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Romanza Noir
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Romanza Noir

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About this ebook

È un racconto di storie o, se preferite, una storia di racconti, dove si immagina un viaggio in areo Roma-New York di Luciano, cantante lirico internazionale, insieme a un amico fidato, uno di quelli dell’infanzia e uno di quelli della briscola insieme. Nel microcosmo creato dalla cabina di prima classe, si muovono diversi personaggi: un paio di passeggeri scrocconi e curiosi, una hostess chiacchierona e un capitano che, tra lo sconcerto generale, si fida molto del copilota e, insieme tra loro, del pilota automatico. Ruotano tutti intorno a Luciano, che in aereo non dorme e non lascia dormire, coinvolge tutti i presenti, amici e sconosciuti, in una notte da brivido. Dal Maestro all’amico, dai passeggeri al personale di bordo, tutti hanno delle storie da raccontare, storie di misteri, misfatti e delitti. Storie che servono a riempire e a dare valore al tempo, ma che a volte lo fermano col fiato sospeso di un colpo di scena o di un finale a sorpresa. Racconti che a tratti possono anche far ridere, ma che nel normale momento di sonnolenza da lungo viaggio ti possono anche svegliare di colpo, come se in testa ti esplodesse la musica potente di una ROMANZA NOIR. I diritti d‘autore ricavati dalla vendita di questo libro verranno devoluti a Fondazione Luciano Pavarotti
LanguageItaliano
Release dateMar 12, 2018
ISBN9788868103569
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    Romanza Noir - ANTOLOGIA AUTORI VARI

    AA.VV.

    A cura di Maurizio Malavolta

    ROMANZA NOIR

    Prima Edizione Ebook 2018 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868103569 

    Copertina

    Progetto grafico

    Massimo Casarini e Fabio Mundadori

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena

    http://www.damster.it  e-mail: damster@damster.it

    ROMANZA NOIR

    Racconti

    INDICE

    INTERMEZZO 1

    ROSSO SANGUE SU CANDIDO MARMO

    INTERMEZZO 2

    IL SISTEMA DEI VASI COMUNICANTI

    INTERMEZZO 3

    ADDIO, CAVARADOSSI

    INTERMEZZO 4

    INNOCENZA VIOLATA

    INTERMEZZO 5

    UNA GIORNATA CON IL MAESTRO

    INTERMEZZO 6

    FORSE UN’ALTRA

    INTERMEZZO 7

    IL NOME MIO NESSUN SAPRÀ

    INTERMEZZO 8

    LA COMPAGNIA CANTANTE

    INTERMEZZO 9

    Il TENORE INVIDIABILE

    INTERMEZZO 10

    MISERERE

    INTERMEZZO 11

    COSE CHE NON SAI DI SAPERE

    INTERMEZZO 12

    COLPO DI GLOTTIDE

    INTERMEZZO 13

    GLI AUTORI

    COMMA21 la collana

    INTERMEZZO 1

    – Sei comodo Luciano?

    – Ci mancherebbe anche che non fossi comodo, con quel che costa la prima classe di questo volo che già ha un prezzo assurdo…

    Nella vasta cabina di prima classe i due uomini vanno a occupare lo spazio compreso tra quattro ampie poltrone, contrapposte due a due, che formano una sorta di isola franca, accentuata anche dall’ampio tavolo collocato proprio al centro. Intanto la conversazione va avanti.

    – Sempre a lamentarti. Con quel che ti pagano le due settimane a New York potresti comprarti l’aereo, altro che il costo del volo!

    – Sì va be’, ma i posti per due persone costituiscono già una bella spesa, se poi consideri che noi ne abbiamo quattro a disposizione... Anche qui, io sono grosso e ho bisogno di spazio, ma tu sei magro e secco, quindi che necessità c’era di riservare due posti anche per te?

    – Uffa, te l’hanno già spiegato diverse volte: se vuoi uno spazio riservato, devi acquistare tutti i quattro posti, altrimenti nisba, non si può. E comunque, se vuoi, io posso pure scendere sai, ho dovuto anche prendere due settimane di ferie per venire con te e mia moglie si è incazzata di brutto.

    – Volevi che pagassi il viaggio anche a lei?

    – Ma per carità! Le due settimane di ferie sono soprattutto da mia moglie, cosa credi. Va bene così, va benissimo così.

    – Allora smettila di lamentarti.

    – Io? Ma guarda che eri tu… tutto questo discorso è iniziato proprio perché ti sei lamentato del volo e del costo.

    – Va bene, io lo pago e io mi lamento. E vediamo di finirla qui. Piuttosto, adesso cosa facciamo?

    – Come cosa facciamo? Ci mettiamo a posto, ceniamo, se ce ne portano, e poi dormiamo, cos’altro vuoi fare?

    Il più imponente (e famoso e talentuoso e ricco) dei due, mentre parla, comincia a disporre sul tavolo una serie di oggetti: carte da gioco, la settimana enigmistica e relativa penna, un laptop di ultima generazione, tablet, telefono, altre carte (da briscola queste), un numero imprecisato di giornali, una piccola scatola anonima. L’altro lo guarda senza sorpresa apparente.

    – Ti sei portato i giocattoli da casa?

    – Lo sai che non riesco a dormire in aereo.

    – Va bene, allora tu guardi un film e io dormo, lo abbiamo già fatto in passato.

    – Sì, ma non era un viaggio del genere. L’ultima volta che sono andato a New York la Nico mi ha letto un libro intero e poi c’è rimasto ancora del tempo.

    – Ho capito, per questo hai messo in valigia una sala giochi completa? Ma io non sono la Nico e un libro non ce l’ho, magari potremmo chiedere alla hostess e comunque te lo leggi da solo, questo è sicuro.

    – Certo che sei un bell’amico.

    – Oh Luciano, ma che due maroni, se hai paura dell’aereo non è colpa mia.

    – Io non ho paura dell’aereo, solo che non riesco a dormire e mi piace stare in compagnia e adesso, mi pare, ci sei solo tu, quindi pensa a qualcosa.

    – Pesante di fatto e di spirito. Mi piacerebbe dare un’occhiata al contenuto di quella scatolina lì, magari salta fuori una qualche pasticca di ansiolitico. Comunque va bene, allora cominciamo subito, mentre l’aereo decolla.

    Nel frattempo una giovane hostess, ovviamente molto carina, di aspetto e di modi, li sta sistemando a dovere. Fa finta di non vedere la mano che entrambi portarono all’interno della tasca destra quando fornisce loro le spiegazioni di rito in caso di incidente. Controlla che si siano ben allacciate le cinture e quindi augura loro un ottimo viaggio, ovviamente ottenendo che anche la mano sinistra di entrambi vada a cercare qualcosa nelle profondità dell’altra tasca. Italiani!, pensa ed esce dalla cabina.

    – Non abbiamo fatto una gran figura, Luciano.

    – Forse no, ma quella bella signorina non sa che, come diceva Totò, è vero che essere superstiziosi è da stupidi, ma non esserlo porta sfiga.

    – Ricchezza, fama e onori e guardati qui, non sei cambiato di una virgola, sei sempre il solito somaro modenese.

    – Lo puoi dire forte, ti dispiace?

    – Lo sai che no. Comunque, allora, vogliamo farlo o no questo gioco?

    – Che gioco?

    – Ci raccontiamo delle storie con te dentro.

    – Con me dentro? Delle storie vere?

    – Vere o inventate non ha importanza, basta che siano belle e strane, e che tu in qualche modo ci possa entrare.

    – Mi piace, va bene, comincia tu.

    – D’accordo, vado io. È una storia che mi hanno raccontato e che riguarda un posto vicino a Modena.

    – Oh bello, vicino a casa nostra.

    – Be’, insomma, diciamo allora vicino a Parma, ma adesso ascolta.

    ROSSO SANGUE SU CANDIDO MARMO

    Corri ragazza corri

    Marco Di Matteo

    Domenica, ore 7.55 a.m.

    Le note di Something from Nothing dei Foo Fighters, sparate a tutto volume negli auricolari delle cuffie totalmente isolanti, le tuonavano nel cervello e scandivano il suo incedere: prima lentamente, mentre attraversava la corte di ingresso del Labirinto della Masone a Fontanellato, poi con maggiore insistenza nell’area del bookshop, quindi con basso e batteria a martellare ogni gradino dello scalone di marmo che portava agli ingressi delle mostre.

    I’m something

    From nothing

    I’m something

    From nothing

    Stava facendo il pieno di note, bussi e melodie perché in quel posto, altrimenti per lei meraviglioso, la musica era bandita. Sì, certo, si tenevano educati concertini e leggiadre cantate, ma era musica quella? Che cosa esprimeva, chi coinvolgeva e, soprattutto, a chi interessava? Certo non a lei, giovane stagista londinese, con madre insegnante di canto e padre proprietario/gestore di un importante e storico negozio di dischi nella strada dove era stata inventata anche la minigonna. Nemmeno Pavarotti era ammesso tra le austere sale: troppo pop, le avevano detto, quanto aveva proposto un suo video per il programma di primavera.

    Eppure lei aveva fatto carte false per arrivare in quel luogo. Letteralmente carte false, nel senso che aveva alterato qualche aspetto del curriculum, pur di aderire pienamente al bando che la sua università aveva messo a disposizione per trascorrere sei mesi con il suo idolo: Franco Maria Ricci, l’editore dell’arte, unico e forse irrepetibile alfiere della bellezza assoluta. Si stava laureando in grafica e arti visive, ma non aveva esitato un attimo ad aggiungere anche la specializzazione in catalogazione libraria di cui, in realtà, non sapeva un tubo, ma che era assolutamente richiesta per quel lavoro.

    Insomma, lavoro. In realtà, per lei, era una specie di droga sfogliare, leggere e catalogare alcuni dei libri più belli mai pubblicati. Certo, dopo sole due ore di attività era stata sgamata di brutto e il direttore del centro aveva capito benissimo che tra lei e la catalogazione libraria esisteva almeno un abisso, fatto di mancanza di pazienza e di assoluta carenza di metodo. Nella sede amministrativa le stavano già preparando un foglio di via di sola andata per Londra, quando nel suo ufficio era casualmente incappato il boss in persona, Franco Maria Ricci, alla ricerca di un libro specifico.

    Lei, Lizzy, non solo lo aveva trovato in un attimo, ma ne aveva anche parlato con proprietà ed evidente entusiasmo, e quando il foglio di via era arrivato lei era già una beniamina di FMR e si era conquistata sul campo il diritto di rimanere. A Parma, per altro, stava benissimo, aveva avuto in uso un monolocale nel sottotetto di un palazzo del centro, non lontano dalla Pilotta e dal Teatro Regio, e da circa un mese aveva anche un boyfriend italiano, giocatore di pallavolo, fisico statuario e laurea in ingegneria in arrivo.

    Anche quella mattina lo aveva lasciato semiaddormentato nel letto. Buona giornata amore, le aveva detto, e attenta a non fare morti e feriti.

    Era il suo modo per dirle di fare attenzione e di tenere a bada un carattere decisamente fumantino, sicuramente poco british style. Ma cosa poteva farci, lei era fatta così.

    Arrivata davanti all’ingresso della grande costruzione neoclassica che costituiva il centro nevralgico di quella struttura, rimase sorpresa: nel parcheggio c’era già un’auto ferma e non era lì dalla sera prima, perché sui vetri non c’era il ghiaccio tipico delle notti di gennaio nella campagna parmigiana. Non conosceva quella macchina e, soprattutto, non le era mai capitato di vederne una, così presto, nel parcheggio dei visitatori: chissà di chi era…

    Domenica, ore 8.00 a.m.

    L’unico mezzo che da Parma la portava a Fontanellato in orario era l’autobus che andava a raccogliere gli studenti. La domenica veniva soppresso e a lei restava solo la corriera di linea che partiva ancora prima. Per questo, nei giorni di festa, arrivava sempre in ufficio piuttosto presto, verso le 8, e cioè almeno un’ora prima di tutti gli altri. La struttura, infatti, apriva al pubblico alle 10 e poi rimaneva disponibile fino alle otto di sera. Quindi tutti iniziavano a lavorare intorno alle 9 e lei, almeno per un’ora, si era abituata a stare da sola. Non le dispiaceva, aveva il tempo di organizzare la giornata, di riflettere un po’ e, magari, anche di ripensare alle capriole sul letto con il suo ragazzo. In effetti, era quello che stava facendo anche in quel momento, mentre saliva le scale, e le veniva da ridere. Certo, però, che quella macchina nel parcheggio…

    Dalla rock station che stava ascoltando era il momento dell’oroscopo, Gemelli, il suo segno: giornata all’insegna della calma piatta, la noia è la vostra peggior nemica, combattetela con il rock. Grazie tante ragazzi, così mi fate cominciare bene la giornata, le venne da imprecare sottovoce. Proprio in quel momento, circa a metà dello scalone, il primo segno. Dapprima fu solo una sottilissima linea rossa che scendeva dalla scala per andare a fermarsi proprio a metà di un gradino. Cos’era quella roba? Sembrava sangue.

    Ma no, non poteva essere sangue, forse era vernice rossa e le venne in mente che proprio la sera prima erano iniziati i lavori di rinnovo di alcune sale. Se davvero avevano rovesciato della vernice, qualcuno se la sarebbe vista brutta: in quel luogo, infatti, ti perdonavano tutto, ma non il delitto di deturpata bellezza. La pena era una sola: andarsene senza farsi più vedere.

    Gradino dopo gradino, la linea rossa aumentava di volume e di pari passo aumentava la sua preoccupazione. Cavolo, chissà che danno! Finalmente, alla sommità della scala, si aprì ai suoi occhi l’atrio che dava accesso alle collezioni: a sinistra le sale per le mostre temporanee, in quel momento occupate da un pittore italiano, Gino Covili, per il quale aveva avuto un innamoramento immediato. Aveva anche rubato un giornale di mostra per poterne ricavare due quadretti che aveva incorniciato di persona e poi collocato sulla parete di fronte al suo letto. Quelle sale, comunque, erano buie, silenziose e apparentemente deserte.

    Rivolse la sua attenzione alla zona a destra della scala, dove erano collocati i busti in marmo di scultori famosi e dove, stranamente, la luce era accesa: ecco Canova, Bernini, Vildt e… cazzo!

    No, non esiste uno scultore con quel nome, anche se ne esistono diversi di quella qualità, il fatto era che uno dei grandi busti di Adolfo Windt aveva deciso di fare a testate con un elegante signore, e l’elegante signore, ovviamente, aveva avuto la peggio. Giaceva esamine sul pavimento, braccia e gambe aperte, la testa letteralmente fracassata dal peso del marmo.

    Domenica, ore 8.05 a.m.

    Lizzy era ferma, impietrita davanti all’ingresso della grande sala dei busti: il cadavere era a una quindicina di metri da lei e, tra tutto quell’orrore, la cosa che la colpiva di più era quella linea di sangue che, in origine, doveva essere stata alimentata dalla grande pozza che si era formata intorno alla testa, ma ora, per uno strano gioco delle disposizioni nello spazio, sembrava partire dalla mano sinistra del morto, per poi seguire la direzione della scala approfittando di un impercettibile avvallamento del parquet. Quasi una richiesta d’aiuto o, forse, un’indicazione: guarda bene, il mio assassino è scappato da quella parte…

    Oddio, l’assassino! Forse era ancora lì, forse in questo momento la stava osservando. Doveva fuggire, andare via da lì, scappare. Calmati Lizzy, sei una ragazza cresciuta in uno dei quartieri poveri di Londra, sei una guerriera della strada, capace di viaggiare da sola in metro di notte, non puoi fartela sotto, ragiona. Respirando profondamente, e non senza aver dato un’occhiata preoccupata in tutte le direzioni, la ragazza concentrò sui piedi tutto il coraggio residuo e fece cinque passi verso la scena del crimine.

    Chissà perché dava per scontato che di delitto si trattasse, poteva anche essere stato un incidente, forse l’uomo era ancora vivo. Un ultimo raschio al barile del coraggio e altri cinque passi: ora il corpo era abbastanza vicino da capire che nessuno poteva essere sopravvissuto a quel colpo. L’elegante signore era sicuramente morto, morto e irriconoscibile, in quanto la faccia era rivolta verso il basso, segno che il colpo era arrivato da dietro: il naso della statua, infatti, era oscenamente conficcato proprio nella nuca.

    Coraggio o non coraggio, guerriera o non guerriera, Lizzy ne aveva comunque abbastanza di quella situazione, e in quella sala non voleva rimanere un minuto di più. Facendo attenzione a non toccare nulla, si girò e si avviò alle scale. A parte la voglia di scappare e di uscire all’aria aperta, sapeva che quella era anche l’unica soluzione per tentare di telefonare. In quell’edificio, infatti, non c’era quasi campo e per la telefonata che doveva fare aveva bisogno di certezze.

    Fece la scala in discesa in pochi secondi, e in ancor meno tempo attraversò la sala della macchina (una Jaguar nera E Type che FMR utilizzava negli anni ’60 per le sue scorribande), il bookshop e, da ultima e mai così agognata, la porta che si apriva sulla prima corte interna, quella del Bar, della Bottega delle ghiottonerie del territorio e del Bistrò dei fratelli Spigaroli. Finalmente fuori, finalmente l’aria fredda e la possibilità di aprire lo sguardo su un campo vasto. Estrasse il cellulare e compose il 113:

    – Pronto, come dice signorina, un morto? Dove? Un omicidio, è sicura? Mi può rilasciare le sue generalità? Adesso lei dove si trova? Ho capito, cerchi qualcuno, non rimanga sola. Per arrivare la prima pattuglia impiegherà almeno mezz’ora.

    Come mezz’ora? Cazzo non è possibile, cosa faccio qui, da sola, per almeno mezz’ora, come dice quello là. E perché mi ha detto di cercare qualcuno, anche lui pensa che l’assassino possa essere ancora qui? Uno sguardo alle spalle, un altro verso le grandi colonne del cortile, l’istinto che la portava a quel punto al centro dello spazio vasto e deserto. Quella telefonata le aveva messo addosso più paura di prima, anzi, adesso aveva davvero paura.

    Domenica, ore 8.10 a.m.

    Se una telefonata l’aveva terrorizzata, forse un’altra poteva tranquillizzarla. Le vennero in mente solo due persone: Fabio e Francesca. Francesca era la sua amica italiana del cuore, oltre che collega. Non potevano essere più diverse: lei occhi scuri, mora di capelli e dalla carnagione ambrata grazie a una nonna indiana, mentre Francesca aveva gli occhi chiari, i capelli biondi e la pelle bianchissima. Un’inglese mora e di statura media, un’italiana, anzi una siciliana, alta e bionda: un paradosso che la stessa Francesca le aveva spiegato raccontandole della dominazione normanna della sua isola e delle conseguenze che ancor oggi si manifestano con la nascita di siciliani che, nel tempo, diventano alti, biondi e con gli occhi azzurri.

    Pensando all’amica, d’istinto Lizzy compose il suo numero, anche nella speranza che Francesca fosse già in viaggio e, visto che si muoveva in auto, potesse eventualmente accelerare e arrivare prima in suo soccorso. Uno squillo, due, tre e al quarto aveva già capito che l’amica non avrebbe risposto: forse stava facendo la doccia o forse, come spesso le accadeva, aveva il telefono silenziato e non si accorgeva della sua chiamata. Il risultato non cambiava, lei non sarebbe arrivata, non subito.

    Altro giro di tasti e dopo un solo squillo la voce rassicurante del suo fidanzato. Fidanzato? Siamo già a questo punto, lo penso già come il mio fidanzato, come un compagno di vita e non solo di belle notti? Lizzy si liberò di quel pensiero, non era il luogo e nemmeno il momento:

    – Fabio, scusa, qui è successo un casino, un casino grosso. Hanno ammazzato una persona e io sono da sola, la polizia non arriva e…

    – Lizzy, calmati, spiega tutto dall’inizio, non ci sto capendo nulla, cosa è successo, chi hanno ammazzato?

    – Non so chi sia, so solo che è morto schiacciato da un busto di marmo e che non può essere stato un incidente. Lo hanno ucciso, ne sono sicura. Fabio, ho paura, puoi venire da me? Lo so che sta arrivando anche la polizia, ma ho bisogno di una presenza amica, ci riesci?

    Dall’altra parte una pausa e poi un suono che assomiglia a un singhiozzo, il ragazzo aveva deglutito rumorosamente, segno di partecipazione e preoccupazione. Un atteggiamento che da un lato la gratificava e dall’altro le apriva la speranza, ma:

    – Mi spiace amore, lo sai che sono in trasferta…

    Cazzo, è vero, la trasferta a Milano.

    – …siamo sul pullman della squadra già verso Piacenza, non riesco a venire, ma se vuoi telefono a Gabriele, il mio amico avvocato, e gli chiedo di venire subito da te.

    – Un avvocato? Guarda che non l’ho mica ammazzato io, non ho nessun bisogno di un avvocato.

    – Certo che no, in quel senso, pensavo solo che una persona d’esperienza potesse esserti d’aiuto e poi, forse non ti ricordi, ma abita a Fontanellato e può raggiungerti in poco tempo.

    – Hai ragione ma no, lascia stare. Ormai la polizia dovrebbe essere in arrivo e non c’è nessuna ragione per disturbare Gabriele. E poi, parlare con te al telefono mi ha già tranquillizzato.

    – Senti Lizzy, se sicura che non ci sia nessuno?

    – Sì dai, lo sai che qui tutto apre alle 10.

    – È vero, ma per aprire il bar alle 10 qualcuno dovrà pur preparare dolci e cibarie.

    – Sì, sì, giusto! Vado subito a vedere. Ma tu rimani in linea, per favore, sentire la tua voce mi aiuta.

    – Certo, quello che vuoi…

    Ma proprio mentre Fabio concludeva la frase, lei imboccava la porta del bar e quindi dell’ennesima area non coperta: la voce del suo ragazzo scomparve e con essa tutta la sua sicurezza. Di nuovo sola…

    Domenica, ore 8.15 a.m.

    Desolatamente vuoto il bar. Deserto anche il suo locale preferito di tutta quella parte del complesso: la Bottega, dove i culatelli appesi al soffitto e le forme stagionate di Parmigiano-Reggiano, morbidamente adagiate sulle tradizionali assi di legno, diffondevano in tutta l’ampia sala un aroma quasi afrodisiaco. Non certo in quel frangente, ma solitamente quel profumo scatenava in lei una fame selvaggia, incontrollabile. Era una sensazione che diventava sentimento, soprattutto nell’impietoso confronto con il cibo britannico col quale due genitori superimpegnati l’avevano cresciuta. Non aveva nulla contro la sua isola di provenienza, anzi l’aveva sempre amata moltissimo. Tranne che in due circostanze: una, per fortuna isolata, e cioè il voto sulla brexit e l’altra, invece, purtroppo permanente, e cioè ogni volta che doveva consumare un pasto inglese.

    Superata la Bottega, fu la volta dell’ampia sala ristorante del Bistrò. Alla vista del grande locale, totalmente buio e ovviamente deserto, ebbe la tentazione di fare dietro-front e di tornare nel più rassicurante e luminoso cortile esterno. A farle cambiare idea fu la luce intensa che si irradiava dalla porta aperta della cucina. E poi il profumo del caffè e dei dolci in cottura: lì c’era qualcuno, finalmente una persona in carne, ossa e, sperava, ben disposta ad accoglierla e consolarla.

    Passò velocemente attraverso l’elegante insieme di sedie imbottite e tavoli apparecchiati senza pensare e senza guardarsi attorno, con un unico obiettivo: quella porta e quella luce. Irruppe nella cucina a passo di carica, la bocca già spalancata in una richiesta d’aiuto che, però, le morì in gola. Anche la cucina era vuota, deserta, non c’era nessuno: le brioche erano in forno, il latte per la crema era sul fuoco, persino l’impastatrice era in funzione. Ma non c’era nessuno.

    La situazione era anche più inquietante rispetto a quella degli altri luoghi che aveva visitato in quella assurda mattina, ovviamente a parte quell’orrenda visione del cadavere e della statua insanguinata. Sembrava quasi che fosse un’invisibile fantasma a governare tutto, un fantasma che si muoveva tra forni e fornelli, che allineava le torte sul bancone e provvedeva a mescolare la crema sul fuoco. Cazzo, stava impazzendo, non era possibile, doveva per forza esserci una spiegazione logica.

    Il bagno, ma certo: il cuoco doveva essere in bagno, anche gli chef la fanno, o no? La ragazza si precipitò verso la zona delle toilette, aprì la porta sul buio, ma non era quello il problema, la luce, infatti, si accese immediatamente. Anche lì, però, non respirava anima viva. Accidenti, perché poi le venivano in mente certe espressioni respirava anima viva. Se respira è viva, e poi le anime non respirano… Lizzy, fermati, i neuroni ti stanno tradendo e stai per farti un viaggio senza carburante.

    Non sapeva più che fare, stava per tornare verso la cucina e si trovava a metà della sala da pranzo ancora immersa nella penombra di quella mattina, quando lo squillo del telefono la fece sobbalzare e la voce di Fabio la riportò alla realtà. Una realtà magari drammatica, come quella che suo malgrado stava vivendo, ma pur sempre la realtà e non quelle

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