’!»⁹ diceva la gente. E qualcuno più educato se al rintocco della campana incrociava un cristiano, diceva: «Bon tocc’»¹⁰, così come avrebbe detto buon mattino, buon giorno o buona sera, innescando nell’interlocutore risposte del tipo: «Pur’ a tì, a mammǝta e patrǝt’»¹¹ nonché grosse grattate nei piani inferiori in direzione della chincaglieria, oppure: «A tì e a tutta la famiglia t黹².

    Gl’ tocc’ nella sua veste di accidente aveva come sinonimo gl’ colp’, «Puzz aué ʼn colp!» non mancava mai, era sempre tra gli auguri più calorosi che mia cognata faceva, nell’arco di una giornata, a qualcuno dei suoi.

    L’ultima scampanata era quella della sera e segnava l’inizio del buio. Al mio paese la chiamavano ventiquattrore. Era qui che terminava la giornata, il tempo che veniva dopo non aveva più bisogno di essere misurato.

    Le femmine dopo aver sistemato le loro cose nella stalla, come le galline, i conigli e qualche altra bestia minuta, si dedicavano alla cena che richiedeva tutto un lavoro particolare.

    Senza lavarsi le mani, mettevano un montarozzo di farina sopra una spianatoia di legno e qui con l’acqua, ammassando ammassando, preparavano ʼn pagnǝttigl che poi spianavano e opportunamente piegavano e tagliavano. Venivano fuori delle sagne¹³ senza uova al sapore di stalla con un retrogusto di gallina o di coniglio allo stato vivo.

    ʼN pagnǝttigl era una pagnottella di pastella che una volta trasformata in sagne venivano cotte nǝgl’ cuttùre che sarebbe il poco eloquente paiolo della lingua italiana. Contemporaneamente sopra a gl’ bibgas si preparava il sugo e qui prima che io dia indicazioni sulla salsa, è opportuno che spieghi il significato di bibgas.

    Dalle mie parti gl’ bibgas era il nome dato dalle femmine a un fornellino a tre fiamme alimentato da una bombola di gas. Esso veniva sistemato su un tavolinetto nei pressi del camino. Questo fornello era arrivato da noi negli anni Sessanta con la prima civiltà, forse diffuso da un commerciante di Sora e suppongo che prese il nome dalla miscela gassosa di butano e propano contenuta nelle bombole.

    Con molta probabilità chi commercializzava il prodotto l’aveva presentato col nome di bp gas per marcare la differenza con qualche altra miscela di gas, ma le nostre femmine che non si appiccavano molto con i marchi e i nomi, fecero del contenuto della bombola un sostantivo e lo trasferirono al fornello che con le opportune e doverose deformazioni imposte dal dialetto, divenne bibgas. In base al criterio della sineddoche, per estensione tutte le femminelle del paese chiamano ancora i fornelli e le cucine in genere, bibgas.

    Massaia stende la sfoglia per preparare le sagne

    Nel mio paese non ci sono accademie e la crusca la diamo ai maiali, però una cosa non la posso negare, una scuola piccola piccola ce l’abbiamo anche noi, è quella della Sauciccia¹⁴. È una scuola dove le protagoniste sono le femminelle che con le loro capacità nel settore linguistico, anziché setacciare, insaccano gl’ mǝnuzz¹⁵ dentro l’apposito budello, e tra un insaccato e l’altro, si sono generati numerosi casi di antonomasia.

    Oggi, dalle mie parti le cose vanno più o meno così, secondo una logica perversa, un nome proprio diventa un nome comune: da noi, tutti i detersivi per i piatti sono diventati svelto, e mo’ tutti i saponi per stoviglie hanno dismesso il loro nome proprio per prendere quello di svelto che è sinonimo di detersivo. Tutti i detersivi per i pavimenti sono diventati fabuloso, tutte le colle sono diventate vinavil, tutti i disinfettanti per mani sono diventati amuchina e uno delle mie parti che si chiama Mammozio è diventato un sinonimo.

    Questo Mammozio appena gli recisero il cordone ombelicale si aggrappò fermamente alla cammǝsciola¹⁶ della mamma e come un’ostrica, non ci si staccò mai più. A un certo punto della sua vita, anche la mamma, per motivi biologici se ne andò senza che lui se ne andasse dalla mamma che venne presto sostituita da una consorte capace.

    Per dargli una moglie, furono mobilitati tutti i

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