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Quando cantava Rabagliati
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Quando cantava Rabagliati

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In un immaginario paesino abruzzese tra la Majella e il mare a metà novecento arriva la corrente elettrica, la luce, che scatena una disputa inattesa e divertente. A poco a poco emergono i tratti di alcuni personaggi creati in punta di penna, semplici o bizzarri, destinati ad arricchire quasi un secolo di storie de La Rocca. Una scrittura piacevole e coinvolgente, quasi la sceneggiatura di un film.
LanguageItaliano
PublisherAVEDITORIA
Release dateMay 2, 2018
ISBN9788894854145
Quando cantava Rabagliati

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    Quando cantava Rabagliati - ANTONIO VALENTINO

    personaggi.

    Quando cantava Rabagliati

    Non credo alle estetiche. In generale non sono che astrazioni inutili; cambiano per ogni autore e anche per ogni testo

    e non possono essere se non stimoli o strumenti occasionali.

    (Jorge L. Borges)

    I

    Il giorno fissato per l'arrivo della luce colse La Rocca in uno stato d'agitazione tale che più d'uno, dopo una nottata agitata, s'era svegliato con qualche linea di febbre.

    Gli operai, gli elettricisti, gli ingegneri, con le loro divise di tela blu e gialle ovvero con grisaglie e cravatte grigio scuro d'ordinanza, s'agitarono convulsi per una volta ancora attorno a pali, valvole, casupole ed arcigni contatori neri avvitati su pannelli di legno rettangolari. Con i loro borsoni di cuoio consumato, ingarbugliati di aggeggi sconosciuti, si rincorrevano frenetici tra vie e viette, sprezzanti, infastiditi, incuranti delle domande semplici della popolazione che da un paio d'anni e più, da quando cioè don Eugenio lesse in seduta pubblica la delibera che sanciva finalmente l'arrampicata della corrente elettrica su per il monte, fremeva al solo pensiero di poter ascoltare nella propria casa la voce di quel miracolo chiamato radio e magari, per chi poteva permetterselo, telefonare a qualche amico lontano, visto che i fili della luce avrebbero portato su anche la linea telefonica della Timo.

    Come stuzzicadenti in mezzo al bianco della neve che si ritirava in alto, verso la Majella, videro salire a stento il filare di pali di legno, quasi avvolgendo la linea piena di curve dello sterrato che veniva su dal fondo valle. Loro stessi diedero una mano a tirar su e puntellare i pali e poi si fecero volontari nella costruzione della casupola che avrebbe avuto funzione di centralina giusto all'ingresso del paese, lì dove lo sterrato s'addolciva per appianarsi infine su via Roma, la piazzetta giù in fondo e lo stradone che da essa partiva per raggiungere il castelletto, come chiamavano l'enorme palazzo di don Eugenio, che aveva ai due lati della facciata d’ingresso due torrioni con merlatura, proprio come un vero piccolo castello.

    La veterana e scarsa illuminazione a gas fu accostata da moderni pali di ghisa con in testa un cappello di vetro giallino per accogliere al centro la lampadina. I nuovi lampioni vennero disposti a zig zag, alternati, lungo quella specie di elle sbilenca che costituiva il cuore della vita de La Rocche, come familiarmente era chiamato il paesello.

    Da mesi oramai nella cantina di Candido, giù al lavatoio, fuori dall'androne dell'oratorio che accoglieva la pluriclasse della scuola elementare, nel crocchio di cafoni rivestiti dopo la messa domenicale, nell'aula del Consiglio Comunale che affiancava don Eugenio non si parlava d’altro se non della luce che stava per arrivare.

    Ma anche nelle povere famiglie quello della luce era diventato l’argomento principale di conversazione. Tra un sorso di vino, un boccone di pane e una frittata di cipolle, magari accompagnate da una patata lessa. Pure lì, dove i cafoni tra i recessi del crinale qualcosa la potevano coltivare, mentre moglie, figli e vecchi accudivano le solite quattro bestie da latte ed il maiale. Anche quando lavoravano la lana e raccoglievano le uova. Qualcuno nemmeno quelle aveva per cui, prima e dopo la grande guerra, preferì le strade ferrate o le miglia d'oceano Atlantico alla ricerca non dico di fortuna, ma almeno di pane e lavoro. Dappertutto insomma il chiacchiericcio era divenuto monocorde, concludendo le fantasticherie che nascevano con frasi di questo tenore: "Ma ci pensi? Senti le voci dentr'a li case, così belle, così vicine, e quello, magari, in quel preciso momento sta a Roma, a Milano, perfino a Nuova Yorche... Ah, quando si dice il progresso!"

    Don Eugenio, che aveva lasciato il paese da bambino per andare a studiare a Roma, inutilmente s'adoperò con l'intento di calmare gli animi sovraeccitati. Disse che, come sempre, a tutto si sarebbe fatto il callo, anche se adesso la corrente elettrica aveva il sapore magico della meraviglia. Come quando, agli inizi degli anni trenta era venuto a stabilirsi a La Rocca e tutti lo guardavano con gli occhi fuori dalle orbite, vedendolo transitare con l'enorme Bugatti Tipo 41 Royale rosso bordeaux che occupava quasi tutta la sede stradale mentre saliva su per lo sterrato e poi lungo la elle sbilenca che conduceva al castelletto. Poi non ci fecero più caso, nonostante fosse restata vent'anni l'unica autovettura del paese. Intanto la radio stavano comperandosela tutti.

    Don Eugenio quasi immediatamente dopo il suo arrivo assunse la carica di Podestà, ereditata dal padre. Dopo la guerra poi, trasmise l’incarico a sé medesimo nelle spoglie di Sindaco. Era contemporaneamente medico condotto e titolare effettivo dell'unica farmacia della zona, intestata ad un leggendario fantomatico cugino Camillo, un tizio che, a memoria d'uomo, nessuno aveva mai visto né in paese né altrove. Egli, in cuor suo e nonostante la bella faccia esposta in tutte le occasioni ufficiali o comunque pubbliche, era tiepidino rispetto all'arrivo della corrente elettrica e della radio, così come lo fu al tempo dell'arrivo di una linea di corriera diretta tra il paese e le cittadine della valle, così come lo fu per l'asfaltatura dello sterrato di collegamento con le varie municipalità del piano e tra lo sterrato ed i vari poderi disseminati lungo il percorso tra la valle e La Rocca. Ognuna di queste cose portava via un pochino del suo prestigio e del potere derivato dal sapere medico e dall’importanza economica della famiglia. Sarebbe stato difficile non votare o non seguire i dettami di chi ti mantiene in salute o ti dà lavoro e, di conseguenza, il cibo da mangiare. Anche se ti porta via l'ultima stilla di sudore. Ma le idee, soprattutto quelle più strane e pericolose, viaggiavano a cavallo delle onde radio, lungo le strade, nei racconti di chi tornava dopo aver lavorato e visto città e nazioni, e questo inquietava non poco il piccolo monarca , nonostante fosse riuscito a tenere La Rocca lontano dal mondo fin dopo la seconda guerra mondiale.

    Così, alle viste delle prime elezioni democratiche, s'era battuto per l'arrivo della corrente. Sotto sotto circolava la voce che avesse tentato di associarsi con quelli della luce, ma che la sua proposta, visto come procedevano le cose a Roma dalle parti del Governo, fosse stata gentilmente, ma decisamente declinata.

    Per inciso don Eugenio la luce l'aveva già, considerato che aveva provvisto di un gruppo elettrogeno il suo castelletto, dove aveva trasferito a colpi di carta da bollo la sede ufficiale nominale del Municipio, il che significava non spendere una lira di suo per ogni necessità del casamento di sua proprietà.

    In quell'anno e passa di tempo tutti erano riusciti a mettere da parte i quattrini necessari per l'allaccio della corrente. Non avere la luce tra le quattro mura significava chiedere a prestito le voci dal mondo come quando, prima che la guerra si guerreggiasse fin sotto casa, con quella maledetta linea Gustav tracciata praticamente a un tiro di schioppo, erano costretti a rincorrere le notizie dalle labbra degli occasionali e rari commessi viaggiatori, che arrivavano su in paese affannati da valigioni pieni come un emporio transeunte oppure s'attendeva, con un paio di giorni di ritardo, che don Eugenio leggesse in prima persona sulla piazzetta o facesse circolare per mezzo del fedele Palmiro e dei suoi scherani, dispacci ed articoli di giornale in un'aura di immancabile vittoria dell'asse italo-tedesco. Vittoria che puntualmente veniva rimandata nel tempo. Tra l'altro, di vittoria in vittoria, più d'uno, vedendo alla fine sfilare sulla propria testa le formazioni di bombardieri alleati, cominciò a dubitare della sincerità dei messaggi di don Eugenio.

    Qualcun altro, invece, udendo i rimbombi delle contraeree e gli echi delle esplosioni più o meno vicine, pensò che l'esercito stesse festeggiando alla sua maniera la vittoria e la fine della guerra mentre le mamme, le mogli, da mesi in attesa di un rigo, che a malapena avrebbero saputo leggere, dai propri uomini, che a malapena avrebbero saputo scriverlo, scrutavano di tanto in tanto l'orizzonte dello sterrato cercando invano i profili dei volti cari.

    Oggi si direbbe che radio e lampadine equivalessero, nella mente dei paesani, ad uno status-symbol cui nessuno avrebbe rinunciato a cuor leggero.

    Gina impegnò una parte del corredo che non sperava più di utilizzare, Eliseo macellò il porco più bello prima del tempo, mentre la rete elettrica si ramificava a macchia d'olio tutt'intorno al paese, per accogliere la quindicina di fondi e casolari non compresi nel progetto originario.

    Dentro La Rocca, un po' dappertutto, accanto alle porte d'ingresso s'inchiodarono i pannelli di legno destinati ai mostriciattoli neri che, fungendo anche da contatori, conducevano la luce fin dentro le case.

    Una intricatissima matassa di fili coperti e scoperti, piatti e tondi, bianchi o giallognoli, tagliarono in diagonale muri e soffitti, s'avventarono lungo serpiginosi finti battiscopa, circoscrissero porte e finestre, bucarono pareti e pavimenti, ruzzolarono tra malta e intonaci, incrociarono ingressi, sale e salottini.

    Per chi possedesse sale e salottini. Come don Eugenio, che il suo impianto però se l'era fatto anni prima, insieme con il gruppo elettrogeno, e con tutti i fili sottotraccia, per lo più. Don Eugenio che aveva ereditato più di mezzo paese compresa la collina fertile che celava alla vista buona parte della vallata verso ovest. Quindi egli possedeva una grande porzione del terreno coltivabile, che suo padre aveva distribuito in buona parte a fittavoli e mezzadri, conservando però uno stallaggio di trecentonovantadue tra bovini, ovini e gallinacei in località Monteluco, assieme ad alcuni ettari di colture, sul dorso invisibile della collina, a circa tre chilometri dal paese.

    Anche don Silverio, il parroco dall'accento che non pareva neppure italiano, tanto si discostava dal largo calore evocativo del gergo dei paesani, aveva messo su il suo salottino pieno di mobili decorati e cineserie strambe regalate quasi tutte dal Podestà. Egli, oltre alle offerte dei fedeli (ovvero: poco, pochino per uno, messo insieme è sempre ben più di quanto possieda, in tutto, quell'uno) e alla congrua versata mensilmente dallo Stato, affermava di possedere rendite di famiglia in un luogo imprecisato ed impronunciabile del lombardoveneto: qualcosa come Beregnazzo o Berenasso di Sopra, che era l'unica parola intellegibile che il parroco enfatizzava con un gesto della mano. Per cui, spesso, a chi chiedesse dove fosse il prevosto, veniva regolarmente risposto, con l'indice puntato verso il cielo di Sopra, un Sopra che, a seconda dell'enfasi del gesto collegato e del tono secco, sconsolato o ieratico della voce del pronunciante poteva voler dire tutto il bene e tutto il male dell'universo.

    Chi restò fuori dalla circolazione della luce, poiché era veramente povero e privo d'ogni mezzo per procurarsi il denaro necessario, si sarebbe ritrovato estraneo al paese.

    Non per cattiva volontà di questo o di quella, ma semplicemente perché escluso dal circuito informativo collegato con l'utilizzo della luce. Escluso dai discorsi di mitiche gesta sportive, emarginato dal continuo riferirsi alle canzoni in voga, alle novità provenienti via etere da misteriosi territori del globo, lasciato fuori dalla politica che imperiosamente faceva capolino tra le veline del governo, soprattutto quand'era riconducibile ad un pensiero fisso che conoscevano benissimo: la roba e le tasse.

    S'incrementarono i dissidi tra confinanti, tra eredi, tra amici di una vita. La roba battagliata, nelle evoluzioni fisico-verbali, pareva ingigantirsi volta dopo volta; diventava dieci, cento volte più estesa e più importante nelle evocazioni altisonanti dei litiganti.

    Di lì a qualche tempo, il paese di poveri cristiani senz'altra coscienza se non l'asprezza del monte, il paese che compatto aveva abbracciato deferente la fede monarchica del padre di don Eugenio e poi la fede fascista di quest'ultimo, rispettando la catechesi di rassegnazione di don Silverio, si sarebbe diviso in democristiani, la maggioranza, paladini del diritto sacro all'individualità e quindi alla proprietà (di don Eugenio innanzi a tutti, di cui erano fittavoli o mezzadri) ed in comunisti, la minoranza, i più giovani e scapoli, col miraggio delle Americhe, che premevano per una più equa distribuzione del reddito, nell'attesa di Baffone da un lato, ma soprattutto di una paga migliore quali braccianti e pastori alle dipendenze della tenuta di don Eugenio a Monteluco, dall'altro e più importante lato.

    Ma dapprincipio, finché non si proclamarono comizi come si deve e fintanto che la logica, anche minima, dell'economia e del progresso non assorbì, volente o nolente, pure La Rocca, tutto andò alla solita maniera.

    Baffone, in breve, non ebbe mai le fattezze squadrate e gli occhi piccoli di georgiano d'acciaio di Stalin, per assumere tratti più umani, più dolci, mostrandosi rossiccio e riccioluto, sorridente: insomma ebbe il contorno del viso di Mario D'Intino, dipendente e pastore delle pecore e delle mucche di don Eugenio, nonché caporione dei rivoltosi dalla lingua lunga. Così quando nelle discussioni prese piede e si diffuse, come fosse il verrà un giorno di fra' Cristoforo a don Rodrigo il più semplice adda venì Baffone, non ci furono mai dubbi tra gli accoliti: s'aspettava l'arrivo di Mario D'Intino, che sollecitasse lo spirito combattivo dei cafoni, difendendoli dal magnamagna dei due don, soprattutto don Eugenio, sostenuto ogni domenica dal pulpito di don Silverio.

    Manco a farla apposta si creò, per via della radio, una strana disputa estetico-artistica tra le due fazioni, essendo i democristiani sostenitori della linea melodica, ancorché ritmata, di Alberto Rabagliati ed i comunisti favorevoli alle evoluzioni vocali di Natalino Otto che, per maggior danno, era stato pure censurato dall'EIAR fascista anni prima per la sua barbara musica negra...

    Non che capissero bene le questioni di razza che avevano appena sconquassato il mondo, visto che a La Rocca e circondario, tutto sommato girava una razza sola, tuttavia quella storia raccolta al piano valle non si sa da chi, rafforzò i convincimenti libertari.

    Candido, ristrutturata la cantina in forma di bar con tanto d'insegna luminosa Bar Roma e comunicante con la tabaccheria-profumeria Linda nuova di zecca, dove aveva piazzato la brufolosa figlia Doralinda col chiaro intento di maritarla al più presto in virtù della grossa dote,

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