Il vincitore: Paco Yunque
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"un acciaio contro due pugnali / un acero contra dos puñales" (César Vallejo); "Umberto Grieve indietreggiò fino a una certa distanza e da là corse e si fiondò su Paco Yunque, appoggiando le mani sulle sue spalle e dandogli una feroce pedata sul sedere"...
“si può condividere e può valere anche per 'Il vincitore' quanto Robert K. Britton ha scritto di 'Paco Yunque', ossia che è in primo luogo un racconto “sui bambini piuttosto che per loro”, capace dunque di lasciare aperti e sollecitare molti interrogativi nei lettori di ogni età” (dalla Postfazione)
César Vallejo
César Vallejo (1892 – 1938) was born in the Peruvian Andes and, after publishing some of the most radical Latin American poetry of the twentieth century, moved to Europe, where he diversified his writing practice to encompass theater, fiction, and reportage. As an outspoken alternative to the European avant-garde, Vallejo stands as one of the most authentic and multifaceted creators to write in the Castilian language.
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Book preview
Il vincitore - César Vallejo
Vallejo
La collera
La collera che spezza l’uomo in bambini,
che spezza il bambino in uccelli eguali
e l’uccello, poi, in piccole uova;
la collera del povero
ha un olio contro due aceti.
La collera che l’albero spezza in foglie,
la foglia in germogli diseguali,
e il germoglio, in fessure telescopiche;
la collera del povero
ha due fiumi contro molti mari.
La collera che spezza il bene in dubbi,
il dubbio, in tre archi somiglianti,
e l’arco, quindi, in impreviste tombe;
la collera del povero
ha un acciaio contro due pugnali.
La collera che spezza l’anima in corpi,
il corpo, in organi dissomiglianti,
l’organo, in ottavi pensamenti;
la collera del povero
ha un fuoco in centro contro due crateri.
Ottobre 1937
Il vincitore
Una baruffa durante la ricreazione portò due bambini a rompersi i denti all’uscita della scuola. Alla porta del vivaio si fece un tumulto. Un gran numero di ragazzi, con i libri sottobraccio, discutevano calorosamente, facendo un circolo al cui centro stavano, agli estremi opposti, i contendenti: due bambini più o meno della stessa età, uno di loro scalzo e poveramente vestito. Entrambi sorridevano e dal cerchio sorgevano rutilanti dittonghi, in cori e affronti di fragorosa rivalità. I due si guardavano, spingendo il petto in fuori, con aria di reciproco disprezzo. Qualcuno lanciò un allerta:
— Il professore! Il professore!
Lo stormo si disperse.
— Bugia. Bugia. Non viene nessuno. Bugia…
La passione infantile apriva e chiudeva strade nel tumulto. Si formarono partiti per l’uno e l’altro dei due contendenti. Scoppiarono grandi clamori. Ci furono pedate, pianti, risate.
— Alla collinetta! Alla collinetta! Hip!… Hip!… Hip!… Urrà!…
Si produsse un rumoroso e confuso vocio e la moltitudine si mise in marcia. Alla testa andavano i due rivali.
Lungo le strade e le vie, i ragazzi facevano una gazzarra assordante. Un’anziana uscì dalla porta di casa sua e grugnì molto in collera:
— Juan! Juan! Dove vai, ragazzino! Poi vedrai!…
Le risa raddoppiarono.
Leonida e io andavamo molto indietro. Leonida era ammutolito e gli battevano i denti.
— Ci fermiamo? — gli dissi.
— Va bene – mi rispose –. Ma se picchiano Juncos?…
Arrivati a una piccola spianata, nella campagna ai piedi di una collina, il drappello si fermò. Qualcuno stava piangendo. Gli altri ridevano stentoreamente. Salivano gli evviva a contrappunto:
— Viva Cancio! Hip!… Hip!… Hip!… Urraaaaà!…
Si fece un fragile ordine. Il gridio e la confusione rinacquero. Però si udì una voce minacciosa:
— Il primo che parla, gli rompo il naso!
— Punto su Juncos.
— Punto su Cancio.
Si facevano scommesse come alle corse dei cavalli o ai combattimenti di galli. Juncos era il bambino scalzo. Aspettava in guardia, acceso e ansimante. Piuttosto spoglio e cedrino e di sostanzioso genio rissaiolo. I suoi piedi nudi mostravano i talloni screpolati. I pantaloni di tela bianca, cenciosi e strappati all’altezza del ginocchio sinistro, gli scendevano sino alle caviglie. Copriva la sua testa arruffata un grossolano e informe cappello di lana. Rideva come se gli facessero il solletico. Le scommesse in suo favore crescevano.
Per Cancio, al contrario, le scommesse erano minori. Era un bambino perbene, figlio di buona famiglia. Si mordeva il labbro superiore con alterigia e collera d’adulto. Aveva scarpe nuove.
— Uno!… Due!… Tre!
Il drappello sprofondò in un silenzio tragico. Leonida ingoiò saliva. Cancio restava in guardia, limitandosi a fermare gli attacchi di Juncos. Un cazzotto al costato destro, sferrato con tutto l’altro braccio, lo fece barcollare. Lo incoraggiarono. Recuperò il suo posto e un’ombra attraversò il suo volto. Juncos, fintando, sorrideva.
Cancio iniziò a risvegliare la mia simpatia. Era intelligente e nobile. Non aveva mai creato problemi a nessuno. Cancio mi era simpatico e ora si ravvivava questa simpatia. Anche Leonida ora stava dalla sua parte. Leonida era paonazzo e si muoveva nervosamente, adeguando i suoi movimenti alle fasi della lotta. Quando Cancio stava cadendo per terra, per un pugno dell’eroe avversario, Leonida, senza potersi trattenere, allungò la mano mingherlina e diede un buon pizzicotto a Juncos. Io gli dissi:
— Lascialo. Non ti immischiare.
— E perché picchia Cancio?! — mi rispose, diventando ancora più paonazzo. Poi abbassò gli occhi, come vergognandosi.
La lotta si accese in forma d’uragano. A una pedata tracciata da Juncos, all’ombra di un mancino simulato, risposero