Tre fili di perle
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Tre fili di perle - Angelo Marenzana
Intrighi
Tre fili di perle
di Angelo Marenzana
Immagine di copertina: a partire da pearl-2982515_1920 (Anna Kovalchuk - Pixabay.com)
Editing: Riccardo Anelli
Supervisione Editing: Simona Focetola
Produzione digitale: Daniele Picciuti
ISBN: 9788885497153
Nero Press Edizioni
http://neropress.it
© Associazione Culturale Nero Cafè
Edizione digitale febbraio 2018
Angelo Marenzana
Tre Fili di Perle
Indice
Uno
Due
Tre
Quattro
L'Autore
Uno
La piccola folla aveva lasciato il pranzo a metà. Del resto, la voce che circolava era forte, una notizia da togliere il fiato, a cui d’istinto nessuno osava dare credito: il ritrovamento di un cadavere a pochi passi dalle loro abitazioni.
Una morte violenta, anche se nessuna voce ufficiale si era ancora espressa in tal senso, di quelle che in un quartiere popolare sono impossibili da immaginare. Perché la morte è roba per soldati e di gente in guerra ne era caduta abbastanza in quegli ultimi anni. L’omicidio, invece, è odio e in un caseggiato del centro cittadino un po’ sonnolento, specchiato nelle acque del lago, con il profilo delle montagne svizzere sullo sfondo e una sua vena malinconica, i conti si regolano in un modo diverso. Si urla, si lancia un insulto o al massimo un sasso, ma non si uccide. Per nessun motivo. L’incredulità passava di sguardo in sguardo; sviluppava pena e spavento, ma stuzzicava pure l’oscura morbosità.
In ogni caso, qualcosa di vero doveva esserci in quella voce, perché all’appello mancava una persona: la signora Wanda, la sarta del primo piano.
I residenti dei piani alti erano appoggiati alle ringhiere, verso l’interno del caseggiato, come spettatori ai loggioni del teatro; gli altri, in prima fila come allo spettacolo della compagnia parrocchiale, si agitavano sull’acciottolato in pietra che ricopriva l’intero cortile. Tutti pronti a condividere la grande animazione, travolti dalla comune curiosità per lo strano evento che si consumava a pochi metri dal loro naso. I panni stesi ad asciugare facevano ombra al gran numero di biciclette appoggiate al muro e agli appartamenti del piano terra, con le porte senza vetri e le griglie di ferro alle finestre. Le persone erano raccolte in piccoli gruppi e, attorno a loro, aleggiava il brusio provocato dalle voci che dicevano e non dicevano, dalle domande senza risposte e dalle certezze senza domande.
Le donne stavano tra donne, le braccia incrociate sul petto e i figli più piccoli stretti alle gambe; i bimbi, spaventati dall’aria tenebrosa che si respirava, da parole che non capivano, cercavano riparo da un gesto misterioso che in realtà non poteva più minacciarli, perché si era già consumato.
Gli uomini stavano tra uomini, le mani in tasca e stuzzicadenti in bocca, con le maniche rimboccate e il colletto della camicia slacciato, per dare ossigeno ai polmoni affaticati dall’aria pesante respirata alla catena di montaggio delle fabbriche, che pompavano a pieno ritmo per ritrovare il passo con l’economia.
Era una domenica di fine maggio, una come tante, incominciata senza pretese e senza speranze, con un sole morbido a scaldare l’aria ma che, in certi momenti, incominciava a graffiare la pelle. Come dicevano i vecchi prima di sputarsi sulle mani per ricominciare a usare la zappa, era il segno che la primavera incominciava a diventare estate e apriva la porta alla calura afosa, al sudore che appiccica la camicia sulla pelle e alle notti insonni passate a rotolarsi tra lenzuola umide.
Passai in mezzo al brusio ignorando tutti quanti.
La folla oscura il senso della ragione, si nutre di emozioni, di pettegolezzi e, come una sanguisuga, vive del sangue altrui.
La folla è ansia, è rabbia, disprezza e ama a seconda di come tira il vento.
Ignorante. Senza carattere. Un cane da accarezzare o bastonare: la folla è la sola forza che possiedono i singoli vigliacchi.
Entrando nel cortile sfiorai una donna in disparte che si faceva il segno della croce, rivolta al balcone del primo piano. Accanto a lei vidi una vecchia signora seduta su di uno sgabello: era l’unica disinteressata al grande evento, se ne stava concentrata su se stessa e sul proprio lavoro, con le gambe leggermente divaricate e coperte da un grembiule lungo fino a terra. La donna prendeva in mano una per una le rane ammassate dentro un secchio, le tagliava in due con un paio di forbici e ne gettava le parti divise dentro un altro. Un anfibio, rimasto senza testa, era scappato fuori e continuava a saltellare sull’acciottolato come un giochino a molla. La donna sorrise, prendendo quel mezzo animaletto in mano, e masticò poche parole in un dialetto che ancora non decifravo. Senza fermarmi, imboccai l’androne buio delle scale che portavano all’appartamento della sarta.
Un poliziotto piantonava nella semioscurità del pianerottolo la porta d’entrata. Si irrigidì in un saluto e mi avvisò che per entrare in casa bisognava passare dalla porta secondaria sul balcone.
Spalancai il piccolo cancello senza farlo cigolare e mi avviai lungo la balconata del vecchio stabile. Appena oltre, trovai la porta socchiusa dell’appartamento, la spinsi e il tintinnio dei vetri mi accompagnò all’interno.
«Mi dispiace, commissario» mi disse il brigadiere Santanna venendomi incontro. Santanna, un poliziotto riservato e taciturno, il mio collaboratore più stretto, quello che pensava sempre ai fatti suoi e non dava confidenza a nessuno, rispettoso della gerarchia e che dava il meglio di sé per aiutarmi a penetrare i misteri e il mondo di una città per me tutta nuova. «Forse è venuto qui per niente, il caso sembra già risolto».
Santanna era l’unica persona da cui forse non avrei ricevuto sgradite sorprese: un brav’uomo dal viso trasparente, che profumava di sapone da bucato, con il collo della camicia inamidato, bianco, e la divisa altrettanto immacolata, sebbene usurata dal tempo e dal servizio. Sapeva di famiglia
, si accompagnava alla scia di una moglie che si occupava di lui, che gli preparava preparato la colazione sul tavolo della cucina e l’acqua calda per farsi la barba. Una donna attenta che, magari la sera prima, aveva concesso al marito il proprio corpo solo per il piacere di dargli piacere.
Non feci in tempo a rispondere. Mi ritrovai all’improvviso con tutta la mia attenzione assorbita da un corpo riverso sopra a un bancone di legno e la scena non era certo delle più belle a vedersi.
La morte non è la stessa se la si incontra di persona, se la si tocca.
La morte può essere raccontata, ascoltata nelle parole degli altri, letta sui libri, ma quando è stampata sopra un corpo in carne e ossa tutto attorno cambia. Si modificano i suoni, il gusto, gli odori, la dimensione, la percezione. Seppur abituato alla violenza, alla morte non avevo