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La donna in nero
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La donna in nero

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About this ebook

Montecarlo. Dopo una scenata al casinò, John Pentridge viene espulso dalle sale da gioco, ma mentre se ne va via con riluttanza, una bellissima donna vestita di nero gli si para davanti e l'uomo cade in preda al terrore.
Inizia così uno dei più avvincenti gialli di Edgar Wallace, con un manipolo di persone alla ricerca di una formula industriale che vale oro.
Tra case da gioco della Riviera e gli ippodromi londinesi, si snoda una vicenda che porta alla luce antichi rancori, eredità segrete e intrepide eroine.
LanguageItaliano
Release dateJul 14, 2018
ISBN9788899403560
La donna in nero
Author

Edgar Wallace

Edgar Wallace (1875–1932) was one of the most popular and prolific authors of his era. His hundred-odd books, including the groundbreaking Four Just Men series and the African adventures of Commissioner Sanders and Lieutenant Bones, have sold over fifty million copies around the world. He is best remembered today for his thrillers and for the original version of King Kong, which was revised and filmed after his death. 

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    La donna in nero - Edgar Wallace

    GialloAurora

    1

    Edgar Wallace, La donna in nero

    1a edizione GialloAurora, luglio 2018

    © Landscape Books 2018

    www.landascape-books.com

    ISBN 978-88-99403-56-0

    Progetto grafico service editoriale il Quadrotto.

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    Edgar Wallace

    La donna in nero

    1. LA DONNA IN NERO

    - Maledetta sfortuna!

    La voce roca dell’uomo risuonò seccamente, soverchiando il chiacchiericcio sommesso delle persone accalcate attorno al tavolo e i giocatori si guardarono intorno, assumendo un’espressione del viso incuriosita o indignata secondo il temperamento e l’umore di ciascuno di loro. Videro un uomo di circa cinquantacinque anni dal viso magro e scavato e con le guance coperte da un velo di barba grigia non rasata da almeno un paio di giorni che fissava il tappeto verde con i suoi occhi scuri che scintillavano febbrili e astiosi.

    Indossava un abito da sera sgualcito, il petto della camicia era scolorito e logoro e i pantaloni ricadevano flaccidi sopra le scarpe lucide ma consunte.

    Le mani, non molto pulite, tremavano visibilmente mentre, con un gesto di sconforto, le sollevava verso il viso e un tic nervoso alle labbra tradiva, senza ombra di dubbio, la sua assuefazione all’oppio.

    - Che sia maledetta Monte Carlo - continuò a imprecare con voce stridula e spezzata. - Mai avuto un briciolo di fortuna qui; andrò a spassarmela a Nizza, ecco dove andrò!

    Era la protesta esasperata di un uomo qualunque, ma il vestito che indossava era quello di un poveraccio e, in realtà, John Pentridge era un uomo qualunque e un poveraccio.

    Un impeccabile commesso si avvicinò con modi cortesi ma risoluti.

    - Il signore desidera forse rilassarsi per un po’ fuori dalla sala da gioco? - gli chiese educatamente.

    L’uomo lo guardò di traverso.

    - No, intendo restare qui - grugnì. - Vi siete presi il mio denaro. Che cosa volete di più?

    - Chiedo scusa, ma il signore disturba gli altri giocatori - ribatté, sempre educatamente il commesso, al quale, nel frattempo, si erano silenziosamente affiancati altri due colleghi.

    - Ho detto che voglio restare qui... tenete giù le mani! - urlò, ma i tre uscieri lo avevano già afferrato per le braccia e lo stavano spingendo con gentilezza e decisione verso la porta girevole della sala.

    Pentridge avrebbe voluto lottare e reagire, ma si rendeva conto che, nello stato di debolezza in cui versava, non sarebbe mai riuscito a tenere testa ai tre uomini.

    - Ritornerò domani - urlò, quasi, mentre veniva spinto verso la porta. - Ritornerò e vi pagherò. Posso comprarvi tutti! Ho un milione di franchi in tasca, come è vero che c’è Dio! Un milione... branco di ladri e di...

    Intanto erano arrivati davanti alla porta del salone e lì, improvvisamente, Pentridge si arrestò, volgendosi a fronteggiare i commessi.

    I tre pensarono che volesse fare ulteriore resistenza e si disposero a usare metodi ancor più sbrigativi, ma l’uomo abbassò inaspettatamente il tono della voce.

    - No, no, no! - ansimò spaventato. - No, vi prego... guardate là... quella donna! Per l’amor di Dio, non permettete che mi veda in questo stato!

    Parlava rapidamente, in francese, e, seguendo la direzione del suo sguardo, i tre commessi videro una ragazza che sostava, in piedi, ai centro del salone adiacente.

    Era giovane e bellissima, vestita in modo semplice ma raffinato con un elegante vestito nero di alta sartoria. Portava un cappello, anch’esso nero, ma nel suo abbigliamento non c’era nulla di triste o funereo, al contrario esprimeva una composta e signorile riservatezza. Era inconsueto vedere una donna così elegante già a quell’ora della sera e doveva essere appena arrivata con un’automobile perché reggeva ancora sul braccio un soprabito da viaggio.

    - Per favore, fatemi uscire da un’altra parte - implorava il poveraccio, dal cui viso era svanita ogni aggressività, lasciando il posto a un penoso stato di panico.

    Il capo dei commessi esitava. Vide che la ragazza veniva raggiunta da un uomo dai capelli grigi di statura piuttosto alta e, per un attimo, i due sembrarono intenzionati a dirigersi verso la sala da gioco.

    - Da questa parte - disse infine il commesso, impietosito dall’evidente stato di disperazione dell’uomo e lo condussero verso una porta laterale che immetteva in una sala più piccola, dalla quale uscirono sul piazzale antistante il Casinò.

    Il capo dei commessi si rivolse di nuovo a Pentridge con cortesia professionale: - Signore, sono spiacente di informarvi che la direzione vi invita a non farvi più vedere nel nostro Casinò.

    John Pentridge estrasse un fazzoletto sporco dalla tasca e si deterse la faccia stravolta.

    - E adesso siamo a posto - mormorò tra sé, senza badare alle parole del suo interlocutore. - Questa notte mi sbarazzerò di quelle carte. - Ora parlava da solo e in inglese.

    - Ecco, la mia è proprio una vita da cani - mugugnò consolato. - In ogni angolo d’Europa vengo sbattuto sulla strada... pfui!

    Poi si ricordò dei tre uomini che gli stavano ancora davanti.

    - Allons! Guardate qua, miei coraggiosi moschettieri! - esclamò sarcastico. - Tornerò domani e vi comprerò tutti... comprerò voi e anche il vostro stramaledetto Casinò, che il diavolo se lo porti!

    Dopo aver proferito questa oscura minaccia si allontanò barcollando, raggiunse il più ampio piazzale sottostante e scomparve tra la folla.

    Però qualcuno lo aveva notato. Un uomo più o meno della stessa età, malvestito quasi come lui lo seguì nel suo percorso in direzione di La Condamne e, quando una mano si posò sulla sua spalla, Pentridge si girò di scatto ringhiando un’imprecazione.

    - Salve, Penty! - disse una voce dal tono pacato e carezzevole. - Non vorrai lasciare nelle peste un vecchio socio... il povero Chummy, vero Penty? Non devi dimenticare un amico che ti ha sempre dato una mano con lealtà e sollecitudine.

    Pentridge si accigliò.

    - Oh, sei proprio tu? - chiese sprezzante. - Ebbene, che cosa vuoi?

    - La mia parte, Penty - ribatté l’altro, con il viso rugoso e avvizzito che risaltava alla luce del lampione come una scultura lignea, mentre gli occhietti mobili e vivaci ammiccavano malignamente.

    - Vecchio mio, io e te siamo stati per anni nella stessa barca, o sbaglio? - continuava a dire con quella voce melliflua e irritante. - Non siamo stati insieme a Oslo? Certo, non era come ai bei tempi di Melbourne, Penty... Dio Onnipotente! Ah, come vorrei trovarmi ancora nella cara vecchia Melbourne... ti ricordi quel giorno a Fleminton, quando Carbine vinse la coppa?

    - Ascoltami bene, Chummy - ribatté Pentridge affrontando con durezza il suo interlocutore, e la sua faccia era livida per la rabbia. - Visto che tu sei un vecchio rottame e io ti seguo a ruota, visto che entrambi viviamo in questo squallido continente solo perché non abbiamo mai avuto il coraggio e il buon senso di andarcene, ebbene, non ti devi permettere di venire da me a scroccare. Anni fa hai già avuto la parte che ti spettava della merce che portammo dall’Australia... tu hai avuto sempre la tua fetta per tutti i lavori che abbiamo fatto insieme...

    - Ma niente per il colpo grosso - corresse educatamente l’altro - niente per quello che tu chiamavi il brevetto. Ecco, Penty, tutto quello che io ho aspettato per anni. Sai, c’è un tizio qui, a Monte Carlo... un russo che sta spifferando ai quattro venti di una geniale invenzione che sarebbe in procinto di acquistare da qualcuno. Suvvia, Penty! Non è possibile che tu non ne sappia nulla - concluse in tono dimesso, quasi scusandosi. - È questo il malloppone che pretendo, perché io ho dato una mano quando si trattava di acchiapparlo. E se non fai il bravo, potrei andare subito, questa sera stessa - riprese poi con tono solenne - a trovare un certa giovane ragazzina appena arrivata qui a Monte Carlo e che tra un’ora tornerà a Marsiglia... ebbene, potrei andare da lei e...

    - Basta! - sibilò Pentridge, torcendo la faccia. - Muoviti, discuteremo di tutto, ma seguimi a una certa distanza. Non voglio che ci vedano insieme.

    Detto questo, condusse il vecchio socio, sempre tenendolo a distanza attraverso la folla, fino a un tranquillo quartiere di Monte Carlo, dove le ville dei ricconi immerse nel loro splendido e riposante isolamento permettevano una conversazione più tranquilla e discreta. Pentridge si infilò attraverso il cancello aperto di un’imponente e sontuosa abitazione.

    - Dove stai andando?

    L’uomo chiamato Chummy si ritrasse sospettoso.

    - Andiamo a fare una chiacchierata, oppure no? - lo incalzò Pentridge. - Ho un amico che abita qui.

    L’altro lo seguì riluttante lungo il vialetto che conduceva all’ingresso di una villa, fiancheggiato su entrambi i lati da una fitta macchia di tigli, mentre Pentridge tastava con le dita il piccolo e micidiale tirapugni che teneva sempre in tasca.

    - Ecco, io la vedo in questo modo... - esordì Chummy, in quel momento il suo interlocutore si voltò di scatto ringhiando come una belva feroce, e lo aggredì saltandogli gola.

    Pochi minuti più tardi Pentridge ripercorse furtivamente il vialetto, dirigendosi a buon passo verso il lungomare.

    Quando raggiunse la stazione, soddisfatto perché nessuno lo aveva visto in compagnia dell’amico di un tempo, il treno per Nizza si stava già muovendo e fece appena in tempo a saltare su una carrozza quasi vuota. Effettivamente Pentridge non aveva sbagliato i suoi calcoli perché, il mattino successivo, quando vennero scoperti i resti di colui che era stato un uomo, la polizia non poté avvalersi di alcun testimone e, in considerazione del fatto che un omicidio non è un bel biglietto da visita per la promozione pubblicitaria e turistica del minuscolo e ameno principato, l’inchiesta venne archiviata nella stessa giornata e Chummy Gordon da Melbourne altrettanto rapidamente seppellito.

    2. IL GIOCATORE PROFESSIONISTA

    Era una limpida serata di marzo, tiepida come può essere solo in Riviera in quella stagione e Monte Carlo brulicava di una grande folla eccitata e gioiosa. Era il giorno della grande corsa e la città, già rigurgitante di visitatori, era stata invasa da ulteriori massicci contingenti di turisti provenienti da Nizza, Mentone e perfino Sanremo.

    Sullo splendido lungomare la folla si accalcava fluttuando in modo disordinato e distratto e le vaste rotonde affacciate sul mare avevano l’aspetto dei più gradevoli e frequentati luoghi di villeggiatura inglesi in piena alta stagione, mentre i tavolini del Caffè Americano erano occupati dal primo all’ultimo da avventori che cenavano, ridendo e chiacchieravano animatamente.

    Monte Carlo stava vivendo l’ora più bella della giornata sotto una falce di luna crescente che, sospesa sulle acque tranquille del Mediterraneo, faceva vibrare la calma superficie del mare con innumerevoli mobili e guizzanti riflessi. Di tanto in tanto la folla in lento movimento sulle rotonde si fermava a scrutare verso l’alto, ascoltando il ronzio del motore di un aeroplano che, per qualche attimo, sovrastava il brusio delle voci, mentre l’ombra del velivolo scivolava lentamente sul velluto scuro del cielo.

    Due persone uscirono a passo lento attraverso le porte girevoli del Monaco Palace Hotel e si soffermarono sull’ampio marciapiedi di marmo osservando la moltitudine che passeggiava qualche metro più in basso. Erano due uomini, entrambi nella prima giovinezza e dall’aspetto tipicamente britannico, riconoscibile essenzialmente dal taglio sobrio e dignitoso dei loro abiti da sera.

    I due giovani non dovevano avere molta fretta perché restarono fermi per qualche minuto osservando silenziosamente l’animato brulichio. Il più alto dei due era un ragazzo sui ventinove anni con il viso ben rasato e il portamento eretto. Complessivamente dava l’impressione di essere un soldato, anche se Milton Sands, tale era il suo nome, non poteva vantare molte campagne al suo attivo, tranne quella cui, per dovere di patriottismo, aveva partecipato durante la guerra boera, quando aveva ottenuto un grado nel reparto dei Cacciatori del reggimento di fanteria Vittoria.

    Il suo viso, naturalmente abbronzato, acquistava una più intensa colorazione sotto la luce dorata e dai riflessi bronzei del lampione. Gli occhi, grandi ed espressivi, di un colore grigio metallico erano ben distanziati sull’ovale del viso e sovrastati dalle linee nette e scure delle sopracciglia, mentre la bocca e la mascella volitiva esprimevano una forza e risolutezza interiori che rivelavano chiaramente il carattere del giovane anche a un osservatore superficiale. Però, gli occhi ridenti e una lievissima piega a un angolo della bocca suggerivano anche che si trattava di una persona in possesso di una rara e amabile qualità: un profondo e sincero senso dell’umorismo.

    Il suo compagno, anch’egli di forte corporatura e di statura media, era appena un po’ più basso; anch’egli ostentava un portamento militaresco, ma i lineamenti del viso apparivano, nel complesso, più morbidi e meno accentuati.

    Chi lo vedeva avrebbe potuto considerarlo un normale cittadino inglese benestante e sarebbe stato difficile arricchire di ulteriori particolari tale definizione. Come il suo compagno, era ben rasato e, dal colorito del viso, si capiva che trascorreva buona parte del suo tempo all’aria aperta. Lasciò cadere la cenere della sigaretta e, volgendosi rapidamente verso l’altro, domandò: - Quo vadis?

    Milton Sands sollevò lo sguardo sorridendo.

    - Alla casa della ricchezza e del peccato - rispose divertito.

    - In altre parole, al Casinò? - ribatté il primo con pari allegria. - Bene, spero solo che abbiate più fortuna del mio... - stava per dire amico, ma cambiò idea - di quanta ne abbia avuta Wilton. A voi come è andata ultimamente?

    Prima di rispondere, Milton Sands soffiò una serie di anelli di fumo nell’aria calma e immobile e, forse, durante quegli attimi di silenzio pregustò il piacere della notizia che Toady Wilton aveva perso del denaro, visto che quel tipo non gli era per nulla simpatico. - Non saprei dirlo - rispose infine prudentemente. - Da certi punti di vista è andata bene, da altri male. Vedete, in fondo avevo cominciato questo viaggio quasi con niente in tasca e adesso mi ritrovo ancora con il mio intero capitale.

    Eric Stanton scoppiò a ridere e guardò con ammirazione il suo gagliardo compagno.

    -In ogni caso, voi disponete sempre di un capitale inesauribile di buonumore - disse. - Mi sono spesso domandato se i giocatori si arricchiscano davvero al tappeto verde. Io, personalmente, non gioco mai, non in quel modo, almeno - si corresse. - Preferisco scommettere il mio denaro su un cavallo, perché so che, insieme, mi godrò anche una bella corsa.

    Ma non ho ancora sentito l’irresistibile attrazione del rosso e del nero o del trente et quarante, che invece voi trovate estremamente affascinante.

    - Non so se sia proprio così - riprese l’altro. - In realtà io non sono qui per passatempo, ma per far soldi. Questa si chiama sincerità, siete d’accordo? Sono venuto a Monte Carlo con un mio sistema e duecento sterline in tasca ma, per quanto riguarda il sistema, non sono ancora riuscito a farlo funzionare - concluse un po’ tristemente.

    Di nuovo Eric scoppiò a ridere. - Il fatto non sembra preoccuparvi molto - obiettò, e il suo compagno annuì col capo.

    - Perché dovrebbe? In fondo io sono un filosofo, un capitano di ventura... anche un avventuriero, se volete e vi posso assicurare che esiste una sorta di selvaggia esultanza nello strappare denaro dalle mani di un mondo in genere assai riluttante e, quando il rappresentante di questo mondo si identifica in un piccolo e panciuto croupier francese dalle basette ricciolute, la gioia diventa ancora più grande. Però ho fatto anche una cosa saggia - continuò rivolgendosi al suo compagno, con la bocca distorta da una smorfia ironica. - Ho depositato presso il cassiere di questo eccellente albergo una somma pari al presunto conto finale e, inoltre, sono già in possesso di un biglietto di ritorno per Londra. Per il resto... - così dicendo agitò vagamente la mano in direzione del ontano Casinò, così allettante nel suo sfavillante bagliore - quel che sarà corre solo sulla ruota del destino. Allons!

    Insieme discesero i gradini della scalinata, si tuffarono nel lusso di gente festante e furono ingoiati dalla tiepida notte primaverile. Ma, nel frattempo, qualcuno li aveva osservati con un certo interesse. Si trattava di tre individui in abito da sera che stavano tranquillamente seduti a un tavolino di marmo sulla veranda dell’albergo, fumando sigari e bevendo caffè.

    -Come mai non siete con il vostro amico, Toady? - domandò distrattamente uno di loro.

    L’uomo al quale era stata posta questa domanda parve alquanto contrariato e la sua faccia olivastra si aggrottò, formando innumerevoli piccole rughe di nervosismo mentre brontolava al suo interlocutore una risposta generica e seccata.

    - Oh, piantatela! - ribatté quello che aveva fatto la domanda. - Non è certo un’offesa essere amici di un milionario.

    - Voi continuate a prendermi in giro, Sir George - grugnì l’altro. - E questo sta cominciando a stancarmi. Comunque, se proprio desiderate sapere come mai non l’ho raggiunto, ve lo dirò più che volentieri - continuò beffardo. - Non volevo che mi vedesse in vostra compagnia.

    Sir George rise di cuore. Non era un uomo molto sensibile e l’implicito insulto contenuto nelle parole appena pronunciate lo lasciava del tutto indifferente. Si limitò a carezzarsi i lunghi baffi biondicci scrutando il suo interlocutore attraverso il monocolo. Sir George Frodmere era un bell’uomo di aspetto raffinato e rappresentava perfettamente il prototipo della macchietta che gli umoristi francesi portano usualmente sulla scena come il tipico esemplare del popolo inglese.

    - Mio caro Toady - esordì con tono paternalista - un uomo che ha trascorso l’intera vita cercando timidamente di avvicinarsi a duchi e a ogni altro esponente dell’aristocrazia inglese che abbia l’onere di dover esibire uno stemma nobiliare accanto al proprio riverito nome, dovrebbe sentirsi in obbligo di prestare un minimo di attenzione anche a un umile baronetto britannico. Mi rendo conto che il vostro amico nutre un invincibile pregiudizio nei miei confronti, però dovrebbe onestamente ammettere che io rappresento alla perfezione il modello di quel che deve essere un baronetto. E un bravo ragazzo - proseguì poi pensoso. - Assomiglia alquanto a sua madre, almeno da come la ricordo io.

    Quando ebbe finito di parlare, Frodmere lanciò un’occhiata pungente verso Toady Wilton e quell’omaccione bruno e olivastro si mosse a disagio sulla sedia.

    - Era una bella donna - continuò Sir George, quasi parlando tra sé, ma continuando a fissare colui che gli stava davanti attraverso le palpebre semichiuse. - Peccato che la sua vita sia stata un fallimento! Aveva abbandonato il marito, se non ricordo male?

    - Credo di sì - brontolò Wilton, poi cercò di cambiare discorso, proponendo di andare tutti a fare due passi, ma Sir George continuò, imperterrito, a incalzarlo.

    - Il vostro maldestro tentativo di evitare l’argomento e di lasciar cadere la conversazione è prova solamente o di naturale modestia o di profondo senso di colpa. E, a questo proposito, devo affermare di non aver mai rilevato nella vostra singolare struttura mentale la prima delle caratteristiche testé enunciate. Sì - insistette - se ne andò via dal vecchio Stanton perché...

    - Vedo che voi sapete già tutto sull’argomento - ribatté Wilton esasperato. - Comunque, se ne andò perché venne ingiustamente accusata di avere una relazione clandestina con Lord Chanderson.

    - Abbandonò la famiglia portando con sé la bimba, per quel che sono venuto a sapere - infierì Sir George. - Sì, fu una storia romantica e misteriosa e, se non mi sbaglio, nessuno vide mai più quella donna.

    Wilton scosse il capo.

    - Il mio amico Stanton spese un piccolo patrimonio per ritrovarla - disse. - Comunque, è stata una vicenda abbastanza penosa e io vi sarei grato se voleste lasciar cadere l’argomento.

    - E nessuno la vide mai più. Proprio così! - brontolò tra sé Sir George, ignorando l’evidente imbarazzo del suo interlocutore. - Né lei, né la figlia; e, quando il vecchio Stanton si accorse di quanto fosse stato stupido nel ritenere la moglie colpevole solo a causa delle chiacchiere, diffuse probabilmente per pura perfidia da qualche mascalzone dalla faccia di bronzo... avete detto qualcosa, Toady?

    - No - rispose l’altro a voce bassa.

    - Come stavo dicendo - continuò con noncuranza il baronetto - quando capì di essersi sbagliato, perché con tutti probabilità non seppe mai di essere stato deliberatamente ingannato quando gli avevano fatto credere che Lord Chanderson era innamorato di sua moglie, spese grosse somme d denaro per rintracciarla e, alla fine, si decise a lasciare metà del suo patrimonio alla moglie e alla figlia che aveva così profondamente offeso e umiliato.

    - Sì, fu un errore - balbettò quasi indistintamente Toady Wilton. - Si era messo in testa che fosse innamorata di Chanderson; vide le lettere che costui le avrebbe scritto e che, al contrario, si dimostrarono poi dei falsi.

    - Capisco - commentò Sir George, sorseggiando il bicchierino di liquore e tergendosi le labbra con un fazzoletto di seta.

    - E voi - riprese - eravate il suo migliore amico e avete beneficiato dal suo testamento.

    - Che senso ha tirare fuori questo discorso? - sbottò Wilton,

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