Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Ombre sulla rocca
Ombre sulla rocca
Ombre sulla rocca
Ebook259 pages3 hours

Ombre sulla rocca

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Canada, 1697. Québec è la principale città della colonia francese, per molti è un luogo in cui cominciare una nuova vita, ma per Cécile Auclair, figlia dodicenne del farmacista Euclide, quel luogo è casa.
Quando inizia l'inverno, le navi francesi fanno rotta verso la patria, lasciando Québec resta isolata dal resto del mondo, nell'attesa che la primavera porti di nuovo la vita.
"Ombre sulla rocca" racconta un anno di vita di Cécile, di suo padre, e dell'umanità che abita la rocca canadese.Un romanzo delicato e potente, un omaggio alle origini dell'America del Nord e ai pionieri che lasciarono tutto alle spalle per fondare il Nuovo Mondo.
LanguageItaliano
Release dateApr 19, 2018
ISBN9788899403492
Ombre sulla rocca
Author

Willa Cather

Born in 1873, Willa Cather was raised in Virginia and Nebraska. After graduating from the University of Nebraska she established herself as a theatre critic, journalist and teacher in Pittsburgh whilst also writing short stories and poems. She then moved to New York where she took a job as an investigative journalist before becoming a full-time writer. Cather enjoyed great literary success and won the Pulitzer Prize for her novel One of Ours. She’s now best known for her Prairie trilogy: O Pioneers!, The Song of the Lark and My Ántonia. She travelled extensively and died in New York in 1947.

Related to Ombre sulla rocca

Titles in the series (64)

View More

Related ebooks

Literary Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Ombre sulla rocca

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Ombre sulla rocca - Willa Cather

    28

    Willa Cather, Ombre sulla rocca

    1a edizione Landscape Books, aprile 2018

    Collana Aurora n° 28

    © Landscape Books 2018

    Titolo originale: Shadows on the Rock

    Traduzione di Gino De Negri dall’edizione IPL

    del 1942, riveduta e corretta

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-49-2

    In copertina: View of Yosemite Valley di Thomas Hill.

    Progetto grafico: service editoriale il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    Willa Cather

    Ombre sulla rocca

    Vous me demandez des graines de fleurs

    de ce pays. Nous en faisons venir de

    France pour notre jardin, n’y en ayant

    pas ici de fort rares ni de fort belles.

    Tout y est sauvage, les fleurs aussi bien

    que les hommes.

    MARIE DE L’INCARNATION

    (LETTRE À UNE DE SES SOEURS)

    Québec, le 12 aoùt 1653.

    PARTE I

    IL FARMACISTA

    I.

    Un pomeriggio, verso la fine dell’ottobre 1697, Euclide Auclair, il farmacista filosofo di Québec, stava sulla sommità di Cap Diamant, e fissava il largo fiume che scorreva deserto sotto di lui: deserto, perché un’ora prima il biancheggiare delle vele che si allontanavano era scomparso dietro l’isola verde che divide il San Lorenzo a valle di Québec, e l’ultima delle navi che nell’estate venivano dalla Francia era partita per il suo lungo viaggio di ritorno.

    Finché la Bonne Espérance era rimasta in vista, molti degli amici e dei vicini di Auclair gli avevano fatto compagnia sulla collina; ma quando l’ultimo lembo di bianco sparì dietro la costa incurvata, essi tornarono alle loro botteghe e alle loro cucine, ad affrontare la dura realtà della vita. Ora, per otto mesi, la colonia francese su quella rocca del Nord sarebbe stata completamente tagliata fuori dall’Europa, dal mondo. Era ottobre, e prima del prossimo luglio nessuna vela avrebbe risalito l’ampia via d’acqua. Nessuna provvista: né un barile di vino, né un sacco di farina, né polvere da sparo, né cuoio, né stoffe, né strumenti; e neppure una lettera, nessuna notizia di quello che avveniva in patria. Potevano esservi guerre, inondazioni, incendi, epidemie, ma i coloni non ne avrebbero saputo nulla fino alla prossima estate. La gente qualche volta diceva che se il Re Luigi fosse morto, il ministro ne avrebbe mandato la notizia con le navi inglesi che approdavano a New York tutto l’inverno, e che i mercanti olandesi di Fort Orange avrebbero spedito corrieri a Montréal.

    Lo speziale si trattenne sulla vetta della collina ancora per molto tempo dopo che i suoi concittadini erano tornati alle loro faccende; per lui, quella separazione dal mondo diventava ogni anno più dura da sopportare. Era davvero strano che un uomo del suo carattere, mite e pensoso, di abitudini cittadine e regolatissime, si trovasse sopra una roccia grigia del Canada selvaggio. Cap Diamant, ov’egli stava, era soltanto la cresta di quella rupe fortificata che era Kébec – un promontorio triangolare serrato fra la confluenza di due fiumi, e quasi circondato dal maggiore di essi come da un abbraccio. Proprio sotto ai suoi piedi v’era la fortezza francese – campanili sparsi e tetti d’ardesia infiammati dal vivo sole d’autunno: la piccola capitale, proprio allora oggetto di tante discussioni in Europa e meta di tanti fantastici sogni.

    Auclair pensava alla città posta sulla rocca come a una di quelle piccole montagne artificiali che in patria si costruivano nelle chiese, per una rappresentazione della Natività: montagne di carta, fatte a creste, a pendii, a ripiani, per accomodarvi gruppi di figure in cammino verso il Presepe angeli e pastori e cavalieri e cammelli, posti sui monti, riparati nelle grotte, raggruppati alla base.

    A prescindere dal colore orientale, si sarebbe visto qualche cosa di molto simile su quella rocca montana, su cui erano state abilmente costruite chiese, conventi, fortificazioni, giardini, seguendo le irregolarità naturali del promontorio. Il Chateau Saint Louis, pietra grigia e profondi abbaini sul tetto, era edificato proprio sull’orlo del precipizio che sovrastava il fiume. Ma subito dietro, il convento e la chiesa dei Cappuccini digradavano dalla collina come se scivolassero. Verso terra, in un angolo basso e ben riparato, il convento delle Orsoline; più bassa ancora, la massiccia costruzione dei Gesuiti, di fronte alla cattedrale. Subito dopo, il dirupo si rialzava a picco, interrotto da uno sperone proteso, e lassù, alto nell’azzurro fra la terra e il cielo, sorgeva il seminario del vecchio vescovo Laval. Di sotto, la rocca digradava in una successione di terrazze come una gradinata circolare: sull’una v’era il palazzo nuovo del nuovo vescovo, col giardino sulla terrazza inferiore.

    Nessun edificio sulla rocca era allo stesso livello degli altri, e duecento piedi sotto v’era la città bassa, ammassata lungo la stretta striscia di spiaggia fra la sponda del fiume e la rupe che cadeva a picco. La città alta sovrastava talmente la città bassa, che dalla terrazza del Chateau Saint Louis si poteva gettare una pietra nelle strette vie sottostanti.

    Quei massicci edifici grigi, monasteri o chiese, aguzzi e tagliati da abbaini, con guglie e tetti di ardesia, rammentavano il gotico normanno. Erano stati costruiti da artigiani della Francia settentrionale, che non conoscevano altra maniera di costruire. La colonia pareva quasi staccata da una rude città di Normandia o di Bretagna, e trasportata lassù. Era davvero il rozzo principio di una Nuova Francia, di un Saint Malo o Rouen o Dieppe, ancorati lì, nella luce, nel clima sempre mutevole del nord. Ai suoi piedi, incurvandosi attorno alla sua base, scorreva il gran San Lorenzo, volgendo a nord verso la linea violacea dei Monti San Lorenzo, verso il torvo Cap Tourmente, che si stagliava nero contro il dolce azzurro del cielo d’ottobre. L’Ile d’Orléans, nel mezzo del fiume, era come una mappa a rilievo, con dune, campi e pascoli che si alternavano agli alberi spogli nelle ondulazioni del terreno.

    Sull’opposta riva del fiume, proprio di fronte all’orgogliosa rocca di Québec, la nera foresta di pini scendeva fino all’orlo dell’acqua; e a occidente, dietro la città, la foresta si stendeva, nessun uomo sapeva fin dove. Quello era il mondo morto e sigillato del regno vegetale, un continente ignoto, soffocato dagli alberi intrecciati, vivi, morti, mezzi morti, le radici nelle paludi e negli acquitrini, a soffocarsi gli uni gli altri, in una pigra agonia che durava da secoli. La foresta era l’annientamento, la soffocazione. Lassù l’uomo d’Europa era subito inghiottito nel silenzio, nella distanza, nella muffa, nel fango nero e negli sciami di insetti pungenti che vi vivevano. Unica via di scampo era il fiume, l’unica cosa che viveva, si moveva, splendeva, cambiava, — una strada per la quale gli uomini potevano viaggiare, godere il sole e l’aria aperta, sentire la libertà, unirsi ai compagni, raggiungere il mare aperto… raggiungere il mondo, infine!

    Il mondo, dopotutto, esisteva ancora. Questo pensava Auclair mentre guardava la via per la quale la Bonne Espérance era scomparsa, appena un’ora prima. Egli non aveva davvero la tempra di un colono, e lo sapeva. Era un uomo sulla cinquantina, magro e un po’ gracile, un po’ curvo, un po’ grigio, con una barba corta tagliata a punta, e una carnagione bionda con delicate tinte rosate alle gote e alle orecchie. Aveva occhi azzurri caldi e vivaci, anche nella riflessione, – e vi passavano spesso lampi di luce, come a riflettere le immagini dei suoi pensieri. Tolta quell’animazione investigatrice dello sguardo, tutto in lui era modesto e riservato. Si capiva ch’egli non era uomo di azione, né cacciatore d’indiani, né esploratore. L’unica cosa notevole della sua vita, era che egli non l’avesse vissuta fino alla fine esattamente là dove l’avevano vissuta suo padre e suo nonno, nella piccola farmacia sul Quai des Célestins, a Parigi.

    Lo speziale finalmente volse le spalle al fiume. Diede un’occhiata al sole per calcolar l’ora, e vide un soldato che saliva il pendio erboso di Cap Diamant, per il sentiero irregolare che conduceva al fortino. Il soldato si toccò il cappello, e lo chiamò.

    «Mi pareva di aver riconosciuto la vostra figura lì su, signor Euclide. Il Governatore ha bisogno di voi, e ha mandato un uomo a cercarvi alla vostra bottega».

    Auclair lo ringraziò per il disturbo che s’era preso, e con lui discese dalla collina per andare al Chateau. Il Governatore era il Conte di Frontenac, suo patrono, al servizio del quale egli era giunto in Canada.

    II.

    Era già tardi quando Auclair lasciò il Chateau, e nel giardino dei Cappuccini oltrepassò il palazzo del nuovo vescovo scendendo a casa sua. Abitava nella strada tortuosa e profonda, chiamata la Cote de la Montagne, l’unica via che unisse la città alta a quella bassa. Probabilmente non era che il letto di un ruscello quando Champlain e i suoi uomini lo avevano scalato la prima volta, per piantare i gigli di Francia sulla cresta di quel dirupo nudo. Il canale era adesso una profonda via petrosa, con botteghe da un lato, e dall’altro il muro di sostegno del palazzo del vescovo. Auclair vi abitava per due ragioni: per essere più vicino quando il Conte di Frontenac lo avesse chiamato con premura al castello, e perché, posta sulla strada tortuosa che univa le due metà di Québec, la sua bottega era egualmente comoda per i cittadini d’entrambe.

    Aprendo la porta, lo speziale trovò la bottega vuota, illuminata da una sola candela. Dietro, nella sala, in parte separata dalla bottega da scaffali e cassettoni, il fuoco ardeva nel camino, e la rotonda tavola da pranzo era già apparecchiata con una tovaglia bianca, candelieri d’argento, bicchieri, e due limpide caraffe, una di vino rosso e l’altra di vino bianco.

    Dietro la sala c’era una piccola cucina dal tetto basso, costruita di pietra, mentre il resto della casa era di legno, al modo antico di Québec, doppie pareti, con lo spazio fra i due telai pieno di segatura e di cenere, perché con uno spessore di circa quattro piedi proteggessero dal freddo. Dalla cucina due piacevoli cose vennero a salutare il farmacista: il denso profumo di un pollo che arrostiva, e la voce di una bambina che cantava. Quand’egli chiuse dietro di sé la pesante porta di legno la voce chiamò: «Sei tu, babbo?»

    La figlia gli corse incontro: una fanciullina di dodici anni, che cominciava a farsi alta, vestita d’una sottana corta e d’una giacca da marinaio, con i capelli castani tagliati come quelli di un bambino.

    Auclair si chinò a baciarla sulle guance arrossate: «Pas de clients?» chiese.

    «Mais si, beaucoup de clients. Ma avevano tutti bisogno di cose molto semplici; le ho trovate tutte facilmente, e ne ho preso nota. Ma perché sei stato fuori tanto tempo? Il signor Conte è ammalato?»

    «Non proprio ammalato, ma vi sono notizie inquietanti da Montréal».

    «Cambiati il vestito, ora, babbo, e accendi le candele. Io devo sorvegliare il pollo. Mère Laflamme aveva cercato di vendermi un gallo, ma io le ho detto che mio padre di galli non ne voleva sapere». Gli occhi della figlia avevano la stessa forma di quelli del padre, ma erano molto più scuri, d’un azzurro cupo, quasi neri quand’ella era eccitata: e ora lo era per il suo arrosto. Sua madre era morta due anni prima, ed ella era diventata la massaia di suo padre.

    Contrariamente all’abitudine dei suoi vicini, Auclair d’inverno cenava alle sei, d’estate alle sette, quando il lavoro della giornata era finito, come faceva a Parigi – quantunque anche là quasi tutti pranzassero a mezzogiorno. Ora egli abbassò la tenda sulle due finestre della bottega, indizio per i suoi vicini che non doveva essere disturbato se non per seri motivi. Dopo essersi messo l’abito da casa, accese le candele, e portò per la figlia la pesante terrina di minestra.

    Mangiarono la minestra quasi in silenzio. Tutti e due erano un po’ stanchi, e mentre la fanciulla portava l’arrosto, egli versò un bicchiere di vino rosso per lei, e uno di bianco per sé.

    «Babbo», disse mentre il padre cominciava a cenare, «quando la zia Blanche e la zia Clothilde potranno avere le nostre lettere?»

    Auclair rifletteva. Ogni autunno i coloni si rivolgevano la stessa domanda, e rifacevano gli stessi conti: «Ecco, se la Bonne Espérance è fortunata, può giungere a La Rochelle in sei settimane. Certo, il viaggio è già stato fatto in cinque: ma diciamo sei. Poi, se le strade sono cattive, ed è probabile che lo siano in dicembre, dobbiamo calcolare una settimana per giungere a Parigi».

    «E se non ha fortuna?»

    «Ma! allora, chi può dirlo? Ma a meno che non incontri burrasche molto forti, può giungere in due mesi. Con questo vento di ovest, sul quale si può sempre contare, essa uscirà molto presto dal fiume e dal golfo, e questa è talvolta la parte più noiosa del viaggio. Quando venni col Conte impiegammo un mese da Percé a Québec. E questo perché facevamo vela appunto contro il vento d’autunno che spingerà la Bonne Esperance al mare».

    «Ma a Capodanno le zie avranno certamente le nostre lettere, e allora sapranno come sono contenta del mio berretto e della mia giacca; e quanto mi pesa dover attendere ad aprire la cassetta che è lassù. Posso ricordarmi un po’ di zia Blanche, perché era giovane e bella, e le piaceva giocare con me. Penso che non sia più giovane, ora. Sono passati otto anni!...»

    «Non è più giovane del tutto, ma sarà sempre allegra. E poi si è sposata bene, e ha tre bambini che sono per lei una grande gioia».

    «Tre cuginetti che non ho visto mai, e una che si chiama come me! Cécile, André, Rachel» ella ripeté affettuosamente i loro nomi. Quei cuginetti erano quasi compagni di giochi per lei; la loro mamma scriveva di loro lettere così lunghe, che a Cécile pareva di conoscerli nei loro caratteri, nei difetti e nei meriti. La cugina Cécile aveva sette anni, ed era molto studiosa, bien sérieuse, si preparava già per la Cresima; ma avrebbe voluto mangiare soltanto dolci e manicaretti. André aveva cinque anni, sincero e coraggioso, ma si rosicchiava le unghie. Rachel era una bimba che metteva ancora i denti, quando erano state scritte le ultime notizie.

    Cécile avrebbe preferito vivere con zia Blanche o con i suoi figli, quando fosse tornata in Francia; ma per desiderio di sua madre doveva andare con zia Clothilde, vedova da molto tempo, che aveva buoni mezzi e si interessava molto all’educazione delle fanciulle. Cécile non riusciva a rammentarsi il volto di quella zia, quantunque ne vedesse chiaramente il profilo; le pareva sempre come se stesse contro luce, una donna robusta, bassa e tarchiata, senza essere precisamente grassa, quadrata piuttosto, come un gran mobile di quercia; sempre vestita di nero, il nero vedovile che odorava di tintura, con l’anello d’oro in dito e un fazzoletto bianchissimo in mano. Cécile poteva anche vederne la testa, sul collo corto, che teneva indietro come un generale o un uomo di stato che posasse per il ritratto: ma il volto le appariva confuso, proprio come se la zia stesse nel vano di una porta, contro la luce viva del sole. Cécile tentava ancora una volta di rammentarsi quel volto, quando suo padre la interruppe.

    «Che hai stasera per dessert, cara?»

    «Il formaggio di crema che hai portato ieri dal mercato, e poi la conserva che preferisci: di prugna, di fragola selvatica o di ribes».

    «Oh, di ribes senz’altro, dopo il pollo».

    «Ma, babbo, tu preferisci il ribes dopo qualunque cosa, quasi. È una fortuna per noi poter avere dal Conte lo zucchero di cui abbiamo bisogno. I nostri vicini non possono permettersi di fare delle conserve, con lo zucchero così caro. E quella di ribes ne richiede più di ogni altra».

    «Vi è qualcosa di molto gustoso nell’aroma di questo ribes, un asprigno che piace. In Francia il ribes è molto più grosso e più bello, ma a me questo sapore amaro è venuto a piacere».

    «En France nous avons tous les légumes, jusq’aux dattes,» mormorò Cécile. Ella non aveva mai visto un dattero, ma aveva imparato quella frase da un libro, quando andava a scuola dalle Orsoline.

    Finito il pranzo, lo speziale si ritirò nella bottega a fare i suoi conti, mentre la figlia lavava i piatti. Aveva appena cominciato, quando udì un grattare leggero sull’unica finestra della cucina. Attraverso i piccoli quadrelli di vetro un volto guardava dentro: un volto spaventoso, ma di cui ella attendeva l’apparizione. Fece un cenno col capo e col dito: un uomo piccolo e tozzo scivolò nella cucina. Pareva che entrasse a malincuore eppur trascinato da un desiderio più forte della sua ripugnanza. Cécile andò alla stufa, e riempì una scodella.

    «Eccovi la minestra, Louchard».

    «Merci, mam’selle». L’uomo parlava da un angolo della bocca, e guardava di fianco. Era così terribilmente strabico, che Cécile non l’aveva mai potuto vedere negli occhi. Per questo lo chiamavano Louchard. Egli trasse di tasca una mezza pagnotta, e cominciò a mangiare la minestra avidamente, senza far rumore. Mangiare era difficile per lui, – una volta gli era venuto un ascesso alla mandibola, che era andata in suppurazione, e ne erano usciti frammenti d’osso. Da quella parte la faccia gli si raggrinziva sulla vecchia cicatrice. Egli sapeva che faceva pena a Cécile il sentire gorgogliare la minestra, e perciò lottava fra l’avidità e l’attenzione bagnando il pane perché fosse più facile masticarlo.

    Quel pover’uomo sfregiato lavorava lì vicino, sorvegliava i fuochi di Nicolas Pigeon, il fornaio, perché questi potesse dormire la notte. Per salario il padrone gli dava i suoi abiti vecchi, due paia di scarpe all’anno, una pinta di vino al giorno e tutto il pane che voleva. Ma non gli dava minestra di sorta: madame Pigeon aveva troppi bambini da sfamare.

    Quando egli ebbe terminato la scodella e la pagnotta, si alzò, e senza dire nulla, prese due grandi secchie di legno: una era piena dei rifiuti di cucina della giornata, l’altra piena d’acqua sporca. Li portò giù dalla salita, e per la piazza del Mercato giunse alla riva e li vuotò nel fiume. Al ritorno, trovò un bicchierino di acquavite che lo attendeva sulla tavola.

    «Merci, mam’selle, merci beaucoup», mormorò. Si sedette, lo sorseggiò lentamente, guardando Cécile che ordinava la cucina per la notte. Vi rimase finché il pavimento fu spazzato, l’ultimo piatto messo a posto sul palchetto, lo strofinaccio appeso ad asciugare su un filo teso sopra la stufa, seguendo attentamente con gli occhi strabici tutte quelle operazioni. Quand’ella prendeva la candela, egli doveva andarsene. Posò il bicchiere, si alzò, e aprì la porta di fondo, ma i suoi piedi parevano inchiodati sulla soglia. Stava sbirciando con quell’aria incredibilmente stupida, guardando di fianco, e Cécile non sapeva se guardasse lei o che altro. Egli fece come per abbottonarsi l’abito, quantunque non avesse bottoni.

    «Bonsoir, mam’selle», mormorò.

    Poiché questo avveniva ogni sera, Cécile non vi fece caso. Sua madre aveva cominciato a occuparsi di Louchard un po’ prima di ammalarsi, e ne aveva trasmesso la cura alla figlia. Egli era comparso in colonia quattro anni prima, e come molti altri che vi arrivavano non aveva nessun mestiere. Era forte, ma di così brutto aspetto che nessuno lo aveva preso. Il vicino Pigeon lo aveva trovato fidato e sottomesso, e gli aveva insegnato ad attizzare il fuoco, a sorvegliare i forni dalla mezzanotte al mattino. Madame Auclair ebbe compassione del poveretto, e cominciò a dargli una minestra alla sera, e a fargli fare i lavori più pesanti, portare la legna e l’acqua, gettar via le spazzature. Ella aveva sempre chiamato Louchard col suo vero nome, Jules. V’era una grotta nel dirupo roccioso dietro la casa

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1