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Il profeta senza nome
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Il profeta senza nome

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About this ebook

«Ora, io vi ripeto: eliminate bene e male dal vostro vocabolario, perché è possibile vedere nelle tenebre com'è possibile essere accecati dalla luce».

Queste sono le parole di Noname, un misterioso predicatore afro americano che sostiene di avere perduto il suo nome mortale dopo avere conosciuto il Dio Ineffabile. In molti lo credono un illuminato, un Buddha, il Cristo tornato sulla terra. Eppure un passato oscuro lo lega a Martin Connor, un ragazzo condannato a morte per avere commesso dei crimini terribili e spietati.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 14, 2018
ISBN9788827818930
Il profeta senza nome

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    Il profeta senza nome - Eva Franchi

    Mandel)

    PROLOGO

    Si chiamava Martin Connor, ma lui rifiutava ogni nome. I nomi sono illusione. Non esistono nomi capaci di identificare Colui che non può essere conosciuto, non esistono nomi capaci di contenere la vita perché la vita è continuo movimento. I nomi appartengono ai morti, lui aveva perso il suo nome il giorno in cui aveva riacquistato la Vita.

    Questo almeno diceva Martin Connor. Gli hanno creduto in tanti. L’hanno venerato come un nuovo Messia, un Buddha, un Cristo, un illuminato.

    Io, invece, ho sempre dubitato.

    Da quando mi fu chiesto di indagare su di lui, non ho mai smesso di spremermi il cervello per capire chi fosse veramente. Ho fatto lunghe ricerche e ho provato a ricostruire la sua storia nel modo più fedele possibile. Vi avverto che questa non è una biografia convenzionale, ma una raccolta delle testimonianze delle persone che l’hanno conosciuto, inclusa la mia. Connor diceva che le nostre vite sono molto più interessanti della maggior parte dei film che danno alla televisione. Così esortava i suoi discepoli, gli amici, e chiunque incontrasse per strada, a scrivere le proprie memorie. Anche se non credo che il suo consiglio fosse del tutto disinteressato. Stava utilizzando gli scritti che i suoi discepoli gli consegnavano, per inserirli nella sua autobiografia. Sono riuscito ad entrarne in possesso insieme all’autobiografia dello stesso profeta. Mi auguro che i suoi discepoli non mi accusino di averli defraudati per questo. Raccogliere maggiori informazioni possibili è il mio mestiere. D’altra parte il manoscritto non è mai stato depositato dai suoi seguaci per tutelare il copyright... A volte, le persone che si preoccupano di preservare il loro spirito si dimenticano di tutelare i diritti d’autore…

    Chiedo scusa se il modo in cui riporto i fatti potrà sembrare un collage bizzarro e male articolato. Ho fatto quello che ho potuto utilizzando tutto il materiale che sono riuscito a mettere insieme. Avrei potuto chiedere aiuto a qualche professionista del settore, ma alla fine ho pensato che fosse meglio lasciare parlare i diretti protagonisti di questa storia, per presentarvi un quadro il più possibile imparziale.

    Jack Heider (investigatore privato)


    Narra Lisa Stephen

    Si introdusse violentemente in casa nostra insieme al suo complice. Avevano forzato la serratura con un grimaldello e si erano precipitati nel soggiorno. Sapevano che ci trovavamo lì a guardare la televisione, ci avevano spiati dalla finestra e avevano intuito che vivevamo soli, io e mio marito.

    Lui teneva in mano una pistola, e il suo amico un coltello.

    — Se urlate vi ammazziamo...

    Aveva minacciato l’altro, puntandomi il coltello alla gola. Poi aveva aggiunto, rivolto a mio marito:

    — Non provate a fare i furbi sporchi bianchi o a te facciamo saltare le cervella mentre io mi scopo tua moglie dopo averle squarciato la gola.

    Appena terminò di pronunciare quella brutale frase, allontanò la lama del coltello dalla mia giugulare e cominciò a ridere. Rideva mentre si pungeva con la punta del coltello il palmo sbiadito della mano nera, desideroso di spiegarci meglio le sue motivazioni:

    — Così non urla quando gode. Sai, non possiamo rischiare di farci sentire dai vostri sporchi vicini!

    Aveva una risata singhiozzante, che ricordava quella dell’orso Yoghi. Ho ancora bene impressa la scena nella memoria: l’orso Yoghi travestito da negro che ci minaccia punzecchiando la sua mano con un coltello, e lui che ci guarda con odio puntandoci la pistola contro.

    — Dateci i soldi e i gioielli, bastardi! — tuonò di nuovo l’orso Yoghi tornando a recitare la parte del cattivo.

    Lui invece non proferiva parola, ma i suoi occhi erano raggelanti.

    Eppure erano occhi bellissimi, due pozzi impenetrabili, neri, grandi e profondi, da cui riuscivi solo a scorgere rabbia, disprezzo, rancore e nessuna pietà.

    La mente era come congelata, i pensieri rattrappiti dal freddo del terrore che provavo, eppure ricordo chiaramente l’unica domanda nitida che formulò il mio cervello mentre puntavo gli occhi nei i suoi: «Che cosa si nasconde in fondo al tuo pozzo? Possibile che non ci sia altro, oltre ciò che vedo? Possibile che possa esistere un uomo così incapace di provare pietà?». Ora so cosa si nascondeva in fondo a quel pozzo. Allora non riuscivo a vedere. Per me lui era soltanto un mostro, un alieno, un rifiuto della società che minacciava di distruggere la mia vita, le mie sicurezze, la stabilità che mi ero costruita. Non ricordo neppure se li odiavo. Ero troppo sconvolta da quanto mi stava accadendo per trovare spazio anche per l’odio.

    Salimmo tutti e quattro nella camera da letto dove io tenevo quei pochi gioielli che possedevo, alta bigotteria, ma tutta roba falsa. Non sono mai stata un’appassionata dei gioielli e quelli autentici stavano al sicuro in banca, in una cassetta di sicurezza. I soldi contanti, messi insieme, non arrivavano a cinquanta dollari. Usavamo sempre le carte di credito. L’orso Yoghi si infuriò moltissimo per questo, tuttavia sembrava meno pericoloso, lanciava minacce, insulti, imprecazioni, come un cane che abbaia, ma non ha il coraggio di mordere. Lui invece restava zitto, ma i suoi occhi... erano un pozzo di rabbia in procinto di esplodere.

    — Spogliati, troia!

    Per la prima volta aveva parlato anche lui. La voce era raggelante come il suo sguardo.

    Restai ferma, paralizzata dalla paura.

    — Spogliati! —intimò ancora— O ti scarico il caricatore nella fica! Temevo che, a differenza del complice, lui sarebbe stato capace di mettere in pratica le sue minacce. L’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Ubbidii. Agivo come in trance. Non potevo credere che stesse accadendo realmente.

    Passò la pistola in mano al suo complice e gli prese il coltello.

    — Tienilo a bada — gli disse indicando mio marito.

    Ero rimasta in mutandine e reggiseno. Lui si avvicinò e mi sussurrò puntandomi il coltello alla pancia:

    — Nuda, troia!

    Poi, con uno schiaffo violento mi fece cadere bocconi sul letto e mi strappò gli ultimi indumenti di dosso. Fu come essere travolti dall’incontrollabile energia di una bufera. Non ebbi neanche il tempo di rendermi conto di essere stata scaraventata e denudata, che già lui era sopra di me e mi teneva immobilizzata sul letto con una forza da cui, anche se non avessi avuto il coltello puntato contro, era impossibile sottrarsi. Il resto accadde in un attimo.

    Mark, mio marito, incurante della pistola che lo minacciava si scaraventò sopra di lui. Sembrava un agnello saltato in groppa a una belva feroce il mio bel Mark, così delicato, rispetto a quell’ammasso di cattiveria.

    — No, non farlo! —Ebbi la forza di urlargli quando lo vidi accorrere in mio aiuto. Forse l’orso Yoghi non avrebbe sparato, ma lui, lui non avrebbe avuto pietà.

    Si girò di scatto, tolse il coltello dalla mia gola e lo infilò dritto in quella di mio marito. La lama lo passò da parte a parte. Si scrollò di dosso il corpo inerme come si fa con un insetto fastidioso.

    Mi sedetti sul letto e cominciai ad urlare in preda all’isteria. Lui mi diede uno schiaffo violentissimo, mi ributtò in posizione supina tappandomi la bocca e cominciò a penetrarmi con rabbia, mentre il corpo di Mark giaceva a terra rantolante inondando il pavimento di sangue. La sua mano, grande e pesante, mi prendeva anche il naso pressando sul mio viso come una morsa. Pensai che sarei morta soffocata. Ho ancora il vago ricordo di un suono di sirene. Poi solo buio. Devo essere svenuta. Quando ho riaperto gli occhi lui non c’era più. Mi sono trovata attorniata da tante facce compassionevoli, in una stanza d’ospedale.

    E fu così che lo conobbi: lui, all’anagrafe Martin Connor, colui che in molti chiamano il nuovo Messia.

    Narra un membro della giuria

    Non aprì bocca per tutto il processo. Non cercò neanche di difendersi, di rendersi in qualche modo gradevole per suscitare la nostra pietà. Si mostrava distaccato, sprezzante, percepivi una furia agghiacciante dentro di lui nonostante non proferisse parola. Era evidente che non provava alcun rimorso. Sono contrario alla pena di morte, non spesi troppe energie per cercare di salvargli la vita. La commissione di inchiesta lo sottopose a visita psichiatrica per dargli almeno una possibilità, lui accolse il medico forense con una freddezza glaciale. Si rifiutò di rispondere alle sue domande. L’unica frase che pronunciò fu «Vattene!» Lo psichiatra provò ad insistere e lui, nonostante fosse ammanettato, riuscì a sferrargli, con le mani giunte come quelle di un giocatore di volley, un pugno di una violenza inaudita. Per fortuna c’era la parete divisoria a proteggere lo psichiatra. Quell’infelice ottenne l’unico risultato di ferirsi le mani e di firmare da solo la sua condanna.

    Avevamo tutti voglia di tornarcene a casa dalle nostre famiglie. Gli altri giurati volevano condannarlo alla pena capitale e io non me la sentii di sprecare ore della mia vita a difendere dei principi in favore di un ragazzo che fino a quel giorno aveva avuto il tempo di uccidere un solo uomo, ma che diede a tutti noi l’impressione che sarebbe stato capace di compiere un’autentica strage, se ne avesse avuta l’occasione. Oltretutto penso che non sarebbe servito a niente. Quando i giurati non raggiungono l’unanimità, rimangono solo due possibilità: quella di commutare la pena di morte in ergastolo e quella di riaprire un nuovo processo con nuovi giurati. I delitti di quel ragazzo avevano suscitato una indignazione tale da convincermi che la commissione d’inchiesta avrebbe deciso di aprire un nuovo processo piuttosto che concedergli l’ergastolo per la mancanza del voto di un solo giurato.

    Socrate aveva bevuto la cicuta per rispetto di una legge che considerava ingiusta. Perché mai io avrei dovuto battermi per Martin Connor? Così, firmai insieme a tutti gli altri, la sentenza capitale sebbene fossi e sia ancora oggi fermamente convinto che uno Stato non possa insegnare che uccidere è male trasformandosi a sua volta in un assassino.

    Narra Lisa Stephen

    Quando conobbi Mark mi ero da poco laureata alla scuola d’arte e lavoravo in uno studio grafico. La mia passione era sempre stata dipingere, ma per mantenermi accettai di lavorare in quello studio. Il signor Collins, padre di Mark e nostro cliente, ci commissionò la campagna pubblicitaria della sua linea di arredamento per uffici. Mark aveva da poco completato gli studi di architettura e lo aiutava a dirigere l’azienda. Ci conoscemmo il giorno in cui venne insieme a suo padre nel nostro studio per valutare i bozzetti. Fu amore a prima vista, ci sposammo dopo un anno. I suoi genitori ci regalarono la casa in cui fecero irruzione Connor e il suo complice. Dopo quei fatti la vendetti, non riuscivo più a viverci. Il minimo rumore che sentivo mi faceva saltare i nervi e i ricordi erano troppo dolorosi. Avevamo tanti bei progetti insieme. Io volevo aprire una galleria d’arte e lui creare una sua linea d’arredamento per locali notturni. Mark era un uomo pieno di vita, molto sportivo, il fine settimana andavamo sempre fuori per qualche escursione, ci piaceva fare free climbing e andare in canoa. Era un bellissimo ragazzo, biondo, atletico, con il viso di un angelo. La vita senza di lui mi sembrava come la terra senza il sole. Non riuscivo più a dipingere, non riuscivo a trovare più entusiasmo in niente di quello che facevo, ma non odiavo l’uomo che aveva ucciso mio marito. Ricordo che non l’odiavo. Non che provassi alcuna forma di compassione per lui, ma non ero sufficientemente viva per odiare. Dopo quella notte cominciai a vivere come in trance, quello che accadeva nel mondo esterno mi sfiorava senza scalfirmi. Mia suocera invece esultò quando lo condannarono alla sedia elettrica. Era assetata di vendetta. Si era comprata uno di quei spessi blocchi di fogli per prendere appunti. Su ogni pagina aveva segnato i giorni, 541, e tutte le mattine, appena alzata, strappava via una pagina, ansiosa di arrivare al giorno zero. Cinquecentoquarantun giorni, la distanza che separava Martin Connor dal suo diciottesimo compleanno, che egli avrebbe festeggiato sulla sedia elettrica, perché nello Stato di Promise non si può giustiziare un minorenne, però è possibile prorogarne l’esecuzione nell’attesa della maggiore età.

    Sedici anni, non avrei mai creduto che un uomo con quegli occhi potesse avere poco più di sedici anni, eppure quella era la sua età anagrafica. Tuttavia Martin Connor non aveva età per me, forse inconsciamente l’avevo compreso anche allora. I suoi occhi erano lo specchio di un baratro di desolata umanità in cui sembrava impossibile trovare un fondo, un inizio, una causa, un perché.

    Quando quelli dell’associazione contro la pena di morte cercarono di contattarmi, li mandai al diavolo. In realtà non ce l’avevo con loro, semplicemente non mi importava più di niente e di nessuno. Neanche di Martin. Se fosse riuscito a fuggire quella notte, non avrebbe fatto differenza per me. Ma qualcuno lo vide introdursi in casa nostra e chiamò la polizia.

    Furono processati per direttissima. A Martin venne assegnato un avvocato d’ufficio, gliene fu dato uno che si mormorava fosse componente della National Alliance, un uomo sulla sessantina che non vedeva l’ora di farlo sparire dalla faccia della terra. Questi si appellò alla clemenza della corte. Il risultato fu il più prevedibile nello Stato di Promise: la condanna a morte, da eseguire proprio il giorno del suo compleanno. Il suo amico, l’orso Yoghi, se la cavò con diciotto anni di carcere. Come si può essere troppo severi con uno che ride come un cartone animato?

    In ogni caso io ero completamente indifferente a tutta la faccenda. Avrebbero potuto condannarlo all’ergastolo, a venti anni o addirittura assolverlo, per me non cambiava niente. Tutto ciò che volevo allora era mio marito. Ma nessuna giustizia al mondo sarebbe stata in grado di restituirmelo.

    Narra Martin Connor, colui che chiamano il nuovo Messia

    Non è facile per me adesso raccontarvi di Martin Connor, sono passati tanti anni e faccio fatica a rientrare nei panni del ragazzo in cui mi identificavo una volta. Ma proverò, farò questo sforzo per voi. Proverò a tornare a guardare il mondo dal suo punto di vista, a rindossare i suoi vestiti, a parlare con il suo linguaggio.

    Comincerò da quando la belva feroce che lacerava la mia anima mi indusse a compiere azioni deplorevoli. Arrivai a uccidere e stuprare. Per questo venni giustamente condannato e fui rinchiuso nella cella di un carcere da dove sarei uscito solo il giorno della mia esecuzione. Vi racconterò della mia storia come se vi descrivessi la trama di un film, o vi leggessi una commedia teatrale, perché il personaggio che inconsapevolmente ho interpretato non sono io, ma un fantasma lontano che per un attimo illusorio ho creduto appartenermi. Molti anni fa si identificava ancora nel suo nome anagrafico: Martin Connor.

    Comincerò da quando Martin Connor fu rinchiuso nel braccio della morte.

    Parte 1

    IL CARCERE DELLA MORTE

    Scena 1

    Una camionetta della polizia oltrepassa il cancello automatico posto tra due torrette di controllo in un carcere di massima sicurezza.

    La vettura si ferma in un piazzale. Due poliziotti armati accorrono per aprire la portiera e permettere a un ragazzo di colore, ammanettato mani e piedi, di scendere dalla vettura. Il ragazzo attraversa la piazza, i passi sono corti e incerti per via delle catene; è scortato dai due poliziotti che gli hanno aperto la portiera e dai quattro che erano seduti insieme a lui nella macchina. Insieme, oltrepassano un immenso portone di acciaio: l’ingresso del carcere di Saint Hope.

    Il ragazzo viene condotto in una stanza asettica dove un poliziotto in divisa, dopo averlo liberato dalle manette, gli chiede di togliersi gli abiti.

    Il ragazzo ora è completamente nudo.

    Ha un fisico piuttosto alto, leggermente sovrappeso, i capelli sono lunghi, neri e irsuti raccolti in treccine rasta.

    Due uomini in camice bianco dal fisico massiccio lo perquisiscono nelle parti intime per controllare che non nasconda alcun oggetto contundente che potrebbe utilizzare per nuocere o tentare la fuga.

    Il prigioniero sentendosi infilare un dito nell’orifizio anale tenta di ribellarsi, prova a malmenare i due infermieri mentre urla:

    — Porci froci maledetti!

    Un gruppo di poliziotti accorre in soccorso dei due infermieri. Il ragazzo viene brutalmente immobilizzato. Un poliziotto esclama:

    — Non c’è motivo di agitarsi per così poco! Cosa vuoi che sia un dito nel culo? Vedrai come godrai quando sarai arrostito sulla sedia elettrica!

    Dopo la perquisizione, al ragazzo viene intimato di indossare la divisa del carcere; lui la indossa senza opporre resistenza, ma il suo sguardo sui poliziotti è sardonico e sprezzante; questi gli rimettono brutalmente le manette a mani e piedi, poi gli ordinano di posare per le foto segnaletiche.

    Martin, questo è il nome del ragazzo, fa delle brutte smorfie e tira fuori la lingua mentre viene fotografato.

    — Vedremo se avrai ancora voglia di scherzare quando salirai sulla sedia elettrica... —commenta il fotografo irritato.

    Martin ha finito di posare, due poliziotti gli infilano un cappuccio nero in testa. Quindi lo guidano nei corridoi del carcere facendogli percorre la strada a zig zag: giri senza senso in modo che perda l’orientamento e non sia in grado di trovare l’uscita della prigione labirinto, nell’improbabile caso di un tentativo di fuga. Martin fa fatica a seguire l’andatura veloce che gli impongono i poliziotti, a causa dei piedi incatenati, e cade a terra. Un poliziotto gli sferra una mitragliata di calci, poi lo costringe brutalmente a rialzarsi.

    Dopo numerosi giri a vuoto, gli viene chiesto di fermarsi davanti a una pesante porta di acciaio che si apre automaticamente. Gli vengono tolte le manette e il cappuccio e subito dopo è spinto nella cella; la porta si chiude emettendo un rumoroso tonfo metallico, potente come la lama di mille ghigliottine che scendono giù contemporaneamente.

    Scena 2

    La mia prima notte nel carcere di St. Hope

    Martin è rimasto solo, chiuso tra le mura di una cella senza finestre, il cui unico arredamento consiste in un letto attaccato alla parete, un tavolino fissato al muro, una sedia incollata al pavimento, un wc e un lavello. Riesco ancora a vederlo, com’era allora. Un ragazzo alto, dal fisico massiccio, eppure sembra così piccolo ed impotente in piedi, al centro della cella. Ora vedo il suo volto come in un film, come se la telecamera fosse passata da una ripresa panoramica a un primo piano. Non vedo paura, non vedo rabbia, non vedo pianto dipinto su quel volto, semplicemente il vuoto.

    Poi il buio. È sera. Le luci del carcere sono state appena spente. Tutto è nella penombra. Ma è solo illusione. Non esiste il buio in quella cella. Una telecamera di sicurezza lo riprende. Ora vedo un guardiano del carcere in un ufficio. Su un maxi schermo controlla tutte le celle di sicurezza, anche quella di Martin. La sagoma di Martin si distingue chiaramente. Non esiste l’oscurità nel carcere di S. Hope. Non c’è modo per nascondersi.

    Scena 3

    Terzo giorno a St. Hope

    Martin è seduto sul letto. Batte i piedi per terra in modo ritmico e canta a bassa voce un pezzo rap. Rumore di una serratura fotoelettrica. La porta della cella si apre. Un poliziotto lascia entrare un prete cattolico afroamericano. È un uomo mingherlino con un volto bonario dai lineamenti tondeggianti, non alto di statura, la testa coperta da folti riccioli neri appena spruzzati di grigio. Ha circa sessant’anni.

    Martin lo ignora.

    Il prete gli si avvicina dicendo:

    Padre Anthony: — Mi chiamo padre Anthony. Lieto di fare la tua conoscenza.

    Padre Anthony porge la mano a Martin.

    Martin la guarda un attimo con indifferenza, non la stringe, continua a canticchiare e a battere i piedi ignorando il prete.

    Padre Anthony: — Ti piace la musica fratello? —gli chiede il prete—.

    Martin continua a ignorarlo.

    Padre Anthony: — Sei sordo, deficiente o ti sono solo antipatico? — insiste il prete.

    Martin: — Non me ne frega un cazzo di te. Togliti dai coglioni! — dice Martin. Poi riprende a canterellare fra sé e a battere i piedi.

    Padre Anthony: —È stupido da parte tua rifiutare un aiuto!

    Martin: — Puoi farmi uscire di qui?

    Padre Anthony: —Lo sai che non posso

    Martin: — Lo vedi che non servi a un cazzo? Togliti dai coglioni!

    Per alcuni istanti i due uomini rimangono in silenzio. Martin riprende a canticchiare e a battere i piedi sul pavimento come se il prete non esistesse.

    Padre Anthony: — Mi sembra che ti piaccia la musica. Posso procurarti qualche CD, se vuoi.

    Gli occhi di Martin sono rivolti al cielo.

    Padre Anthony: —Fammi una lista dei tuoi pezzi preferiti...

    Il prete consegna un block notes e una matita a Martin che, senza degnarlo di uno sguardo, glieli strappa dalle mani e comincia a scrivere.

    Restituisce il blocco al prete. Non lo guarda mai in faccia. Padre

    Anthony dà una breve occhiata alla lista.

    Padre Anthony: — Va bene Martin — si dirige verso la porta e fa segno alle telecamere di aprirgli, poi lo saluta con un cenno della mano, ma lui continua a ignorarlo.

    Scena 4

    Quarto giorno a Saint Hope

    Martin canta un brano rap mentre marcia avanti e indietro lungo il perimetro della cella battendo il ritmo con i piedi. Ogni tanto si ferma davanti alle telecamere e fa dei gesti osceni con le dita della mano mentre si esibisce.

    Martin (cantando): — Fuck the power, fuck the man, fuck the police... man...

    Si apre la porta automatica della cella. Entra Padre Anthony. Martin continua a cantare ignorandolo: — Fuck the priest...

    Padre Anthony inserisce un disco in un compact portatile senza proferire parola e porge le cuffie a Martin.

    Lui smette di cantare e prende le cuffie. Le mette alle orecchie; dopo alcuni secondi se le toglie e le scaglia addosso a padre Anthony, con un balzo gli si avvicina sovrastandolo con fare minaccioso.

    Martin: — Questa non è la musica che ti ho chiesto!

    Padre Anthony: —Ho fatto il possibile, ma non mi hanno dato il permesso di farti ascoltare i brani che hai scelto...

    Martin gli sussurra all’orecchio con voce glaciale: —Togliti dai coglioni, se non vuoi che ti ci tolga io!

    Entra un poliziotto allarmato. Il prete gli fa segno con la mano di non intervenire, assicurando che la situazione è sotto controllo.

    Padre Anthony (rivolto a Martin, alzando la voce): —Senti, per me puoi ascoltare tutte le cazzate che vuoi, sono quelli della commissione che te le hanno rifiutate. Mi hanno detto che sono altamente diseducative, anche se francamente non capisco che gliene importi della tua educazione visto che ti resta poco da vivere. Quegli imbecilli volevano autorizzarmi a portarti solo musica classica!

    Martin va a coricarsi sul letto senza proferire parola.

    Padre Anthony: —Vuoi che me ne vada? Devo portare via la musica?

    Martin (lo sguardo rivolto al soffitto): —La musica la puoi lasciare!

    Padre Anthony: —Mi dispiace Martin, quelli della sicurezza non mi permettono di lasciarti da solo con oggetti che potresti utilizzare come armi. Se vuoi ascoltare la musica, io devo restare... — Padre Anthony alza le braccia in segno di resa, mentre spiega questo.

    Martin (lo guarda minaccioso): —La prossima volta portami le sigarette, prete.

    Padre Anthony: —Non so se mi daranno il permesso, ma proverò a chiederlo.

    Martin: — Mi fai pena! Voi preti non servite proprio a un cazzo.

    Padre Anthony: —Allora abbiamo qualcosa in comune noi due!

    Martin: —Fanculo stronzo! Non fare il furbo con me! E non provare a convertirmi! Non mi vedrai invocare il tuo Dio neppure quando mi metteranno sulla sedia elettrica!

    Padre Anthony: —Bravo figliolo, così mi piaci, ho fede in te. Sono convinto che saprai morire con dignità. Almeno nella morte riuscirai a dimostrare di essere un uomo!

    Martin (si alza dal letto e si avvicina a Padre Anthony sussurrandogli all’orecchio): —Attento prete! Prima che arrivi il giorno della mia esecuzione, potrei averti già spezzato il collo. Non ho niente da perdere, lo sai...

    Padre Anthony: —Lo so, è per questo che sono venuto.

    Martin strappa bruscamente dalle mani di Padre Anthony le cuffie del lettore CD.

    Martin: —Perdi il tuo tempo con me! Lasciami in pace se non vuoi raggiungere il tuo Dio troppo presto!

    Martin torna a sedersi sul letto. Indossa le cuffie, è completamente estraniato dall’ambiente circostante e ben attento a ignorare il prete. Eppure, qualcosa di impercettibile si sta muovendo in lui. Dopo quattro giorni trascorsi senza la possibilità di fare niente in una cella vuota si sente come un assetato nel deserto, qualsiasi diversivo è una forte tentazione per lui, persino ascoltare musica che non ha scelto. Nina Simone canta don’t let me be misunderstood. Per la prima volta nella sua vita una musica diversa penetra nelle sue orecchie e questo, in fondo, anche se non lo ammetterebbe mai con nessuno, tanto meno con se stesso, lo incuriosisce e non gli dispiace.

    Scena 5

    Quinto giorno a S. Hope

    Martin è seduto sulla sedia fissata al pavimento davanti al tavolo. Sta mangiando il suo pasto, spezzatino al sugo di pomodoro. Dopo alcuni minuti sposta la ciotola di lato e vi intinge il dito. Comincia a fare dei disegni, utilizzando come colore il sugo e come pennello il dito indice.

    Si apre la porta ed entrano tre poliziotti robusti. Il primo poliziotto si avvicina al tavolo e porta via la ciotola. Sul tavolo sono raffigurati tre poliziotti che fanno il trenino mentre si sodomizzano a vicenda. Sopra spicca la parola fuck.

    Martin: — Non ho ancora finito di mangiare...

    Secondo poliziotto: — Non me ne frega un cazzo, coglione!

    Terzo poliziotto: — Credi di essere spiritoso, eh?

    Il secondo e il terzo poliziotto stanno per avventarsi su Martin.

    In quel preciso istante entra Padre Anthony. I due poliziotti si bloccano.

    Secondo poliziotto (a Padre Anthony): —Questo non è il suo orario di visita.

    Padre Anthony (mostra un documento ai poliziotti): — Ho un permesso speciale della commissione. Oggi ho una riunione a cui non posso mancare e mi hanno autorizzato a visitarlo adesso.

    Rientra il primo poliziotto. Cancella scritta e disegni dal tavolo con uno strofinaccio.

    Primo poliziotto (a Padre Anthony): — Perde il suo tempo con lui. È solo carne bruciata.

    Martin non proferisce parola. Lancia uno sguardo di sfida ai poliziotti, mentre li saluta alzando il dito medio della mano destra verso il soffitto. I poliziotti non osano aggredirlo in presenza del prete. Escono dalla cella lasciandolo solo con lui. Martin rimane alcuni istanti in silenzio, poi chiede:

    — Le hai portate le sigarette?

    Padre Anthony siede al tavolo a fianco a lui. In realtà non ci sono altre sedie a disposizione nella cella, pertanto il prete si accovaccia quanto basta per rimanere alla stessa altezza di Martin.

    Padre Anthony: — Mi dispiace, la commissione te le ha rifiutate; nuocciono gravemente alla salute... mi hanno spiegato.

    Martin: — Mi prendi per il culo?

    Padre Anthony: — Non io Martin, te lo assicuro, non dipende da me, ma dalla commissione, lo capisci questo?

    Martin: — Sì, sì, l’ho capito che tu non conti un cazzo. L’hai portata la musica?

    Padre Anthony: — Sì, questa volta mi hanno lasciato passare solo musica classica. Ti va di sentire Vivaldi?

    Martin non risponde, ma prende le cuffie e se le porta alle orecchie. Resta seduto sulla sedia mentre ascolta la musica con atteggiamento assente. Padre Anthony si drizza in piedi, avanza verso un angolo della cella e rimane fermo ad aspettare. Dopo alcuni minuti gli chiede: — Ti piace?

    Martin: — Ti piace incularti i bambini, prete?

    Padre Anthony: — Preferisco i culi delle donne adulte e consenzienti. E a te?

    Martin: — Vai a confessare qualcun altro, prete! Con me non attacca!

    Padre Anthony: — Posso anche smettere di venire a trovarti se preferisci. Non sei obbligato a sopportare la mia presenza.

    Martin: — Posso avere nella mia cella un televisore? Posso vedere quel cazzo che voglio senza che debba esserci tu a rompermi i coglioni?

    Padre Anthony: — Lo sai che non si può fare.

    Martin (con un sospiro di rassegnazione): — E allora vieni tu con la musica, portarmi qualcosa con le palle la prossima volta, non questa merda da preti incula bambini!

    Narra Martin Connor, colui che in molti chiamano il nuovo Messia

    Vi domanderete cosa provavo, cosa si prova ad essere rinchiusi in un carcere da cui sai che uscirai solo con i piedi in avanti. Io posso solamente cercare di raccontarvi cosa provava il Martin Connor in cui mi identificavo allora.

    Non piansi come probabilmente farebbe la maggior parte di voi. Il pianto è una manifestazione che possono permettersi i vivi. Io ero un morto che ancora respirava. E non dal giorno in cui mi condannò una corte di giustizia, bensì dal giorno in cui emisi il mio primo respiro su questa terra. Sono nato negli Stati Uniti, in uno squallido ospedale del ghetto nero di Possibility, nella città di Lostmen, nello stato di Promise. Sicuramente ho pianto allora, anche se non lo ricordo, e ho pianto qualche altra volta nella mia prima infanzia, ma ho smesso

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