La verità di Elvira: Puccini e l'amore egoista
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Anteprima del libro
La verità di Elvira - Isabella Brega
egoista
1.
La Butterfly di Torre del Lago
1909, Giacomo
Inseguivo la Fanciulla nelle praterie americane, sotto cieli infiniti e spazi immensi. Inseguivo le melodie prigioniere della mia mente, il futuro e i sogni di gloria. E la mia vita mi è sfuggita di mano. Non mi sono accorto di quello che stava succedendo qui, nella mia casa, sotto i miei occhi. O almeno lo sottovalutavo. Nonostante tutto non potevo immaginare Elvira dove ti avrebbe e ci avrebbe portato la potenza terribile del tuo amore malato. Non potevo immaginare neanche la forza disperata dell’innocenza calunniata. Il gesto, la volontà, la ribellione di un piccolo cuore, di una piccola anima, Doria, la nostra giovane cameriera travolta da un disegno mostruoso più grande di lei.
Ora il destino grida forte. Il mondo si è capovolto e le mie certezze sono andate in mille pezzi. Come nelle più cupe tragedie romantiche, nei più svenevoli e melensi romanzi ottocenteschi, il dramma ha fatto irruzione nella nostra quotidianità. Con quelle tre pastiglie di sublimato ingoiate una notte Doria ha fatto sì che la finzione si trasformasse nella più cupa delle realtà. Il fato ha strappato la storia piccola di quelli che la storia non la fanno ma la subiscono. Ha spazzato via perbenismo e certezze.
Il melodramma non può avere il meglio sulla vita, lo sapevo bene io che facevo impazzire i librettisti per ottenere rime più efficaci, scene più forti e coinvolgenti. Lo sapevo bene, ma questo non è bastato per salvare la mia vita ordinata e tranquilla, il mio nido confortevole, il mio onore, le mie certezze e i miei riti dal caos. Il fragore del mondo ha increspato le acque selvatiche del mio lago e ha fatto salire a galla la melma della nostra esistenza. Non potevo immaginare che la disperazione avrebbe dato a Doria, la ragazzina che mi guardava ammirata con i suoi grandi occhi scuri sotto la pesante crocchia dei capelli, quella forza e determinazione che io non ho mai avuto. E mai avrò.
Io so di che cosa sono capaci le donne, l’ho celebrato, l’ho cantato. Eppure non ho saputo prevederlo. Sono stordito, annichilito. La piccola farfallina, la Butterfly di Torre del Lago, non si è uccisa lontano, nell’esotico Giappone dei fiori di ciliegio, con la spada dell’onore, ma qui, nel mio lago dalle acque di giada, pesanti e solitarie, sotto i miei occhi di musicistacacciatore, fra il richiamo delle anatre e dei beccaccini che si perdono all’orizzonte e i canneti malati di melanconia. Eppure anche lei ha scelto una morte brutta, crudele, terribile, che dilania le viscere e fa urlare dal dolore per giorni e giorni. Perché con onore muore chi non può serbar vita con onore. Quell’onore che tu le hai rubato con le tue accuse, le tue calunnie. Hai chiesto al parroco di scacciarla dal paese. L’hai perseguitata, infamata, insultata per strada, tra la sua famiglia e la sua gente. Le hai dato della poco di buono, della puttana. La mia amante, la ganza di tuo marito! Quando io nemmeno mi accorgevo della sua timida e affettuosa devozione nata durante la lunga e dolorosa convalescenza dopo uno stupido incidente di macchina che mi ha inchiodato al letto per mesi e mesi, con la tibia destra spezzata che stentava a guarire a causa del diabete. Il fratello Rodolfo, furente, mi scrisse che mi voleva ammazzare perché ero l’amante di sua sorella, e questo l’aveva detto mia moglie! La povera ragazza aveva l’inferno in casa, il disonore fuori e le tue offese nelle orecchie. Per cinque giorni e cinque notti i suoi lamenti strazianti, le sue urla sono risuonate per Torre: tutti dovevano sentire la sua innocenza, nessuno poteva più ignorare quello che era successo e quello che era stato.
Timida, riservata, semplice, eppure Doria era vera, era pulita, era se stessa e non ha accettato che tu, che noi, raccontassimo una storia diversa. Si è sottratta al nostro gioco meschino, ha rivendicato la libertà di non essere coinvolta nelle nostre bugie, nei nostri rancori di coppia stanca e logorata. Con quel gesto distruttivo, con quell’azione terribile e disperatamente coraggiosa ha riscattato le nostre debolezze, le nostre falsità, le nostre piccinerie ed egoismi. Al tempo stesso ha dimostrato a me e ai miei gaudenti amici del Club della Bohème di Torre (luogo di riti maschili, grandi mangiate e smargiassate), buoni a seguire i nostri piaceri e le nostre goliardate per sentirci vivi, il valore della nuda verità. Ha squarciato il velo. Il tempo del gioco è finito.
2.
Ma se un Dio c’è
1909, Elvira
Forse doveva andare così. O almeno, doveva succedere qualcosa per spezzare questo cerchio malato che ci incatena l’una all’altro. È così da sempre. Come vorrei salvarmi da questo amore. Ma non è possibile. Fiaccata dal sospetto, rosa dal dubbio, avvelenata dai tuoi tradimenti, consumata dalle tue bugie, vittima di me stessa, ho perso me stessa e quello che sono. Non sono riuscita a salvare neanche il nostro amore, la sua forza e la sua bellezza. È morto nelle bugie e nelle ripicche, nei tuoi tradimenti e nei silenzi rancorosi. Mi ero illusa che tu fossi mio per sempre, ma non lo sei, forse non lo sei mai stato e non lo sarai mai. Appartieni al mondo.
La gelosia è una malattia, vorrei guarire per te e da te, ma da sola non mi basto. Non riusciamo a stare insieme, ma non possiamo stare divisi. Anche il mio rancore per te ora è meglio dell’indifferenza alla quale mi condanni, degli sguardi distratti che scivolano su di me come su di un mobile, una lampada, un quadro. E poi Doria, quella santarellina, non mi ha mai incantato. Non si è mai difesa, una prova in più della sua colpevolezza. L’ho cacciata di casa. Non era diversa dalle altre. Tutte innamorate di te, della tua aria solida e gentile, delle tue belle maniere, i vestiti impeccabili, il Borsalino e il bastone con il pomo d’argento. Subito dopo il suo avvelenamento ho lasciato Torre, la tua Torre tanto amata, dove gli anni hanno accumulato ricordi, equivoci e dolori che avvelenano l’aria che respiriamo: quella casa che avevamo costruito per noi sembrava ci si fosse rivoltata contro. Mi sono imprigionata a Milano, la città che detesti, mentre tu sei scappato a nasconderti all’Hotel Quirinale di Roma. Ora ti disperi, parli di separazione, dai ragione alle tue sorelle che si sono sempre opposte alla nostra scandalosa
unione, scrivi che sono la causa della tua rovina. Hai mandato l’avvocato a trattare. E in mezzo a questo Antonio, il Tonio, nostro figlio, che per la disperazione parla addirittura di emigrare in Africa, e la mia Fosca, la figliastra che hai amato teneramente come fosse sangue del tuo sangue, sballottati, confusi fra accuse e difese. Ma il dramma non era ancora compiuto. Ora, dopo che l’autopsia richiesta a gran voce ha accertato la sua verginità, i suoi famigliari, i Manfredi, mi trascinano in tribunale per diffamazione e istigazione al suicidio.
Da quel grande egoista e senza cuore che sei sempre stato, hai creduto bene, per la tua tranquillità, di tenerti estraneo ai fatti che oggi mi colpiscono e non per colpa mia, ma tua. Nella tua coscienza, se ne hai una, deve torturarti il pensiero di sapere tua moglie oggi imputata di cose che, seppur anche commesse, nessuno meglio di te sa il perchè. E ciò te lo posso provare quando voglio. Oggi mi si chiama in tribunale a discolparmi di azioni che non ho commesso e delle quali dovrò difendermi designando il colpevole vero e tu, sempre nel tuo egoismo, hai lasciato passare due mesi senza preoccuparti di tacitare la cosa, come avresti potuto fare con molta facilità, non essendo questo che un ricatto. La famiglia di Doria sa bene che per le accuse che mi si fanno non ho nulla da temere. Ma quello che non avresti dovuto permettere è che la madre di tuo figlio figurasse sul banco degli accusati, in mezzo a carabinieri e guardie di questura come un delinquente qualunque. Io non feci così quando si trattò della querela della Torinese. La Torinese, Corinna, la tua Cori, come la chiamavi, la ragazza minorenne, conosciuta sul treno durante uno dei tuoi viaggi per seguire l’allestimento di Tosca al Regio di Torino, che nel 1900 ti fece perdere la testa. Agli amici scrivevi A Torino troverò (combinata) un pezzo di vagina fresca che spero mi farà dimenticare i miei 40 anni suonati
. L’hai portata anche nelle nostre case quando non c’ero, a Torre del Lago, forse anche a Chiatri, così isolata. Ci vollero nove mesi solo per chiuderla, quella storia. Quando decidesti di lasciarla, la piemontese cercò di ricattarti con una serie di lettere compromettenti. Dovette essere tacitata con una grande somma di danaro. Eppure, benché in quel momento fosse stato scusabile in me un certo risentimento verso di te per tutte le ingiurie fattemi subire durante i tre anni della tua relazione con quella donna, pure io fui buona e mi offrii di venire a Milano a far tacitare questa cosa per la quale tu avresti rischiato il carcere. Mi ricordo benissimo ancora, al ricevere della famosa lettera, come diventasti pusillanime al pensiero di una condanna e come tu parlassi di fuggire in Svizzera. Oggi io mi trovo, se non in eguali condizioni (perché il fatto è ben diverso), in una situazione simile. Ciò non toglie che il mio cervello si trovi sbalestrato e non so cosa sarò capace di rispondere. Gli avvocati non sono concordi nel consigliarmi perciò, come ti ripeto, nella mia testa regna la confusione e non so nel momento cosa sarò buona di fare. Accuserò me, te, chiunque. E tu ne accetterai le conseguenze. Per troppo tempo hai fatto di me la tua vittima, hai sempre calpestato i sentimenti buoni e amorosi miei verso di te, offendendomi nel mio affetto di moglie e di amante appassionata quale fui sempre. Ma se un Dio c’è dovrà farti pagare quello che hai fatto soffrire a me, e l’ora del castigo suonerà anche per te. E allora ti pentirai del male che mi hai fatto, ma sarà troppo tardi. Col tuo egoismo hai distrutto una famiglia e hai causato cose assai gravi, e se è vero che tutto nel mondo si sconta, tu la sconterai. Non hai più vent’anni, né godi di una florida salute e verrà presto il giorno in cui l’isolamento ti peserà e ricercherai le cure e l’amore di una persona affettuosa, ma sarà troppo tardi e dovrai finire i tuoi giorni solo e abbandonato da tutti. La tua teoria che col denaro si può avere tutto è sbagliata perché l’affetto e la sicurezza d’avere intorno delle persone affezionate non si comprano. Neanche il figlio, se ripenserà al male che hai fatto a sua madre, potrà forse perdonartelo. Se posso darti un consiglio, è quello che tu smetta di mentire perché è forse il solo mezzo per riabilitarti davanti a tutti. Perché tu menti anche a te stesso e la prova certa è quella di esserti fabbricato un alibi che ti scusi completamente. E per essere certo di non confonderti te lo sei scritto e io l’ho letto. Ma quando le cose sono avvenute, non c’è bisogno di scriverle. E ora basta, perché ho la testa che mi scoppia e non so più quel che dico.
3.
Tu non mi sconti niente
1909, Giacomo
Pace, pace, pace. Ho bisogno di pace per vivere, per amare, per comporre, ma mi sembra che il mondo non faccia altro che mettermi alla prova. Pace per me, pace per la mia musica, pace per la mia famiglia. Eppure non ricevo che guerra.
Guerra con il mio editore, il grande padre putativo, colui che ha creduto in me, provinciale, giovane e affannato (oltre che affamato) musicista lucchese, alla ricerca di un’identità e di un posto nella sofisticata cultura milanese, e mi ha eletto e fatto successore dell’immenso, grande vecchio della musica italiana, Giuseppe Verdi. L’amoroso e severo Giulio Ricordi, il mio caro sor Giulio, sempre pronto a spronarmi, pungolarmi, sollecitarmi, mettendo il becco non solo nella mia vita d’artista ma anche in quella di uomo.
Guerra con i miei carnefici, gli amati e odiati librettisti, Oliva, Illica, Giacosa, Praga, Mascagni, Fontana, che pensano che la mia musica non sia che un modo per infiocchettare i loro versi. Non capiscono che note, parole e sentimenti devono completarsi. Non colgono il mio senso del dramma, quello che io sento inespresso