Postuma: Canzoniere di Lorenzo Stecchetti edito a cura degli amici
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Postuma - Olindo Guerrini
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Intro
Postuma è una silloge poetica del geniale Olindo Guerrini, attribuita dallo stesso autore a un inesistente cugino, Lorenzo Stecchetti, morto di tisi a trent’anni… Il libro - pubblicato nel 1877 e composto di 85 poesie, in gran parte sonetti - riscosse un successo tale da surclassare addirittura le contemporanee Odi barbare di Giosue Carducci. Vi si trovano famose liriche della poesia popolare dell’Ottocento, come Memento e Il canto dell’odio. Nel corso della vita dell’autore ne uscirono ben 32 edizioni.
Al lettore
A me che pongo il mio nome sotto queste poche righe d’introduzione come a uno de’ più intimi amici dell’autore e a lui congiunto per sangue; a me che più di tutti fui a parte delle sue gioie e de’ suoi dolori, è toccato il triste incarico di tesserne la biografia. Non abuserò certo della pazienza di chi legge, tanto più che le vicende del mio povero amico non offrono nulla di così straordinario da tentare il narratore o il lettore. La sua storia è tutta in quattro parole: morì a trent’anni.
Lorenzo Stecchetti mio cugino (le nostre madri furono sorelle) nacque il 4 ottobre 1845 in Fiumana, piccolo comune del Forlivese, che giace in una di quelle fertili valli cui sovrastano i primi contrafforti dell’Appennino e precisamente nel villino chiamato Casella. Di famiglia non ricca ma agiata, nel 1847 gli mancò il padre, nel 1850 la madre, e mio padre assunse la tutela dell’orfano. Fu educato nel Collegio Municipale di Ravenna, quindi, dopo il 1859, nel Nazionale di Torino Ne uscì nel 1863, e compì gli studi in quel Liceo Cavour, allora del Carmine, per venire finalmente nel 1865 a intraprendere il corso di Giurisprudenza in questa Università di Bologna. La nostra conoscenza, che non aveva altro legame se non le poche e quasi dimenticate memorie dell’infanzia, si riannodò qui a Bologna tanto da divenire vera e intima amicizia. Qui vivemmo dal 1865 al 1868 la vita lieta e spensierata dello studente, meno nei pochi mesi del 1866 nei quali altri doveri ci chiamarono; e qui egli dimenticava troppo spesso il codice per Byron, Heine e De Musset, che egli chiamava la sua Trinità.
Dopo la laurea rimase a Bologna. In una notte d’inverno del 1870, che non saprei precisare (era carnevale), nella sua cameretta in via Zamboni, egli mi leggeva qualcuno dei canti che ora si trovano in questa raccolta, e, poiché io lo confortavo a pubblicarli, mi rispose scherzando che il farlo sarebbe stata mia cura quando egli fosse morto. Pur troppo lo scherzo divenne profezia. In quello stesso inverno sputò sangue.
Lo sapemmo tardi perché in principio egli nascose quasi con pudore la sua malattia, ma pur lo sapemmo, e noi tutti che lo amavamo fummo ben dolorosamente sorpresi. Egli no; e quando gliene parlai per la prima volta, sorrise amaramente dicendo: - Tanto a che servivo io? Meglio così. - Era già rassegnato.
Cosa strana per un tisico, egli non ebbe mai illusioni sul proprio stato. Continuò tuttavia il suo solito metodo di vita e agli estranei non parve mutato né al fisico né al morale. Solo diventò meno gaio. Alle volte interrompeva a mezzo il riso incominciato e diventava improvvisamente serio. Molte cose che prima amava con tutto l’ardore della sua bella giovinezza, gli divennero indifferenti. Anche l’anima si ammalava.
Viaggiò. Gli avevano prescritto il clima di Napoli, ultimo rimedio che si consiglia ai disperati per tisi, a fine di prolungar loro l’agonia. E questa agonia fu per lui orribile, straziante. Non si potranno mai dire le profonde disperazioni di un’anima che a poco a poco si sente mancar tutto d’intorno. Ed egli che non sperava, cercava d’illudersi, voleva far credere a se stesso di sperare ancora. Scriveva a una donna:
Mi si spezza la testa. Io