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Mi volevano normale
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Mi volevano normale

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“Fu così che mi ritrovai, senza neanche aver compiuto ventitré anni, ad aspettare la pensione. Sposato, impiegato di banca e con l’aggravante di un figlio: praticamente ero fottuto. Senza rendermene conto avevo bruciato intorno a me la terra della fantasia e dell’avventura per rinchiudermi in quella roccaforte che si chiama “normalità”, dove “la certezza del futuro” cancella l’entusiasmo in cambio di una sicurezza solo apparente. Da dietro quelle mura, dove la sorpresa si manifesta generalmente solo sotto forma d’incidente, guardavo passare i sogni di tutti gli uomini che, come me, avevano assaporato almeno per un poco l’emozione di non avere confini, di superare i limiti del destino familiare e di dedicarsi senza arte né parte a tutte quelle cose che, deplorabili o no, ti fanno sentire vivo, come creare, distruggere, inventare, sbagliare, sfidare, conquistare o addirittura rischiare la propria vita e quella altrui per futili motivi”.

Questa è la storia di un riscatto dalla “normalità”. Una rivoluzione marginale, di provincia, avvolta non dal fumo delle barricate ma da quello della marijuana. Un avvincente e disperato tentativo di realizzare il sogno che tutti i giovani di tutti i tempi hanno accarezzato: riscattarsi dal destino familiare. Un viaggio alla ricerca di se stessi che striscia anonimamente tra le pagine della storia italiana degli anni ’70 e ’80. Mi Volevano Normale è una divertente e toccante storia di errori necessari.
LanguageItaliano
PublisherPrem Dayal
Release dateJun 29, 2018
ISBN9788828345381
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    Mi volevano normale - Prem Dayal

    Note

    Introduzione

    Fu così che mi ritrovai, senza neanche aver compiuto ventitré anni, ad aspettare la pensione. Sposato, impiegato di banca e con l’aggravante di un figlio: praticamente ero fottuto. Senza rendermene conto avevo bruciato intorno a me la terra della fantasia e dell’avventura per rinchiudermi in quella roccaforte che si chiama normalità, dove la certezza del futuro cancella l’entusiasmo in cambio di una sicurezza solo apparente. Da dietro quelle mura, dove la sorpresa si manifesta generalmente solo sotto forma d’incidente, guardavo passare i sogni di tutti gli uomini che, come me, avevano assaporato almeno per un poco l’emozione di non avere confini, di superare i limiti del destino familiare e di dedicarsi senza arte né parte a tutte quelle cose che, deplorabili o no, ti fanno sentire vivo, come creare, distruggere, inventare, sbagliare, sfidare, conquistare o addirittura rischiare la propria vita e quella altrui per futili motivi.

    Ma ormai era troppo tardi. Non so nemmeno come avevo fatto a cadere nella trappola, non so quando avevo smesso i panni dell’animale selvatico per rivestire quelli di animale domestico. In che momento avevo voltato le spalle agli orizzonti infiniti della libertà per confinare i miei movimenti a un angusto tracciato da criceto di laboratorio? Sempre lo stesso percorso sotto le luci attente di quell’esperimento che si chiama normalità: casa mia, impacchettare il bambino, andare in macchina fino a casa di mia suocera, consegnare il pacchetto, raggiungere la banca, salire al quinto piano, sedermi alla scrivania, scendere per il caffè al bar a due isolati – sempre lo stesso – risalire al quinto piano, risedermi alla stessa scrivania, riscendere all’ora di pranzo per percorrere i quattro isolati – sempre gli stessi – che mi separavano dalla Casa del Tramezzino, risalire, riscendere... uscire alle cinque del pomeriggio, fare la spesa senza aver né voglia né fame, passare dalla suocera per recuperare il pacchetto, ritornare a casa, dar da mangiare ai cani e al pacchetto, un po’ di televisione... e poi a letto per riposare ed essere pronti la mattina dopo per ricominciare lo stesso percorso. Ero fottuto. Ed erano fottuti anche tutti quelli che mi amavano ed erano a differente titolo connessi alla mia vita, perché sentivo che in una maniera o nell’altra li avrei prima o poi trascinati nel baratro della mia disperazione.

    E ci avevo provato a essere normale! Dio sa se ci avevo provato! Ci avevo provato a far finta di non essere quello che ero, ci avevo provato a interpretare quel personaggio che tutta la società da sempre si aspettava che io interpretassi e che sin da bambino avevo fatto il diavolo a quattro per evitare. Nonostante le mie idee da fate l’amore e non la guerra mi ero arreso a servire la patria, regalando un anno della mia vita al servizio militare, come ogni cittadino a quei tempi era obbligato a fare; malgrado non credessi nel matrimonio e odiassi la chiesa, per far felice la famiglia dei miei suoceri, mi ero sposato e per giunta in chiesa! Ma soprattutto avevo accettato di entrare in banca! coronando il sogno di mio padre e mia madre che, con un sospiro di sollievo, si erano liberati così dalla crescente paura di non riuscire a piegare quel figlio ribelle al giogo della normalità.

    I primi giorni d’impiego ci avevo provato, Dio sa se ci avevo provato! Avevo addirittura un aspetto decente! Nonostante me li sentissi addosso come un cilicio, indossavo giacca e cravatta come un bravo impiegatino; dicevo buongiorno e buonasera come una scimmia ammaestrata, parlavo senza dire parolacce mordendomi continuamente la lingua e davo del lei a chiunque malgrado mi sembrasse di stare all’interno di un gioco di società dove dei bambini pieni di peli facevano finta di essere adulti. I miei capelli, ancora sotto shock per la brutalità del taglio inferto dal servizio militare, si erano adattati all’anonimato rinunciando al fulgore degli anni dei viaggi in autostop quando, fiammeggiando rossi e lunghi per le strade dell’avventura, mi avevano conferito l’ambito status di figlio dei fiori e regalato una tale sensazione di libertà da darmi addirittura l’illusione di essere felice.

    Ho deciso di scrivere queste memorie poiché sei troppo piccola perché possa raccontartele ora, ma non voglio correre il rischio di non avere il tempo di farlo quando avrai l’età giusta per ascoltarle. Quella di tuo nonno, ossia io, non è la storia di un uomo famoso, non è per nulla una storia esemplare e tanto meno contiene delle gesta così estreme da renderla meritevole del titolo di epica; nonostante ciò, probabilmente vale la pena raccontarla perché è la storia di un’inconsapevole e disperata ricerca della verità. Una ricerca fatta senza bussola e mappe del tesoro, una ricerca che passa attraverso gli errori, gli eccessi, le confusioni e gli smarrimenti di chi mette a repentaglio la propria vita per cercare di riscattare se stesso: riscattarsi dal destino familiare, dalle idee comuni, da ciò che è dato per scontato, dalle consuetudini, dalle tradizioni imposte, dai progetti degli altri e dall’uso che la società vuole fare di ognuno dei suoi componenti. Questa è la storia di un riscatto: un riscatto dalla normalità.

    Capitolo I

    L'INFANZIA

    I giorni eterni dove si perde l’essenziale

    CAPELLI ROSSI

    Normalità per i bambini significa essere unici, ossia non essere come gli altri.

    Poiché veniamo al mondo uno differente dall’altro, essere unico è assolutamente normale ed è il sintomo della nostra buona salute mentale e spirituale. Al contrario, cercare di essere come gli altri è il prodotto di uno sforzo che ci porta inevitabilmente lontano dalla nostra natura e di conseguenza ci rende anormali, psicologicamente infermi o, se preferisci, nevrotici.

    Purtroppo, nella vita di tutti noi, sin dall’infanzia impariamo a invertire completamente il significato di questi due termini, normale e anormale, scambiandoli l’uno con l’altro. A tutti i bambini viene fatto credere che essere normali non significa essere se stessi ma essere come gli altri. Ne deriva che tutte le volte che tradisci te stesso per essere come gli altri ti dicono bravo!, mentre tutte le volte che te ne freghi di come sono gli altri e rimani fedele a te stesso ti dicono che sei anormale. Il paradossale risultato di questa confusione è un mondo dove tutti si sforzano di essere come gli altri e nessuno cerca di essere se stesso. Se la nevrosi è un disturbo della personalità, ne consegue che quest’umanità è ammalata nel suo insieme e non c’è da stupirsi che si comporti in maniera così stupida da generare continuamente dolore a se stessa.

    Tuttavia i bambini, prima di venire infettati dalle idee di questa umanità frastornata, sono sani e non concepiscono nemmeno lontanamente l’idea di rinunciare a essere chi sono per diventare qualcun altro. Col tempo possono eventualmente sentire l’esigenza sociale di riconoscersi in un gruppo, ma dal punto di vista della natura esiste solo una categoria: l’unicità.

    Anch’io era unico come tutti gli altri bambini... anzi, nel mio caso potrei dire che io ero un po’ più unico degli altri, in quanto la mia normale unicità era accentuata da due caratteristiche particolari: una fisica e una sociale. Quella fisica era che avevo i capelli rossi, e in Sicilia, che è il teatro più importante della mia infanzia, ero l’unico pelo rosso del circondario. Quella sociale era determinata dall’ essere stato sin da allora sempre percepito come un forestiero. A causa dei continui trasferimenti di mio padre, il tuo bisnonno, mi trovai nell’incomoda situazione di parlare pugliese in Toscana, toscano in Sicilia e siciliano in Puglia. E se in Toscana ero troppo piccolo per avvertirne l’handicap, a Messina e a Taranto fu una vera sfida cercare di parlare un dialetto che non era il mio; e dato che non ci riuscivo dovetti imparare presto a mostrare i muscoli che non avevo per difendermi dalle burle dei compagni e guadagnarmi il rispetto altrui.

    Ora tu mi chiederai: Ma perché volevi parlare in dialetto? Perché il dialetto è il linguaggio della strada, e da quando ho memoria la strada e le cattive compagnie sono state sempre il mio mondo di riferimento. Ciò che sto per raccontarti, mia cara Ines, alla fin fine è una storia di strada e di cattive compagnie.

    Non mi piacevano i giochi di casa, da bravi bambini. La sola idea di essere un bravo bambino mi dava vergogna come se si trattasse di una malattia. Qualsiasi cosa che avesse l’odore della normalità mi faceva scappare via. Non so perché fossi venuto fuori così, ma la normalità mi dava orrore. Forse dipendeva dal fatto che la mia famiglia era una di quelle normali e io non volevo essere come loro. Per carità, i miei non erano affatto persone cattive! Al contrario! Se non consideriamo l’universalmente accettato comportamento criminale che porta tutti i genitori a plagiare i propri figli senza prenderne assolutamente in considerazione le caratteristiche, l’indole e le naturali inclinazioni, i miei erano assolutamente dei genitori normali. Nessun tribunale si sognerebbe di condannare dei genitori per aver commesso contro i propri figli crimini come il ricatto, la minaccia, lo stalking o la circonvenzione d’incapace, che generalmente sono puniti con anni di carcere quando sono commessi contro persone adulte.

    La mia insofferenza verso la normalità probabilmente era maturata anche in reazione all’immagine costernata del mio povero padre che, piegato verso di me, agitava le mani giunte davanti al mio naso. Ma perché non sei un bambino normale? Perché non sei come tutti gli altri?. O di mia madre che ringhiava per non potersi arrendere all’evidenza di non riuscire proprio a forgiare nel figlio l’immagine normale dell’uomo che avrebbe voluto per sé.

    Anche a scuola mi chiedevano di essere normale: ossia ubbidiente, disciplinato, di evitare stranezze, non farmi notare, scomparire nella massa... in altre parole: di non esistere. E rimanevo sbigottito di fronte all’abbagliante contraddizione a cui esponevano noi bambini: da un lato ci venivano proposti modelli come Gesù, San Francesco e Giovanna d’Arco, o di criminali come Napoleone, Alessandro Magno e Giulio Cesare, mentre dall’altro si aspettavano che ci adattassimo a vivere come il ragionier Palletti, il dottor Giannulli o come mio padre e mia madre.

    Nel dubbio, io sono stato uno di quelli che si è azzardato a schierarsi con quella banda di personaggi che, non importa se positivi o negativi, avevano avuto la capacità di ergersi al di sopra della calma piatta della normalità per arricchirla con una nota nuova o turbarla con un rumore. Proprio per questo, mia cara Ines, siccome per imparare a emettere note devi prima fare un sacco di rumori, nella prima metà della mia vita, che è quella che ho deciso di raccontarti, gli accordi intonati sono stati delle isole sperdute in un mare di stonature... cominciando proprio dalla mia infanzia.

    Fu nel 1962 che il mio trio familiare, infilato in una Fiat 1300 blu stracarica e cantando canzoni vecchie e nuove, fra cui quel mazzolin di fiori faceva da protagonista, dalla Toscana percorse verso sud tutta la penisola fino a sbarcare in Sicilia. Come saprai la Sicilia è un’isola triangolare che sembra sempre s ul punto di essere scalciata dallo stivale italiano; e nella mia fantasia di bambino, guardando la carta geografica che occupava tutta una parete del tinello della casa di Montevarchi, immaginavo che la Sardegna e la Corsica formassero la figura di un portiere che sullo sfondo avrebbe cercato di parare quel pallone triangolare quando quel simpatico stivale si fosse finalmente deciso a calciare.

    Mio padre, che non aveva ancora sviluppato quel terrore per le correnti d’aria che avrebbe caratterizzato la sua vecchiaia, come una polena con gli occhiali si mise sulla prua del traghetto che collegava la terraferma con l’isola, esponendosi senza timore al vento dell’avventura: godette sì la sensazione maschia di chi è disposto ad affrontare qualsiasi sfida pur di compiere il proprio destino, ma pagò le conseguenze del vento freddo con una fastidiosa diarrea che lascerà una macchia sul ricordo dell’arrembaggio in quella terra sconosciuta che andava a conquistare con l’orgogliosa promozione a Vi-ce-Di-re-tto-re-del-Ban-co-di-Ro-ma-di-Me-ssi-na.

    Il ’62 fu l’anno del debutto dei Rolling Stones e di Andy Warhol, nacquero Hulk, Diabolik, Superman e 007, mentre Stati Uniti e Russia spaventarono il mondo giocando a braccio di ferro appoggiati sull’isola di Cuba. Per me il ’62 fu l’inizio della trasformazione da cocco di mamma in ragazzaccio.

    Fu nel rione Trapani che cominciò la mia storia di strada. Un rione di periferia dove un bambino che si volesse affermare socialmente non si doveva solo confrontare con i suoi simili, figli di famiglie operaie o piccolo-borghesi, ma anche con i bambini di un sottoproletariato che viveva in baracche a ridosso degli edifici in costruzione che progressivamente riducevano le chiazze di quella campagna che, in quegli anni, fu il territorio sconfinato delle mie scorribande.

    Ci misi un po’ ad adattarmi; non solo alla nuova casa, nuova scuola e nuovo dialetto, ma anche a questo passaggio dai sei ai sette anni che, chissà perché, percepivo in maniera del tutto arbitraria come una transizione dall’infanzia all’età adulta. Da quel momento l’idea di chiedere aiuto per farmi difendere diventò un’onta insopportabile di cui, da un giorno all’altro, decisi che non mi sarei mai più macchiato. Ce la farò da solo! mi dissi. E ce la feci. Cominciai a mettere il naso fuori di casa infilandomi fra i bambini del cortile, che mi annusarono con la stessa curiosità e diffidenza che un gruppo di animali riserva a un nuovo soggetto dal colore e dall’accento strano; poi passai alla strada che stava fuori dal cortile e a suon di botte scoraggiai gli abitanti di quel territorio confinante a chiamarmi quattrocchi – soprannome che i bambini siciliani appioppavano a chi portava gli occhiali; poi estesi il mio raggio d’azione alle strade circostanti, ed esibendomi in estreme prove di coraggio mi conquistai il rispetto anche dei monelli più forti e più grandi di me; e infine, ormai come elemento integrante dei peggiori del gruppo, estesi il mio dominio all’intero quartiere, fino a infrangere le frontiere del nostro rione e sconfinare in quelli limitrofi, abitati da quei pericolosi soggetti che erano i nostri nemici.

    Puoi immaginare la sorpresa della tua povera bisnonna, ossia mia madre, quando cominciarono a giungere le prime lamentele per le variopinte birichinate di cui suo figlio, fra i tanti ragazzacci, veniva facilmente individuato come protagonista a causa dei suoi inconfondibili capelli rossi. Non ci poteva proprio credere che quel bambino su cui aveva riversato tutte le speranze di costruire l’uomo che avrebbe sempre voluto – serio, gentile, interessante, colto, onesto, sincero, brillante e coraggioso – le stesse irrimediabilmente sfuggendo di mano.

    Quelle nobili aspirazioni mia madre le aveva ereditate dall’asciutta atmosfera familiare in cui era cresciuta. Suo padre, ossia mio nonno, era un comunista tutto d’un pezzo che aveva sacrificato la pace e la sicurezza familiare per non essersi voluto piegare alla prepotenza del fascismo. Fu per questo che, negli anni Trenta, dopo aver subito abusi e prepotenze che spesso lo avevano costretto a scappare di notte sui tetti, dovette lasciare Santeramo, nel profondo sud, per trasferirsi con tutta la famiglia in un posto, almeno per lui, più anonimo: Torino, nel profondo nord. Insomma, era un uomo onesto di ferrei principi che torturò tutta la famiglia col suo idealismo puro, il suo senso di giustizia, l’onestà e il culto di un’orgogliosa povertà.

    Quest’eredità morale-spirituale che mia madre mi aveva inculcato ebbe effettivamente presa su di me, ma per ironia della sorte le si era rivoltata contro. Infatti, ricorrere a menzogne e sotterfugi mi sembrava umiliante: un bambino onesto, sincero e integro, come lei mi aveva insegnato a essere, non ricorre a sotterfugi per la difesa dei propri diritti.

    Probabilmente i miei poveri genitori, come tutti, avrebbero preferito avere a che fare con un bambino normalmente disubbidiente che racconta bugie per non incorrere nelle ritorsioni familiari; invece si trovarono ad avere a che fare con un piccolo Danton che li arringava con argomenti a cui, se un genitore non vuole essere violento o prepotente, non sa proprio come rispondere. Così, q uando per esempio mi dicevano di non entrare in quelle primordiali sale da gioco dove ragazzi più grandi di me, fumando e bestemmiando, sbatacchiavano i primi flipper che si affacciavano al mondo, o quando mi proibivano di andare in bicicletta sulla circonvallazione o m’intimavano di non distruggere tutto ciò che mi capitava a tiro, io non mi limitavo a contravvenire ai loro divieti, ma esponevo apertamente la mia disubbidienza al tribunale familiare schiacciando i giudici col cinismo di chi sa di essere più forte di loro. Con un’arroganza e un’arguzia che immagino lasciasse di stucco l’intera corte, sostenevo che la mia libertà personale fosse fuori dalla loro portata. Potevano certamente non darmi i soldi per giocare a flipper, questo sì era in loro potere, ma non potevano impedirmi fisicamente di andare nella sala da gioco. Potevano privarmi della bicicletta ma non potevano impedirmi di chiederla in prestito a qualcuno per andare dove volessi. Certamente avrebbero potuto sequestrarmi e rinchiudermi in casa; ma per quanto tempo? Prima o poi avrebbero dovuto farmi uscire , e allora la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata andare nella sala giochi, pedalare sulla circonvallazione, giocare a pietrate, infilarmi negli edifici in costruzione, bruciare ciò che mi capitava e fare tutte quelle bellissime cose che io concepivo come divertimento.

    Mettiti nei panni dei miei poveri genitori. Che potevano fare? Qualche grido, qualche sberla, qualche punizione... ma erano troppo buoni per soffocare la mia intelligenza con la brutalità con la quale spesso si mantiene l’ordine in alcune famiglie. Per mia fortuna furono abbastanza civili e intelligenti da non offendere gravemente la mia dignità, evitando di compromettere per sempre la fiducia in me stesso e nella vita. Per questo sarò sempre loro grato. Premere sul pedale della violenza e dei castighi estremi su un temperamento ribelle e orgoglioso come il mio forse avrebbe potuto spingermi, come succede a molti, ad assumere in età adulta un comportamento criminale con cui far pagare agli altri e a me stesso il prezzo di quell’umiliazione. Ma per fortuna non fu così... o lo fu solo in parte.

    In quegli anni che vanno dai miei sette ai miei dodici ne combinai di tutti i colori. Non so perché, cominciai a cercare l’affermazione della mia individualità nel concepire il divertimento come qualcosa che aveva a che fare con ciò che era proibito e non si sarebbe dovuto fare. Questa caratteristica mi ha accompagnato per moltissimo tempo in età adulta, e tuttora non posso vedere un divieto senza sentire la tentazione di infrangerlo.

    Mia madre, nonostante i rimproveri, non rinunciava a trattarmi come il bambino che le sarebbe piaciuto avere, continuando per un bel po’ a sforzarsi di farmi andare in giro pulito, ordinato e ben pettinato... ma soprattutto insistendo, a una certa ora del pomeriggio, a lanciarmi dal balcone un fagottino ben confezionato con dentro la mia merenda. Lei non capiva che la semplice idea di merenda non si confaceva al personaggio che avevo deciso di diventare. La merenda era una cosa troppo... troppo da femminucce! e io ero molto orgoglioso di non esserlo. Inoltre sta maledetta merenda consisteva in pane, burro e marmellata: troppo dolce, troppo appiccicosa, troppo poco virile per uno che si stava costruendo una reputazione da duro! Ma poiché le mie proteste contro il concetto di merenda si erano dimostrate vane, ebbi il colpo di genio di trasformare quella buona intenzione materna in un’opportunità per far danni al mondo. E così ogni pomeriggio fingevo di ricevere di buon grado quel fagottino lanciatomi dal balcone con tanta illusione, e lasciandomi solo sfiorare dal senso di colpa verso quella donna buona così innamorata di suo figlio, scomparivo alla portata dei suoi occhi per dirigermi saltellando alla buca delle lettere. In realtà le buche erano due: una per il continente e una per la Sicilia; e io, con innato senso di equità, separavo le due metà dell’appiccicosa merenda e ne spedivo una in Sicilia e una in Continente. Non posso nemmeno immaginare le maledizioni dei poveri impiegati degli uffici postali di mezza Italia, che per alcuni anni vissero con le mani appiccicose per colpa di uno stronzo di ragazzino che avrebbe meritato di essere preso a calci nel culo... dalla Sicilia fino al Continente.

    La povera donna, mia madre, ancora oggi coltiva la pia illusione che io sia stato rovinato dalle cattive amicizie e rifiuta di accettare una semplice evidenza: la cattiva amicizia ero io.

    La verità è che ero capace di trasformare qualsiasi gioco da bambini in una azione criminale. Se si trattava del normalissimo giocare a pallone, per esempio – cosa che facevamo non so perché in una strada asfaltata in discesa dove era difficile stabilire se l’handicap più grave fosse quello della squadra che attaccava in salita o di quella che, attaccando in discesa, faceva fatica a raggiungere un pallone che correva più dei giocatori – la parte più interessante del gioco per me era quella di sfidare il divieto e il pericolo di salire sul tetto della scuola quando la palla ci finiva sopra, e guadagnarmi il compenso di un ghiacciolo al negozietto. Andare normalmente in bicicletta sarebbe stato un divertimento da niente se non ci fossi andato senza mani o in piedi sulla canna o a tutta velocità in discesa e contromano, ma soprattutto su strade che non erano incluse nella topografia del permesso familiare; e se si trattava di giocare alla guerra, bene! Che guerra sia! Ci si divideva in squadre come se si dovesse giocare a palla prigioniera, e in un enorme buco lasciato dalle fondamenta di un palazzo mai costruito, che tutto il vicinato usava come discarica pubblica, ci si schierava gli uni di fronte agli altri costruendoci ripari di fortuna fra l’immondizia e i materiali da costruzione abbandonati. A un segnale stabilito la guerra poteva cominciare: ci si prendeva a sassate, si facevano assalti all’arma bianca, imboscate, ci si prendeva a legnate come se ci si trovasse di fronte a dei veri nemici... fino a quando qualcuno si faceva male. Allora si fermava il gioco; e poiché alla fine eravamo tutti amici, soccorrevamo il ferito di turno portandolo in lacrime dalla madre. Questa, ben lungi dal consolarlo, generalmente lo picchiava e ci malediceva in un modo tale che addirittura i figli dei baraccati apparivano mortificati. E così tornavamo al nostro vagabondaggio ciondolando, prendendo a calci ciò che ci capitava fra i piedi, con il proposito, almeno per quel giorno, di dedicarci a qualcosa di meno pericoloso: lanciare sacchetti d’immondizia sul balcone di uno scapolo che abitava al primo piano fino a riempirlo; infilarci nei cantieri dei palazzi in costruzione per rubare gli attrezzi da lavoro, giocare con il cemento o esercitarci nel karate rompendo interi cartoni di piastrelle; o incendiare qualcosa approfittando della grande quantità di paglia, cartone e legno lasciata in giro per via dei continui traslochi delle famiglie che venivano a vivere in quel nuovo quartiere.

    Non posso dire che fossi il peggiore, ma certamente non mi tiravo mai indietro. Mi ero fatto l’idea che un uomo che si rispetti non conosce ostacoli. Se l’influenza del nonno materno, quello comunista, mi aveva influenzato in maniera silenziosa, l’estrema somiglianza fisica con l’altro nonno, quello paterno, mi investì con il chiassoso entusiasmo tipico di quel ramo della famiglia: " Madò! Com’ s’ paresc’ a Peppin’ u russ’! " (Madonna! Come assomiglia a Peppino il rosso!). I capelli rossi effettivamente li avevo presi da lui, le spalle larghe anche, le mani e i piedi erano identici... e che dire del carattere? Uguale! Almeno questo è quello che dicevano loro. Anche se effettivamente gli somigliavo parecchio, non c’è dubbio che il loro desiderio di vedere riprodotti nel primo nipote maschio i caratteri del capostipite li spinse a esagerare; tanto che, adesso posso dirlo, per non deludere le aspettative familiari mi prodigai per assomigliare ancora di più a quel nonno di cui tutti raccontavano le gesta mischiando la vergogna con l’orgoglio.

    Nonno Peppino era stato una vera testa calda. Buontempone, sempre pronto allo scherzo e donnaiolo dalle mani bucate, aveva affondato moglie e figli nella miseria più nera quando, nel 1928, alla vigilia della crisi economica più grave del secolo, in un accesso della sua patologica irresponsabilità aveva venduto una fiorente cava di calce per investire tutti i soldi in una lussuosa sala da biliardo; e non solo! Invece di amministrare con scrupolo quel rischioso investimento, con sconsiderata fiducia ne affidava la gestione al figlio di sei anni, mio padre, mentre lui caricava la bicicletta e se ne andava allegramente a caccia con gli amici.

    Se da un lato mi veniva additato come l’esempio da non seguire, dall’altro, con sonorità e gesticolazioni tutte meridionali mi venivano narrate le sue avventure, le sue stravaganze e i suoi atti di eroismo, come quelli di un mito. Da bambino ne rimanevo affascinato. Se nonno Gaetano con la sua intransigenza intellettuale mi faceva sentire importante, nonno Peppino mi faceva sognare. Le medaglie al valore ottenute nella guerra del ʼ15-18... la campagna d’Africa nel deserto della Dancalia... quella volta che rovesciò la gavetta in testa al tenente e dovette fingersi pazzo per non finire in prigione... quell’altra in cui di notte fece saltare un ponte sul Tagliamento cadendo nel fiume in piena insieme a un reggimento di bersaglieri... quando spogliò un cadavere per potersi cambiare i vestiti... o quel giorno quando, davanti a tutti i bambini, entrò in classe e afferrò per il collo il maestro di mio padre, colpevole di averlo punito con la bacchetta. E che dire di quella volta che, già sessantenne, difese mia madre appena sposina rompendo il culo a quel giovane che l’aveva importunata sul pullman Trani-Bitonto? Ma, fra tutte, la storia che mi piaceva di più era quella dell’albero di percochi, o percocche, come si dice in italiano. È così particolare che ho sempre pensato di farne un cortometraggio in bianco e nero seppiato, recitato in bitontino antico... con sottotitoli, naturalmente. Erano i primi anni Venti e mio nonno, ossia il tuo trisavolo, ne avrà avuti venticinque.

    Giusto davanti alla cava di calce dove lavorava c’era il campo di un certo Mngocc (un derivato bitontino del nome Domenico). Fra i suoi alberi da frutta ce n’era uno veramente speciale: un albero di percochi. A vederlo non lo si sarebbe distinto da un qualsiasi altro albero, ma quando arrivava maggio tirava fuori una tale quantità di frutti così grandi, succosi e profumati che era impossibile non notarlo. Erano anni che mio nonno e l’altro paio di lavoranti vedevano quei percochi maturare, ma non avevano mai potuto assaggiarne nemmeno uno perché Mngocc era di una tale tirchieria!... Quando cominciavano a essere maturi si trasferiva sotto quell’albero, notte e giorno, per evitare che glieli rubassero. A nonno Peppino, che era di una generosità così sconsiderata da far strappare i capelli alla misuratissima nonna Rosaria, questa tirchieria gli faceva rivoltare lo stomaco.

    Un giorno, quando i frutti già scoppiavano di succo, una donna incinta passò sulla strada polverosa sotto il sole. Mio nonno lanciò la sua voce all’indirizzo del taccagno:

    Mngocc! Dang’ nu prquuc’ a la sgnaur’!

    Che significa: Dai un percoco alla signora!.

    Non fu tanto ciò che rispose Mngocc a decretarne la condanna, quanto il modo in cui lo fece. Senza parole si sbracciò in un gesto stizzito all’indirizzo di mio nonno, che significava: Stai zitto, fatti i fatti tuoi! Se quella ti sente sarò costretto a dargliene uno, perché non posso rifiutarlo a una donna incinta!. Questo fu troppo. Mio nonno non era tipo da aspettare il giorno del giudizio universale per punire una tale meschinità! E così gli venne un’idea.

    Qualche notte dopo, d’accordo con i lavoranti, appiccò un fuoco a qualche centinaio di metri dall’albero di percoco. Mngocc, incuriosito dalle fiamme che nell’oscurità si vedevano da lontano, con indolenza notturna, un passo dopo l’altro, si avviò in direzione dello strano incendio lasciando l’albero incustodito.

    E allora, che fece il tuo trisavolo? Rubò tutti i percochi? No, questo sarebbe stato banale. Nonno Peppino era creativo: con i suoi compari segò l’albero alla base e lo nascose nella fornace in cui cuocevano la pietra. Poi, nascosti nel buio, aspettarono.

    Dopo una mezz’oretta videro Mngocc ritornare ciondolando con le mani in tasca. Arrivato al punto in cui sarebbe dovuto esserci l’albero, ovviamente, non si fermò, perché non essendoci più l’albero non lo riconobbe. Ma dopo una ventina di passi si fermò: guardò da un lato, poi guardò dall’altro... tornò indietro, si fermò di nuovo... poi riprese ad andare avanti con gli occhi protesi nella notte... I suoi movimenti cominciavano a rivelare una crescente inquietudine. Senza quell’albero, alla flebile luce delle stelle, non riusciva proprio a riconoscere il posto. Scosse la testa... tornò sui suoi passi... poi deviò da un lato... poi dall’altro... poi accelerando l’andatura scomparve nel buio. Dopo alcuni minuti ritornò toccandosi la testa in uno stato di evidente confusione: guardava a destra, guardava a sinistra... poi spariva di nuovo nel buio... poi ritornava sempre più angosciato... respirava con affanno... si muoveva ormai senza senso come in preda alla follia.

    Non so esattamente come finì la storia ma so come finirà il mio cortometraggio: Mngocc continuerà tutta la notte a cercare il suo albero, perseguitato dagli spiriti dell’avidità e dell’avarizia. Le prime luci dell’alba lo vedranno esausto e totalmente uscito di senno vagare per la campagna.

    Era veramente difficile non innamorarsi di quel figlio di puttana di mio nonno, e anche se ho convissuto pochissimo con lui, fu inevitabile, nel bene e nel male, essere stato condizionato dal suo fantasma.

    IL PECCATORE E IL SANTO

    Se per la strada interpretavo il personaggio del rude guerriero dei film d’avventura, quando giocavo in cortile, unico luogo permesso alle bambine, non mi esibivo solo in atti di coraggio e prove di abilità ma diventavo anche gentile e galante. Ero fidanzato con Giovannella, una bella bambina che aveva una caratteristica mai più trovata in nessun altro in tutta la vita: quando rideva le tremavano i lati del naso, assumendo l’aspetto di un graziosissimo criceto. Ricordo ancora l’infantile eccitazione di sentire il suo corpicino vicino al mio mentre, giocando a nascondino, rimanevamo nascosti in cima alle scale che portavano su uno dei terrazzi. Lì, accucciati l’uno accanto all’altra, sentivamo le voci degli amici gridare il nostro nome fino a stancarsi, e ridevamo. A volte, infilati nel portabagagli di una macchina abbandonata di cui eravamo diventati padroni, una Appia se non sbaglio, avvolti nell’odore così tipico dell’imbottitura di un’auto che un tempo era stata di lusso, silenziosamente ci tenevamo stretti sentendo nei nostri corpi la trepidante promessa di qualcosa che prima o poi sarebbe sbocciato con irresistibile forza, ma di cui ancora non avevamo idea.

    Un giorno, all’uscita di scuola, la chiamai in disparte per dirle solennemente che ormai eravamo abbastanza grandi per cominciare a passare dai baci sulle guance a quelli sulla bocca. Il mio amico Riccardo mi aveva già dato i primi rudimentali ragguagli sull’argomento: dovevo mettere il braccio destro sopra la sua spalla, il braccio sinistro sotto la sua ascella – per poterla piegare da un lato – e poi bisognava infilargli la lingua in bocca muovendola in un modo che non avevo ben capito. Con queste spiegazioni mi sentivo già un amante navigato. Giovannella, con l’aria di chi si trovava di fronte alla prima decisione cruciale dell’età adulta, mi rispose che ci avrebbe pensato su. Quando dopo qualche giorno ci rivedemmo, mi disse che non si sentiva ancora pronta per avere figli.

    Nonostante questa appassionata relazione, tuttavia, a quei tempi il mio cuore di bambino sperimentava già in maniera precoce il conflitto a cui prima o poi sono condannati tutti quelli che si arrendono prematuramente alla noia della monogamia. Infatti, anche se fidanzato con Giovannella, ero segretamente innamorato della misteriosa e irraggiungibile Raffaella: una biondina dai capelli lunghi, della quale si poteva scorgere solo la silhouette mentre ci guardava giocare da dietro le tendine della finestra oltre la quale era reclusa da un padre insensatamente geloso.

    Quell’immagine onirica e malinconica mi faceva pensare a una principessa da salvare dal mostro che la teneva rinchiusa nella torre del suo castello. Ero convinto che nel mondo ideale della mia fantasia avrei sicuramente posseduto un cavallo bianco col quale liberarla acchiappandola al volo nelle uniche occasioni in cui era possibile vederla, ossia di mattina, quando suo padre carceriere l’accompagnava a scuola dalle monache. Non sapevo che la mia caparbietà, molti anni dopo, mi avrebbe alla fine portato fra le sue braccia. Ma questo te lo racconterò dopo.

    Insomma, a Messina diventai un vero mascalzone, anche se cominciai a rivelare anche uno spiccato romanticismo, un naturale senso di giustizia e una certa sensibilità.

    Rimanevo molto sorpreso, per esempio, nel constatare che non solo le femminucce, ma addirittura quei duri dei miei compagni di scorribande, sempre più spesso mi cercavano per confidarmi i loro segreti e chiedere consiglio sui quei piccoli drammi che da sempre affliggono i bambini senza che mai nessuno se ne accorga. Al principio questa fiducia accordata al mio criterio in fatto di consigli di vita mi colse un po’ impreparato, ma ben presto mi resi conto che, mentre per affermarmi nel campo delle monellerie – che era il vero territorio su cui avevo deciso di affermare il mio imperio – dovevo sforzarmi, per indossare i panni del piccolo saggio non facevo alcuna fatica. Perciò cominciai a inventare le mie risposte usando un innato buon senso che a me sembrava ovvio, ma che evidentemente non lo era per quelli che consultavano quel giovane oracolo.

    Il convivere di queste due anime, il peccatore e il santo, è una caratteristica che mi ha sempre accompagnato: essere contemporaneamente buono e cattivo, creativo e distruttivo, ateo e religioso. Dal punto di vista logico sembra una contraddizione, però guardando un po’ più in profondità è facile accorgersi che tutte le caratteristiche negative, in un certo senso, dipendono dall’impossibilità d’incarnare quelle positive. Chi mai non desidera amare ed essere buono? Nel fondo di tutti gli esseri umani, secondo me, anche nei più crudeli e criminali, magari in maniera contorta ed embrionale, si trova sempre il seme dell’amore e della bontà, perché credo che siano proprio queste le caratteristiche che ci rendono umani. E umani, in qualche modo, tutti lo siamo.

    Ma perché allora – mi chiederai – la storia dell’umanità, fino ai giorni nostri, sembra governata quasi esclusivamente dall’odio e dalla cattiveria?. Se prendo come criterio la storia che ho deciso di raccontarti, cara Ines, ossia la mia, la risposta è chiara e si può racchiudere in due parole lapidarie: ignoranza e impotenza. Mi sono trovato a odiare non perché fossi cattivo ma per la frustrazione di non essere capace di incarnare il naturalissimo sogno di amore che alberga nel cuore di ogni essere umano. Mi son trovato a distruggere per la frustrazione di constatare che tutti erano interessati alla mia obbedienza e nessuno alla mia creatività; mi sono trovato a essere ateo non perché fossi indifferente a esplorare il mistero della vita, ma solo perché l’idea di Dio che mi veniva proposta era infantile e ridicola. Solo per puro caso, quando il protagonista di questa storia scomparirà, avrò la fortuna di salvarmi dalla comune condanna di rimanere sospeso nella schizofrenia di chi, o si accompagna con quelli che godono della gaia ottusità delle credenze, o con coloro che, congelati dal dubbio, si accontentano dell’ intelletto al prezzo della felicità.

    Come succede a tutti quelli che hanno la sfortuna di nascere in un paese religioso, anch’io da bambino sono stato plagiato al punto di arrivare a credere a delle stupidaggini incredibili. Sciocchezze che prima o poi, come la Befana e Babbo Natale, rivelano la loro assoluta inconsistenza, lasciandoti senza nessun riferimento spirituale decente. Anch’io, come tutti, fui indotto a credere che esistessero il paradiso e l’inferno; anche a me fu inculcata la paura del demonio da una parte e la fiducia di un amico immaginario che si chiama angelo custode dall’altra; anche a me fecero credere che la mamma di Gesù, contrariamente alla mia, era rimasta vergine anche dopo aver partorito il figlio; mi dettero per certa anche l’esistenza di un Dio che, senza la minima discrezione, mi osservava da lassù anche quando stavo nel bagno, e che, sempre lui, lo stesso Dio guardone, aveva un figlio unico che quando morì se ne andò in cielo rendendo immortali anche ciò che aveva addosso – dal momento che nell’immaginario di un bambino è inammissibile l’idea che Gesù sia rimasto in cielo per tutta l’eternità senza nemmeno le mutande. Insomma, come tutti, anche io ero pieno d’idee fantasiose che, quando visiti una tribù di selvaggi ti strappano il sorriso compiacente del turista di fronte al folclore, ma che quando diventano la base dello sviluppo spirituale dei tuoi figli ti fa venire voglia di gridare: ma basta! Com’è possibile che nessuno intervenga a difesa dell’intelligenza?

    Non so come la penserai tu quando leggerai questo racconto, però chi approfitta dell’ingenuità dei bambini per inculcar loro idee arbitrarie spacciandogliele come la verità, secondo me dovrebbe finire in tribunale per circonvenzione d’incapace. Spero che quando leggerai questo libro il mondo si sia reso conto che non si può coltivare l’intelligenza di un bambino se, invece di nutrirla con la verità, la si nutre con le stupidaggini. Ai miei tempi nessuno ci faceva caso. E il colmo era che le stesse persone che avevano rovinato l’intelligenza umana con idee da cartone animato, ignorando la monumentale contraddizione di cui erano protagonisti, puntavano il dito per condannare i comportamenti criminali degli stessi soggetti che proprio loro avevano educato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

    A dispetto di ciò, nonostante il mio istinto di bambino mi dicesse che c’era qualcosa di strano nelle storie che mi raccontavano, io provavo una grande attrazione per la fede cristiana, la chiesa e il mistero di Dio. Ovviamente non ero ancora cosciente delle trappole che ogni religione basata sulla colpa tende ai suoi adepti, anche se a un livello istintivo, probabilmente, la mia ribalderia era una forma di vendetta verso un mondo degli adulti che percepivo ipocrita e inadeguato. Non avevo certamente ancora articolato i concetti che mi avrebbero portato presto a un estremo sterile materialismo, ma in quel ragazzino insofferente a tutte le regole e le imposizioni, adesso posso vedere i semi dell’albero che verrà. Nonostante il fascino che il silenzio ascetico dei rituali ecclesiastici m’ispirava, il richiamo dell’avventura che si apriva fuori dalle mura della casa, della chiesa e della scuola, ebbe la meglio.

    Un giorno dopo l’altro, un mese dopo l’altro, l’immagine del santo diventava sempre più sbiadita, mentre il peccatore ravvivava i suoi colori. Meno e meno tempo dedicavo alla confessione e alla preghiera, più e più tempo dedicavo alle scorribande e al vandalismo.

    Ma non credere che fossi un delinquente! Beʼ, certo, alcune dosi di cattiveria almeno ogni tanto bisognava dimostrarle in società, per non rischiare che gli altri approfittassero di te.

    Anche se mi ripugnava l’idea di ferire chiunque sia fisicamente che moralmente, sapevo che per conquistare il regno su cui avevo messo gli occhi, ossia la strada, era assolutamente necessario non dare mai agli altri l’impressione di essere buono, perché buono, almeno nella mia immaginazione, era sinonimo di fesso. Per questo, malgrado nel mio intimo sapessi che era una cosa sbagliata, ogni tanto facevo il prepotente con uno, lo sbruffone con l’altro, mi univo alle crudeli burle di cui spesso sono vittime alcuni bambini, e a volte mi picchiavo con qualcuno. In realtà non mi piaceva fare a botte. E se il mio orgoglio m’imponeva di accettare da uomo i colpi ricevuti, c’era qualcosa di inconcepibile che mi portava inspiegabilmente a scoppiare in pianto non quando le prendevo ma quando a suonarle ero io, lasciando una macchia sull’impavida immagine di guerriero che volevo dare di me stesso. Picchiavo e piangevo. Si può essere più stupidi di così? – mi dicevo. – Maledizione!. Ma non c’era proprio niente da fare. Vi era qualcosa nel profondo di me che probabilmente piangeva per essere costretto a fare qualcosa che non voleva fare.

    Tu mi potrai chiedere: Ma perché facevi a botte se non ti piaceva?.

    Era una questione di sopravvivenza, Ines. Il mondo dei bambini che io avevo scelto era selvaggio e veniva regolato dall’aspetto più primitivo delle relazioni umane: quello governato dalla forza fisica, dalla velocità, dall’istinto e dall’astuzia. Non eccellevo in forza, non tanto in velocità, ma d’istinto e di astuzia ne avevo abbastanza da dare l’impressione di non temere niente e nessuno. Avevo imparato a essere amico di quelli più forti senza mai dare l’impressione di averne paura o rivestire un ruolo da gregario, e men che mai da sottomesso; avevo capito che difendere i più piccoli e le femmine dava prestigio e faceva guadagnare consenso, perché è ciò che ci si aspetta da una persona di potere; e soprattutto imparai a farmi dei nemici, figure senza le quali per la strada non si può acquisire quel carisma che incute rispetto. Ovviamente me li sceglievo, con molta astuzia, fra quelli con cui non avrei avuto troppa difficoltà a dare una buona mostra di me stesso, ma non troppo poca da rischiare di essere additato come un vigliacco che approfitta dei più deboli.

    Mi riuscì quasi sempre, ma una volta il mio desiderio di assicurarmi un posto fra i soggetti emergenti del branco mi spinse a fare un passo falso.

    C’era un ragazzo di un altro rione che tutti chiamavano Tiraciolla. La ciolla è la versione siciliana della barese ciola, ossia ciò che abita fra le gambe dei maschietti. Immagino non ci sia bisogno di spiegarti cosa significhi tiraciolla. Non so perché lo chiamassero così e se avesse mai meritato quel brutto soprannome, ma tutte le volte che passava per portare il pane o altri prodotti alimentari a domicilio – perché lui, al contrario di noi, lavorava – tutti gridavano: Tiraciolla! Tiraciolla!

    Tu capirai che non potevo essere da meno: Tiraciolla! Tiraciolla!

    Una sera – avrò avuto poco più di dieci anni, perché mia sorella era nata da poco – mi trovavo con due amici a un angolo di queste strade rionali deserte e poco illuminate, quando vedemmo passare il povero Tiraciolla con il suo canestro pieno di alimenti: andava a fare l’ultima consegna della sua lunga giornata. Tutti e tre come sempre gridammo: Tiraciolla! Tiraciolla!. Non sarebbe successo niente di nuovo se inaspettatamente non avessi deciso di utilizzare quel pretesto per dare agli altri due una prova di ferocia utile alla mia affermazione sociale. Caricai la voce e i gesti di una veemenza sproporzionate alla situazione:

    – Tiraciolla! Tiraciolla! Tiraciolla!

    Grave errore. Fu la prima volta nella mia vita, e purtroppo non l’ultima, in cui imparai che offendere l’orgoglio altrui per nutrire il proprio è molto pericoloso. Anche quando l’altro apparentemente è più debole di te, umiliarlo ti espone sempre a grandi rischi o addirittura a catastrofi. Ma io non lo sapevo ancora, e così: Tiraciolla! Tiraciolla! Tiraciolla! Il ragazzo era abituato a farsi offendere ma, come abbiamo appena detto, nessuno ti perdona di sentirsi umiliato. In aggiunta, per un istinto completamente animale, Tiraciolla intuì che la mia spavalderia era spropositata rispetto al mio reale potere, e che la mia voglia di combattere era inferiore al desiderio di emergere. Pertanto, il classico copione che vedeva Tiraciolla allontanarsi con le spalle curve inseguito dalle grida di scherno ebbe un colpo di scena: il ragazzo si voltò, ritornò sui propri passi, mi guardò negli occhi, e con una determinazione che nessuno avrebbe potuto sospettare disse:

    – Aspettami qua. Fammi fare la consegna e ti faccio vedere io.

    Troppo tardi per tirarsi indietro.

    Mi fu subito chiaro che mi ero cacciato in un pasticcio e che avrei dovuto affrontare da solo le conseguenze degli insulti che avevamo lanciato in tre. I due amici, infatti, un po’ per codardia, un po’ perché non volevano subire gli effetti di un incidente che avevo provocato io, e un po’ anche per punire quel mio tentativo di scalata sociale, presero immediatamente le distanze dalla situazione. Senza battere ciglio si spogliarono del ruolo di protagonisti per vestire quello di comparse, e in un attimo, da essere miei complici, assunsero l’atteggiamento di due spettatori di passaggio che non hanno nessuna intenzione di interferire sulla decisione che aveva preso la vita di ristabilire le gerarchie. Si appoggiarono al lampione che illuminava fiocamente quel maledetto angolo di strada e stettero a guardare.

    Senza tradire minimamente le perplessità e i dubbi che minavano la mia sicurezza, aspettai il mio destino ostentando spavalderia.

    Quando ritornò, con spiccato senso del teatro Tiraciolla aveva indossato il paniere a mo’ di tracolla, come un guerriero d’altri tempi, e procedeva con temerarietà. Fu in quel momento che mi resi conto del mio errore: Tiraciolla era un poco più alto e decisamente più robusto di me; non l’avevo mai notato. Ciononostante non mi feci intimorire... o meglio, non potevo farmi intimorire davanti al pubblico! Con altrettanto senso del teatro giocai di sorpresa e, afferrandolo per il manico del paniere, cominciai a sbatacchiarlo avanti e indietro provocando un effetto comico apprezzato dal pubblico con mormorii di approvazione. Uno a zero per me, pensai. Ma Tiraciolla, resosi immediatamente conto dell’errore a cui spesso induce la vanità quando fa preferire il senso estetico alla praticità, si affrettò a liberarsi di quello stupido paniere, e ancora più inferocito per l’errore commesso si avventò su di me come una furia. Ci scambiammo in ugual misura calci, pugni e schiaffi in tutte le parti del corpo; ci rotolammo per terra tirandoci per i capelli... morsi, graffi, strangolamenti... Ringhiavamo e sbuffavamo in un confronto all’ultimo sangue che nessuno dei due aveva alcuna intenzione di perdere. Se per me quell’incauta rissa era uno stupido errore di valutazione che non avevo nessuna voglia di pagare con l’onta della resa, per lui era un’occasione di riscatto irripetibile. Quel cretino dai capelli rossi gli stava dando, a un prezzo accettabile, la preziosa possibilità di recuperare almeno un po’ di quella dignità che mesi o forse anni d’insulti avevano schiacciato nel mutismo della rassegnazione. Ruggiva Tiraciolla, e ruggivo pure io... ma non tardai a rendermi conto che si stava mettendo male. Non era il coraggio che mi mancava, non era la forza o l’abilità, ma fu il fiato a diventare corto.

    Dopo non so quanti minuti, che a me sembrarono moltissimi, eravamo entrambi segnati da un combattimento che nessuno dei due sapeva come terminare. Se avessi colto in lui il minimo segno di un possibile armistizio avrei immediatamente smesso di combattere salvando l’onore; ma sto maledetto Tiraciolla sembrava disposto a morire in quella pugna. Il ritmo forsennato dei primi minuti era calato, ma la sua cieca determinazione mi costringeva a continuare a sferrare colpi che diventavano via via meno efficaci. Sentii che stavo per soccombere: ebbi paura. Cos’è meglio, perdere con onore lasciando l’esercito sul campo o un’ingloriosa ritirata che metta in salvo le truppe? Meglio la morte con la certezza che i posteri ti ricordino come un eroe, o la fuga con la flebile speranza che gli storici la interpretino come un sano pragmatismo? Scelsi il sano pragmatismo. Peccato che nella mia testa si tradusse in un unico grido che lacerò senza rimedio il rispetto di me stesso: vigliacco!!!

    Scappai. Tiraciolla non m’inseguì, a dimostrazione che anche lui era al limite e non aspettava altro che lo scontro terminasse.

    Maledizione! – pensai. – Se avessi resistito ancora un poco forse avrebbe ceduto lui, il mio orgoglio sarebbe stato salvo e la mia popolarità alle stelle!

    Fui quasi tentato di ritornare a combattere. Mi fermai a guardarlo: era lì, ansimante, con la spalla dritta sotto la luce del lampione, che mi guardava come una bestia che non è disposta a cedere il territorio che ha appena conquistato. Era lui il vincitore. Non mi restava altro che raccogliere i cocci del mio orgoglio e tornarmene a casa dalla mamma.

    Che vergogna! Che vergogna! Che vergogna!!!

    A poco mi servì cercare di confortare me stesso con la pietosa giustificazione che non ero scappato per codardia ma solo perché si era fatto troppo tardi e non volevo che i miei si preoccupassero. Ero un codardo e basta.

    Arrivai a casa in lacrime, non per le botte prese, non per le ferite, ma per il disonore. Avevo messo a rischio la mia reputazione! E questo non me lo potevo perdonare.

    Alla comprensibile apprensione di mia madre non potetti rispondere dicendo che mi ero preso a botte per aver chiamato qualcuno Tiraciolla; pertanto m’inventai una scusa che avevo costruito salendo trafelato i tre piani di scale: ero stato costretto a difendere l’onore di mia sorella – che aveva tre mesi – perché un incauto fellone l’aveva chiamata puttana. Mia madre se la bevve, o finse di bersela, e sorridendo alla tenerezza che fa un bambino che difende l’onore della sorella di tre mesi, probabilmente si compiacque all’idea di stare allevando un eroe. Peccato che non fosse vero!

    Quella notte, anche se per la strada l’arroganza mi aveva portato a macchiarmi dell’onta della vigliaccheria, almeno in famiglia la furbizia mi aveva fatto guadagnare un pezzettino di immeritata gloria. Ma ciò non fu sufficiente a farmi andare a letto orgoglioso di me stesso.

    ***

    Solo un osservatore superficiale può prendere per cattiveria ciò che per un bambino è semplicemente una reazione alla paura. La mia paura era quella di essere sopraffatto. L’avevo ereditata con ogni probabilità da mio padre, che da sempre era stato terrorizzato all’idea di avere un figlio incapace di difendersi dalla prepotenza dei compagni. Probabilmente era troppo buono e delicato per essere in grado di insegnarmi a farlo. È per questo che, per non dargli un dispiacere e per evitare di cadere in quel baratro che si apre quando permetti al primo di approfittare di te, imparai a colpire per primo. Ma ciò non basta per dire che fossi cattivo.

    Il livello di dolore cui ero sottoposto era sufficiente a

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