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Miti dell'India e del Buddhismo
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Miti dell'India e del Buddhismo

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Nella storia primitiva dell’umanità l’Asia formò come un vasto vivaio di civilizzazione, di cui contrade come l’Egitto, la Mesopotamia, la Grecia, l’Italia, l’India e la Cina erano le estremità. La Grecia e più ancora l’India formarono ciò che si può chiamare una culla di un’epoca dopo l’altra, ognuna lasciando depositi, che nessuna delle ondate successive poté interamente ricoprire. Nell’India noi possiamo scoprire, come in nessuna altra parte del mondo, i mezzi per studiare la successione delle varie epoche di civiltà.
 
In alcuni libri fondamentali conosciuti come i Purànas, nel poema epico chiamato il Ràmàyana e, più perfettamente di tutti, nel Mahàbhàrata sono raccolti miti e racconti, trasmessi per secoli a memoria.
In questi testi si sente l’influenza di razze su razze che s’insediarono in quell’area geografica; qui crebbero le nazioni agricole; qui il reale si mescola al mito. Si scoprono vicende di popoli antichissimi e squarci di luce sull’origine della razza umana.
LanguageItaliano
Release dateMar 28, 2018
ISBN9788869373138
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    Miti dell'India e del Buddhismo - Suora Nivedita - Ananda Kumarasvami

    ​CONCLUSIONE

    ​PREFAZIONE

    Suora Nivedita, a cui quest’opera fu dapprima affidata, non ha bisogno di presentazione per i lettori indiani ed anglosassoni. Devotissima discepola di Swami Vivekànanda, che era egli stesso un seguace del grande Ràmakrishna, ella portò nello studio della vita e della letteratura indiana una solida conoscenza di socio­logia e pedagogia occidentale ed un entusiasmo senza pari di devozione per i popoli e gli ideali della terra da lei adottata. Le sue opere principali sono The Web of India Life, che è quasi l’unico bel trattato della società hindu scritto in inglese, e Kàli the Mothery in cui anche per la prima volta la profonda tenerezza ed il terrore del culto indiano della Madre sono pre­sentati ai lettori occidentali in tale maniera da rivelarne il vero significato religioso e sociale. Con questi libri Nivedita divenne non semplicemente una interprete dell’India all’Europa, ma, ben più, la ispiratrice di una nuova razza di studenti indiani, non più ansiosi di essere anglicizzati, ma convinti che ogni reale progresso, a parte le pure controversie politiche, deve essere fondato su ideali nazionali, sopra intendimenti già chiaramente espressi nella religione e nell’arte.

    La morte prematura, nel 1911, di suora Nivedita rese ne­cessario che la presente opera fosse completata da altra mano. Le parti seguenti, del testo qui stampato, sono dovute a suora Nivedita: Mitologia delle razze indo-ariane; le pagine del Ramayana, che trattano di esso come di epopea degli animali; tutto il Mahabharata, meno le pagine sulla Bhagavad Gità la nota su Daksha, nel capitolo di Shiva; il commento su Kacha e Devayàni e la storia di Dhruva, Shani, ecc. Tutto il resto, cioè più di due terzi dell’intero volume, è opera del sottoscritto.

    E’ bene spiegare brevemente il principio col quale questi miti sono stati scelti ed ordinati. Il mio scopo è stato quello di rife­rire nella maniera possibilmente più vicina agli originali, se anche molto condensata, quei miti, che sono più o meno familiari a tutti gli indiani educati; tra cui io includo tutti quegli illetterati ma savi contadini, nonché le donne, che hanno acquistato la conoscenza dei Puranas ascoltando le recite o le letture, visi­tando i templi, in cui le storie sono illustrate da sculture, o derivandola dai canti popolari o da rappresentazioni sacre. Le storie qui riportate racchiudono inoltre molto, di cui la cono­scenza è assolutamente essenziale ad ogni straniero, che si pro­ponga di cooperare con il popolo indiano per il conseguimento delle sue aspirazioni, in nessuna parte formulate più chiaramente che nella mitologia e nell’arte. Tra questi stranieri io spero che si possano includere non solo gli amanti degli ideali indiani, come era la stessa Nivedita, ma anche impiegati civili e missio­nari. I miti indiani qui riportati racchiudono quasi tutti quelli, che sono comunemente illustrati nella scultura e nella pittura indiana. Infine essi includono molto, che deve essere ben presto riconosciuto quale patrimonio non solo dell’India, ma del mondo intero. Io sento, che questo è soprattutto vero del Ramayana che è certamente il migliore racconto di cavalleria e di verità e di amore per le creature, che sia mai stato scritto.

    Ananda Kumarasvami

    ​MITOLOGIA DELLE: RAZZE INDO-ARIANE

    Lo studio della Mitologia.

    Nella storia primitiva dell’umanità l’Asia formò come un vasto vivaio di civilizzazione, di cui contrade come l’Egitto, la Meso­potamia, la Grecia, l’Italia, l’India e la Cina erano le estremità. L’Egitto e la Mesopotamia erano destinate, per le loro posizioni geografiche, ad essere soverchiate ed a subire la distruzione delle loro civiltà. La Grecia e più ancora l’India formarono ciò che si può chiamare cul-de-sac. Ivi, come sulle lunghe sponde di qualche celata baia, furono forzate le onde di marea di un’epoca dopo l’altra, ognuna lasciando sulla costa i suoi de­positi, che nessuna delle ondate successive poté interamente ri­coprire. Quindi nell’India noi possiamo sperare di scoprire, come in nessuna altra parte del mondo, i mezzi di studiare la succes­sione delle varie epoche di civiltà.

    La civilizzazione si sviluppa dalle nuove congiunzioni di tribù e di razze, ognuna col suo stampo individuale, risultato di quel distintivo corpo di usanze, che s’è imposto su esse attraverso le condizioni geografiche di qualunque regione abbia formata la loro culla e la scuola. L’Asia occidentale è una delle aree cen­trali della terra. Ivi per le stesse necessità della configurazione si incrociano le grandi vie da nord a sud e da est ad ovest; ed ai punti d'incrocio crescono le città mercantili come posti di sosta e di scambio. Analogamente l’India e le parti remote della valle del Nilo formano sedi di occupazioni e di produzione.

    Qui razze su razze s’insediano e si combinano; qui crescono le nazioni agricole; qui si accumula la civilizzazione; e qui noi pos­siamo vedere la graduale elaborazione di schemi di pensiero, che non solo portano impressa su loro stessi la propria storia, ma divengono a loro volta cause e fonti di influenza dinamica sul mondo esterno. Non è impossibile di rintracciare la storia delle idee, che il popolo del Nilo ha fornito al mondo da noi conosciuto. Ma quel popolo stesso era, come noi sappiamo, inestricabilmente legato al suo passato. Fra questo ed esso vi fu solo una soluzione di continuità: un lasso di tempo, che non rappresenta un processo di causa ed effetto, ma piuttosto una interruzione di tale serie: perché una singola generazione, in­namorata di usanze straniere, basta quasi nella storia, per infrangere l’intera continuità della civilizzazione. Ere di accu­mulazione sono affidate alla fragile barca di ogni epoca di pas­saggio dalla mano del passato, che desidera di trasmettere i suoi tesori all’uso del futuro. Occorre una certa audacia, una tenacia di fede, anche un poco di irragionevole conservatorismo, per non perdere nulla nel lungo cammino delle età; e, anche a contatto con grandi imperi, con le subitanee estensioni della cultura o con la suprema tentazione di una nuova religione, per tener fermo ciò che abbiamo, aggiungendovi solo tanto, quanto possiamo sanamente e virilmente portare.

    Il Genio dell’India.

    Pure quest’attitudine è il criterio di un forte genio nazionale, che in India, fin dal principio della sua storia, si è mantenuto costante. Mai avversa ad una nuova idea, di qualunque origine, l’India non ha mancato mai di metterla a prova. Avida di nuovo pensiero, ma gelosamente riluttante ad accettare nuovi costumi o ad usare nuove espressioni, essa è stata sempre lentamente costruttiva, immancabil- mente sintetica, dai tempi più antichi fino al momento attuale. Il difetto del conservatorismo indiano, in­fatti, è stato nella sua tendenza a perpetuare differenze senza assimilazione. Vi è stato sempre spazio per una razza più forte, col suo proprio equipaggiamento di costumi e di ideali, per insediarsi negli interstizi della civiltà bràhmanica, senza essere influenzata e senza influenzare. Oggigiorno Calcutta e Bombay hanno i loro diversi quartieri, cinese, birmano, ed altri, nessuno dei quali dà o riceve qualche cosa dalla vita della città in cui è insediato. Oggigiorno il Baniyà è il Fenicio forse di un antico mondo. Ma questa non mescolanza non è stata uniforme. La personalità di Buddha fu la fonte di un impulso di religione per la Cina e per una mezza dozzina di nazioni minori. L’impero Gupta rappresenta un’epoca, in cui ospiti stranieri e culture straniere erano tanto benvenute ed apprezzate in India quanto lo sono oggi in Europa ed in America. E finalmente solo il sorgere dell’Islam pose effettivamente fine a quelle lunghe epoche di scambio, che hanno lasciato le loro tracce nella fede e nel pensiero del popolo indiano.

    L’Induismo è, infatti, una immensa sintesi, che ha tratto i suoi elementi da cento direzioni diverse e ha incorporato ogni concepibile motivo di religione. I motivi della religione sono parecchi. Venerazione della terra, venerazione del sole, venera­zione della natura, venerazione del cielo, onori resi agli eroi ed agli antenati, venerazione della madre, venerazione del padre, preghiere pei morti, l’associazione mistica di certe piante ed animali: tutte queste e più ancora sono incluse nell’Induismo. Ed ognuna segna qualche singola epoca del passato, con la sua caratteristica congiunzione ed invasione di razze prima aliene l’una all’altra. Esse sono ora tutte insieme congiunte a formare un gran tutto. Ma ancora con le visite a remoti altari, con lo studio della letteratura di certi dati periodi, e con l’esame accu­rato degli speciali fini, è possibile determinare quali siano state alcune delle influenze, che sono entrate nella sua formazione.

    Ogni tanto nella storia un grande impulso sistematizzatore ha tentato di fondere tutta la parte della fede riconosciuta nella forma di un tutto organico. Tali tentativi sono stati fatti con più o meno successo nella compilazione dei libri conosciuti come i Purànas, nel poema epico chiamato il Ràmàyan'ci e, più perfet­tamente di tutti, nel Mahàbhàrata. Ognuno di questi ha preso qualche antica norma, trasmessa forse per secoli a memoria, e l’ha fissata con uno scritto, modificando ed aggiungendo, in modo da renderla, secondo il modo di vedere dell’autore, ag­giornata.

    Il Mahàbhàrata.

    Il Mahàbhàrata è il risultato del più grande degli sforzi così fatti per conservare in una forma raccolta tutte le antiche cre­denze e tradizioni della razza. Il nome Mahàbhàrata mostra esso stesso, che il movimento, che culminò nella compilazione di questa grande opera, aveva dietro di sé una vivida coscienza dell’unità del Bhàrata o popolo indiano. Per questa ragione si trova in quest’opera un grande sforzo fatto per presentare un corpo completo degli ideali esistenti nell’organismo sociale, nella religione, nella storia antica, nella mitologia e nell’etica del po­polo indiano.

    Quindi, se noi desideriamo di seguire la mitologia indiana dai suoi oscuri principi fino alla sua perfetta maturità, attraverso tutte le sue multiformi fasi intermedie, non possiamo avere una guida migliore del Mahàbhàrata. Perché nell’India la mitologia non è un soggetto di ricerche e disquisizioni archeologiche: qui essa imbeve l’intera vita del popolo come una influenza deter­minante. Ed è questa vivente mitologia, che. passando attraverso gli stadi di rappresentazione di successivi processi cosmici ed assumendo poi forme definite, è divenuta un potente fattore nella vita quotidiana del popolo: è questa vivente mitologia, che ha trovato posto nel Mahàbhàrata.

    Bisogna con ciò intendere che è la mitologia, di cui si trova la più profonda impressione nel Mahàbhàrata. quella che ha raggiunto un pieno sviluppo di forme e ha esercitato una potente influenza sulla società indiana. Altri miti sono per un certo tempo apparsi in una vaga forma nebulosa e poi sono spariti dome fumo, lasciando poca traccia dietro di loro, senza assu­mere forme concrete nella memoria della razza. Perciò è detto in un proverbio popolare, diffuso nel Bengala, che « Ciò che non si trova nel Mahàbhàrata, non si trova nella terra di Bhà­rata ». Nel Mahàbhàrata noi troviamo da una parte le (orme primitive della mitologia e d’altra parte le sue forme perfetta­mente sviluppate: troviamo in questa creazione della mente in­diana una completa rivelazione di quella mente.

    Nell’infanzia della mente umana gli uomini usavano mesco­lare le proprie fantasie e i propri sentimenti con le vite degli uccelli e degli animali, i diversi fenomeni della terra e dell’acqua, i movimenti del sole della luna delle stelle e dei pia­neti, e vedevano l’intero universo in questa forma umanizzata. Posteriormente, quando l’uomo assunse la più grande importanza agli occhi dell’uomo, la gloria dei mondi stellari impallidì innanzi alla grandezza umana.

    In questo libro abbiamo trattato di entrambi questi stadi della mitologia, dell’iniziale come del finale. Da un lato abbiamo dato alcuni cenni delle forme primitive, che la mitologia assunse dopo esser passata attraverso il vago indefinito delle prime età: d’altro lato abbiamo riferito più particolarmente le storie dei tempi quando la mitologia ebbe raggiunto la sua maturità.

    ​IL RÀMÀYANA

    Fonti.

    Vàlmìki è un nome quasi così vago come Omero. Egli fu, senza dubbio, un bràhmano di nascita e strettamente congiunto coi re di Ayodhyà. Egli raccolse canti e leggende di Ràma (chiamato dipoi Rama Chandra, per distinguerlo da Parashu- Ràma); e molto probabilmente alcune aggiunte furono fatte alla sua opera in un tempo posteriore, particolarmente Uttara Randa. Si dice che egli abbia inventato il verso sloka e che la lingua e lo stile della poesia epica indiana debbano a lui la loro forma definita. Secondo il Ràmàyana egli fu un contemporaneo di Ràma, diede ricovero a Sita durante i suoi anni di triste esilio ed insegnò il Ràmàyana ai figli di lei Kusa e Lava.

    La materia del Ràmàyana nella sua forma più semplice, la storia della riconquista di una sposa rapita, è simile a quella di un’altra grande epopea, l’Iliade di Omero. Non è verosimile però, quantunque l’ipotesi sia stata suggerita, che l’Iliade derivi dal Ràmàyana: è più probabile che tutt’e due i poemi rimontino a comuni fonti leggendarie, anteriori al millennio a. C.

    La storia di Ràma è raccontata in un Jàtaka, che può essere considerato come una più breve versione: una delle tante allora correnti. Probabilmente in un certo tempo, durante gli ultimi se­coli prima di Cristo, le versioni correnti della leggenda di Ràma furono raccolte da un poeta bràhmano e fuse in una storia sola con un intreccio chiaro e coerente; mentre la sua forma com­pleta, con l’aggiunto Uttara Randa, può arrivare fino al 400 dopo Cristo. Come insieme il poema, nella sua ultima redazione, sembra appartenere essenzialmente alla prima fase del rinasci­mento indiano, e riflette una civiltà molto simile a quella che si vede dipinta negli affreschi di Ajanta (primo a settimo secolo dopo Cristo); ma naturalmente il soggetto essenziale è molto più antico. La versione data in questo volume ammonta a circa un ventesimo dell’intero Ràmàyana. E una traslazione conden­sata, in cui sono incluse tutte le cose più essenziali; mentre non è stato aggiunto alcun episodio o figura, che non si appoggi sull’autorità del testo.

    Etica del Ràmàyana.

    Uno dei tratti più significativi del poema di Vàlmiki sta nella sua singolare rappresentazione di due società ideali: una idealmente buona ed una idealmente cattiva. Egli estrae, per così dire, dalla vita umana una moralità quasi assolutamente pura ed una immoralità quasi assolutamente pura, temperate da solo tanto delle opposte per quanto è necessario all’intreccio. Egli così calca nel più forte rilievo il contrasto di bene e di male, per quanto questi valori apparivano ai fattori della società indiana. Perché bisogna tener presente, che non solo i legisla­tori come Manu, ma anche i poeti dell’India antica concepivano la loro propria arte letteraria non come fine a sé stessa, ma solo come un mezzo per un fine: e quel fine era la più prossima possibile realizzazione di una società ideale. I poeti erano so­ciologi pratici, usando il grande potere della loro arte delibera­tamente per modellare lo sviluppo delle istituzioni umane e fon­dare ideali per tutte le classi degli uomini. Il poeta è infatti un filosofo, nel senso nietzschiano di uno che guida e dirige l’evoluzione di un tipo desiderato. I risultati hanno provato la saggezza dei mezzi scelti: perché se la società indiana si è sem­pre come un tutto avvicinata all’ideale od agli ideali, che sono stati la forza guidatrice del suo sviluppo, ciò è avvenuto attra­verso il culto degli eroi. Il Veda infatti appartenne sempre es­senzialmente ai dotti; ma il poema è stato tradotto in ogni dia­letto da poeti, quali Tulsi Dàs e Kamban, rivaleggiami di forza con lo stesso Valmiki. Il materiale del poema inoltre, come quello di più di un Puràna, è stato reso familiare non solo ai letterati, ma anche agli illetterati, comprese le donne, con la costante recitazione e per mezzo del dramma, del canto popo­lare e della pittura. Fin nei modernissimi tempi non v’è fan­ciullo o fanciulla indiana, che non cresca familiarizzandosi con la storia del Ràmàyana; e le loro più alte aspirazioni sono state e sono di divenire simili a Rama od a Sità.

    L'origine mitologica delle caste.

    È nel Ràmàyana e nelle leggi di Manu (circa 500 a. C.) che si trova la principale esposizione dell’ideale sistema indiano del Colore o Casta. L’origine mitica del Colore, secondo Manu, è la seguente: i Bràhmani nacquero dalla bocca, gli Ksatriya dalle braccia, i Vaisya dalle gambe ed i Sudra dai piedi di Brahmà. Questo mito è vero in un senso allegorico; ma è usato più let­teralmente per dare sanzione divina all’intero sistema. Ma non si deve supporre che Manu o Vàlmìki descrivessero uno stato sociale realmente esistente in un dato tempo in tutta l’India. La storia della società indiana può essere piuttosto descritta secondo i gradi di approssimazione o di divergenza da quei sistemi uto­pistici di Manu e di Valmiki. Come sia ancora potente la loro influenza, comparata anche con la forza dell’usanza, appare nel fatto, che anche oggigiorno lo scopo di molti riformatori è, non di abolire il sistema delle caste, ma di fondere gradualmente le sottocaste, finché non rimangano come divisioni sociali effettive altro che i quattro colori principali.

    Questa evoluzione, combinata con qualche provvedimento per il trasferimento da una casta all’altra di quelli che sono capaci e desiderosi di adottare le tradizioni ed accettare la disciplina di un Colore superiore, è ciò che desidererebbe anche lo scrittore di questo libro. Trasferimento di caste, o acquisizione di Colore, avviene continuamente anche ora, con l’assorbimento di tribù aborigene nel sistema indiano; ma storie come quella di Visvàmitra illustrano l’immensa difficoltà teorica di tali promozioni. Contro questo estremo esclusivismo molte proteste sono sorte nell’India: più notevole di tutte quella di Buddha, che, lungi dal- l’accettare il divino diritto di nascita del brahmano, insegnò che:

    Non per la nascita si diviene brahmano: solo per le azioni si diviene brahmano.

    La forza però del principio ereditario ha sempre prevalso contro tali reazioni, ed il più, che i riformatori hanno effettivamente raggiunto, è stato la creazione di nuovi gruppi di caste.

    La società ideale di Vàlmiki.

    Esaminiamo ora brevemente la natura della società ideale di Vàlmiki. Noi siamo subito colpiti dalla sua complessità e dall’alto grado di differenziazione delle parti interdipendenti di cui essa è costituita. Essa è fondata sulla concezione della gerarchia del grado: però il grado dipende, non dalla ricchezza, ma solo dalle qualità mentali. La dottrina della reincarnazione è assunta come sicura; e la concezione del Karma (cioè che le azioni di una vita producono inevitabilmente il frutto in un’altra vita) com­binandosi con essa, ne segue logicamente, che il grado venga de­terminato dalla eredità. Chi meritava di rinascere come un brah­mano rinasce come un brahmano, e chi meritava di rinascere come un sudra rinasce come un sudra.

    Questa è la teoria, che trova espressione pratica nel sistema delle caste o, come è chiamata dagli indiani, sistema del Colore (Varna), ovvero, in vernacolo moderno, della Nascita (jàti). Fondamentalmente vi sono quattro colori : Brahmani, i sacerdoti e i filosofi; Ksatriya, i guerrieri ed i nobili; Vaisya, gli agri­coltori ed i commercianti; e Sudra, i servi delle altre tre classi. Queste soltanto sono due volte nate, ossia ricevono l'ordinazione sacra dopo la nascita. Oltre di esse vi è un grande numero di suddivisioni delle quattro classi principali, derivate teoricamente da matrimoni incrociati, e distinguibili in pratica come caste o corporazioni di arti e mestieri.

    Per ogni colore la teoria indiana riconosce un proprio do­vere ed una propria morale (dharma) seguire un dharma diverso da quello della propria casta costituisce una gravissima colpa, degna di corrispondente punizione. In questa concezione del proprio dharma appare senz’altro la profonda distinzione della morale hinduista da tutte le morali assolute, come la cristiana o la buddhista. Per dare un esempio completo, il decalogo mo­saico dà il comandamento: Non uccidere; e questo comanda­mento è rivolto egualmente al filosofo, al soldato, al mercante: il che è abbastanza illogico. Ma l’hinduismo, quantunque sia tutto permeato della dottrina della ahimsà, innocuità, pure non obbliga ad essa gli ksatriya o i sùdra: è l’asceta ed il filosofo, che deve soprattutto non uccidere o non offendere alcun essere vivente; ma il guerriero, che rifugga, in caso di necessità, dall’uccidere uo­mini od animali, non è lodato come umanitario, bensì biasimato come uno che non segue la propria morale. Tale questione è sollevata proprio dal Ràmàyana, quando Sita suggerisce a Rama, che, siccome essi vivono da eremiti nella foresta debbono adot­tare la morale dei yogi ed astenersi dall’uccidere non solo gli animali ma perfino i ràksasas [ràksasas, daìtyas, yakas e asuras sono spiriti demoniaci sempre in guerra con gli uomini e con gli dèi). Ma Ràma risponde, che egli è obbligato alla sua mo­rale di guerriero ed alla promessa di proteggere gli eremiti, e che quindi deve obbedire ai doveri della cavalleria.

    Nella sua forma estrema questa dottrina della propria mora­lità è rappresentata come messa completamente in pratica solo nell’età dell’oro, quando solamente i brahmani praticavano l’asce­tismo o raggiungevano la perfetta illuminazione; nell'età se­guente i brahmani ed i ksatriya erano egualmente potenti, ed allora si dice che Manu componesse i sastras (codici), espo­nendo i doveri dei quattro varnas; nella terza età anche i vaisya praticarono l’ascetismo; e nella quarta perfino i sùdra si diedero alla penitenza. Così le quattro età rappresentano un deteriora­mento progressivo da una teocrazia ideale ad una completa de­mocrazia. Al tempo di Ràma il principio della quarta epoca è già adombrato da un sùdra, che divenne yogi e che fu ucciso da Ràma, non tanto per punizione, quanto per evitare i conse­guenti disturbi della società, già manifestatisi nella morte imma­tura di un fanciullo brahmano.

    In una società aristocratica, quale la contempla Vàlmiki, la severità della disciplina sociale cresce con l’altezza: quelli, che hanno il più grande potere, debbono praticare su loro stessi la più grande restrizione, in parte perché noblesse oblige, in parte perché tale austera disciplina è la condizione necessaria, senza di cui il potere rapidamente svanirebbe. E opportuno ricordare questo carattere essenziale di una vera società aristocratica, se vogliamo comprendere alcuni dei più significativi e, per i de­mocratici, più incomprensibili ed ingiustificabili episodi del Ràmàyana. Sullo ksatriya e soprattutto sul re incombe il dovere di mantenere il dharma, quindi egli deve non solo proteggere uomini e dèi contro la violenza, uccidendo i ràksasas, ma deve egli stesso, per dare l’esempio, conformarsi alle regole della mo­ralità accettata, anche quando queste regole non hanno più per lui alcun significato personale. È così che Rama ripudia due volte Sita, quantunque egli sia nella sua propria mente sempre convinto della completa fedeltà di lei. Questo ripudio di. Sita costituisce la nota più drammatica e notevole di tutta la storia. Rama e Sità si ricongiungono dopo un anno di separazione, alla fine di un lungo ed arduo conflitto. Questo momento, in cui il sentimento moderno chiederebbe una lieta fine, diventa la prova suprema del carattere di entrambi ; e la tragedia finale è solo posposta per l’apparizione degli dèi e la giustificazione di Sità mediante il giudizio divino. In questi tragici episodi, che formano la culminante crisi morale nelle vite sia di Rama che di Sita, Vàlmiki è completamente ed egualmente giustificato quale mae­stro e quale artista. La società ideale di Vàlmiki è quasi im­mune da colpe, per cui egli può anche meglio esibire i lungi- duranti effetti del malfare dei singoli individui e di singoli falli. La stessa Kaikeyi non è fatta ignobile: ella è solo molto gio­vane e accecata e volontaria; ma dal suo male agire appunto segue l’intera tragedia della vita di Ràma e l’adempimento dei propositi dei sommi dèi.

    Sopra questo mondo umano dell’età dell’argento è disegnato il mondo colpevole ed inumano dei ràksasas, in cui la bramosia e la voluttà e la violenza e l’inganno sostituiscono la generosità e la rinunzia e la gentilezza e la verità. Ma queste cattive pas­sioni sono dirette verso l’esterno contro gli uomini e gli dèi e tutti quelli, che sono estranei ai ràksasas: tra loro stessi vi è affezione e massima devozione coniugale, vi è coraggio indoma­bile e leale fedeltà. La città dei ràksasas è molto bella, edificata dallo stesso Visvakarman; essi conoscono tutte le arti, venerano gli dèi, con l’austerità e la 'penitenza guadagnano anche favori da essi e, se anche sono cattivi, almeno non sono ignobili: anzi ve ne sono alcuni, come Vibhisana, che non sono cattivi affatto. Dopo tutto, quindi, questi ràksasas non sono inumani ; ma il loro stato è un’immagine dell’aspetto adharmico, ingiusto, della società umana: un’allegoria, che noi tutti comprenderemmo, se ci fosse presentata oggi per la prima volta come quella dei Ptnguins di Anatole France.

    La storia.

    L’assedio di Lanka è raccontato nell’originale con grande lunghezza e con grottesco humour. Ma la sua violenza è com­pensata da molti incidenti di fedeltà e tenerezza cavalleresca. Ràvana, una volta ucciso, è ricordato da Ràma come un amico; Mandodari piange per lui come Sita stessa piangerebbe per Ràma. La storia è piena di cose meravigliose, ma l’elemento magico ha spesso un profondo significato e non è un semplice ricamo fantastico. Tutti i grandi poteri, posseduti dai protago­nisti di una parte o dell’altra, sono esposti come acquistati con l’autodisciplina e la concentrazione mentale, non come frutto di un talismano acquistato fortuitamente. Così il conflitto diviene, in ultima analisi, essenzialmente un conflitto di caratteri con caratteri. Si prenda il caso delle armi magiche infuse del potere di irresistibili incantesimi. Hanuman è abbattuto e paralizzato con una di queste armi magiche; ma appena legami fisici sono ag­giunti alla forza mentale, egli è libero. Qui certo vi è la chiara evidenza di una comprensione del principio, che rafforzare con la violenza il potere della sapienza porta inevitabilmente ad un insuccesso.

    In tal modo il significato del Ràmàyana di Vàlmiki diviene apparente a quelli che lo leggono e rileggono attentamente; e la sua influenza duratura sulla vita indiana e sui caratteri ideali diviene facilmente comprensibile. Non è possibile di distogliersi da questo aspetto del mito di Ràma e di Sità, senza rimpian­gere

    profondamente, che questi grandi mezzi di educazione siano stati eliminati, in nome della neutralità religiosa, dai moderni sistemi educativi nell’India. Perché non si sarebbe esagerati, se si dicesse che non può essere un vero cittadino dell’ India chi non sia familiare della storia di Rèma e di Sita e non abbia conoscenza della morale concepita da uno dei più grandi mae­stri indiani. Forse si può andare ancora oltre e dire, che chi non sia familiare con la storia di Rama e di Sita, non può es­sere un vero cittadino del mondo.

    Il Ràmàyana come epopea animale.

    Qua e là attraverso il mondo c’imbattiamo in echi e sussurri della grande epopea animale dell’uomo primitivo. Come un tutto essa non esiste più e non può essere nemmeno ricuperabile. Può essere solo indovinata ed intuita da un cenno qua, un fram­mento là. Ma in nessuna parte del mondo moderno il materiale per la sua restaurazione è così abbondante come nell’India. Oggi ancora nella immaginazione indiana vi è un’unica simpatia per l’espressione animale. Un uomo od un fanciullo, egualmente semplice e gentile, raccontando qualche storia di topo o di scoiat­tolo, porta il racconto ad un climax con gli stessi gridi e mo­vimenti della creatura che egli descrive. Istintivamente si assume che almeno i sentimenti fondamentali, se non i pensieri, delle creature impellicciate e piumate sono proprio come i nostri. Ed è qui, sicuramente, in questa rapida interpretazione, in questa profonda intuizione di parentela, che troviamo le tracce reali di quel carattere, che portò all’antica formazione del bud­dhismo e del jainismo, le fedi gentili.

    Gl’indiani sono pietosi, e la crudeltà occorre solo occasio­nalmente fra essi. Che sia relativamente rara è provato dalla familiarità e dall’assenza di paura di tutti i più piccoli uccelli ed animali. Ma in questa inconsapevole attitudine dell’immagi­nazione indiana, nella sua mimica e rapida percezione del semi­comico e semitragico della creazione muta, noi abbiamo una eredità attuale dalla infanzia del mondo, da quel tempo di giochi dell’uomo, in cui gli animali a quattro piedi erano i suoi fratelli e compagni.

    Questo spirito bizzarro, questo giocondo senso di parentela ci parla attraverso le storie buddhiste della Nascita (Jàtaka), come fa un simile sentimento nelle favole di Esopo e nei rac­conti dello zio Remo. Il Jàtaka, veramente, tratta della vita ani­male come di un tramite per un’alta filosofia ed un nobile ro­manzo, invece di farle semplicemente illustrare acuti proverbi od indicare comune buonsenso. L’amore di Buddha e di Yasodarà formava la leggenda poetica di quel tempo, e non vi era niente d’incongruo per le menti di quel periodo nel far sì, che uccelli ed animali divenissero attori del dramma. I cigni sono esposi­tori della Dottrina nelle corti dei re. Le greggi di antilopi, come quelle degli uomini, hanno capi e principi, che sono disposti a sacrificare le loro vite per il bene dei seguaci. Pur già anche qui noi vediamo all’opera la chiara mente ariana, che ordina e distingue i fili imbrogliati del più antico ordine di pensieri. Da quell’amica sostanza nascono le tendenze, che vengono alla su­perficie dei grandi sistemi teologici dei tempi posteriori. Da essa furono formati gli eroi, come Hanuman e Garuda, che scendono nell’arena moderna di ogni nuova formulazione del pensiero in­diano, come figure già familiari, per partecipare alla sua azione. Quel che manca in tutta la poesia di questo graduale arianizzamento è l’elemento della paura, che, sebbene presente, va sempre decrescendo. La mente ariana è essenzialmente organiz­zatrice e va ampliandosi sempre più scientificamente, sempre più razionalmente nella sua contemplazione delle cose. Il colore ed il capriccio, che rendono le mitologie primitive così ricche di stimoli per l’immaginazione, sono per lo più sempre il con­tributo di razze più antiche e più infantili. All’umanità, nella sua prima aurora, parve che negli animali vi fosse alcunché di divino. Le loro voci inarticolate, allora non molto dissimili dalla lingua stessa dell’uomo, costituivano un oracolo. Le loro vite celate e le subitanee apparizioni sulle vie dell’uomo parevano so­prannaturali. L’oscura intelligenza, che traspariva dai loro occhi, sembrava un’ampia benevolenza, trascendente il pensiero

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