Gli intrecci del destino
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Gli intrecci del destino - Andrea Di Francesco
coinvolgente.
CAPITOLO I
L’infanzia rubata di Valter
Siamo a Roma, negli anni Ottanta, gli anni della speranza, in cui non esistevano ancora internet e cellulari, ma forse c’erano dei valori che oggi sono andati perduti.
Sono appena arrivati due ragazzi, Valter e Davide, due burini
mezzi contadini di paese, che a malapena sono riusciti a finire gli studi di terza media.
Mentre Davide scappa da quel paesino di circa mille anime, per quella sua natura ambigua e per saziare la sua sete di avventura, Valter scappa per dei problemi che si porta da tempo nella testa: ha avuto un’infanzia difficile, fatta di miseria, dove per merenda si faceva bastare un tozzo di pane insaporito con dell’affettato, per lo più salame, che si faceva tutti insieme tra i paesani quando si uccideva il maiale.
Vuole scappare da una realtà in cui i suoi genitori analfabeti, contadini, per campare lo costrinsero già in giovane età a lavorare la terra - e come si sa la terra è bassa - a pascolare le mucche e fare tutti quei lavori umili, opprimendo così il suo talento, la sua passione, ovvero la musica, suonare la pianola e la fisarmonica. Una vecchia fisarmonica, consumata dagli anni, che gli aveva regalato quel professore di musica che credeva in lui e gli dava lezioni gratuite, perché non poteva farsi scappare un talento
.
Oltre alla povertà, durante l’infanzia Valter assisteva attonito ai litigi tra il padre e la madre, dove il padre la fa da padrone - il classico padre padrone. Tutte le mattine, oltre a sentire la sveglia del gallo, sentiva i due urlare, il suo vecchio insultare la madre, per poi arrivare a maniere molto meno delicate.
Quante volte Valter aveva visto la madre trattenere le lacrime dinnanzi a lui, per lasciargli un po’ di quella tranquillità e quell’infanzia già rubata.
Il tempo passava, Valter si faceva sempre più grande, e il bisogno di scappare si faceva sempre più forte: voleva andarsene da lì, da quel posto che non gli dava altro che dispiaceri, quel posto che alla tenera età di dodici anni lo vedeva già lavorare nei campi e nel letamaio delle bestie da accudire, quel posto che gli voleva rubare il sogno. Non voleva fare la vita dei suoi genitori, non voleva sposarsi con un’altra contadina, non voleva passare la vita a sentire la madre piangere dal dolore, fisico e morale, che il padre le procurava; non voleva continuare a spalare merda, in tutti i sensi.
Un giorno prese una decisione: decise di prendere una valigia, o per meglio dire un sacco, dove mettere le poche, pochissime cose che aveva, un paio di pantaloni e una maglietta di lana. Le scarpe erano quelle già da un po’, nere e consumate, con un bel buco sotto la suola.
Non disse niente a nessuno, e una sera e scappò insieme all’amico a inseguire il grande sogno, nella grande città, dove i tempi e la mentalità delle persone stavano cambiando a vista d’occhio.
Le prime sere che era a Roma, si arrangiò a dormire dove capitava. Campava di musica insieme al suo compagno di viaggio dalla natura ambigua: suonavano per le strade, in metropolitana, e con i soldi che riuscivano a racimolare, se erano fortunati, potevano andarsi a lavare e a dormire, pur se poco, in un umile ostello.
Un giorno incontrò un signore che passando di lì, per la metro, si fermò ad ascoltarli; sembrava molto interessato e gli propose di andare a suonare nel suo locale, ad una sola condizione: presentarsi in un modo decente.
Così la sera iniziarono a fare pianobar, con fisarmonica, pianola e tromba. Il suo sogno, fin da bambino, aiutato da quell’insegnante che per primo credette in lui, era quello di diventare un grande musicista; pensava di poterci riuscire, come ci erano riusciti tanti altri. Le serate andavano bene, e pian piano ampliarono la band: mancava una cantante, e proprio in una di quelle occasioni in cui suonavano e si divertivano a fare i musicisti di spessore conobbero Giuliana, una ragazza dalla voce angelica. Iniziò per gioco: mentre i due si divertivano a suonare lei improvvisò una melodia, e tutti rimasero stupiti dalla sua voce. Alcuni dicevano che fosse addirittura meglio della vocalist dei Matia Bazar, Antonella Ruggero. Giuliana era una donna molto affascinante, piena di sé, aveva un’eleganza che in poche potevano avere, con quei capelli lunghi che, sciolti o legati, la rendevano sempre molto sensuale; metteva giorno e notte vestiti lunghi, con spacchi che lasciavano intravedere le sue lunghe gambe, e scollature che mettevano generosamente in risalto il seno. Suscitava eccitazione solo a guardarla, e portava gli uomini a fare i più svariati sogni erotici.
Lei sapeva tutto ciò, ne era consapevole, lo faceva apposta, le piaceva essere provocante, sottomettere gli uomini con lo sguardo; era raro trovare due come i musicisti, che riuscivano a guardarla negli occhi senza provare imbarazzo, ma solo eccitazione, consapevoli anche loro del comportamento della cantante.
Tra i tre nacque una sorta di relazione, una forma di poli-amore, se così si può definire, molto passionale, fatta solo di sesso, niente di più. In fin dei conti era anche il sogno erotico fin dall’adolescenza di quella donna borghese, e a quale uomo non piace una relazione del genere, soprattutto in giovane età.
I rapporti si consumavano ogni qualvolta lo desideravano, non c’erano luoghi, orari, non c’era nulla, solo la voglia, come quella volta nella loro umilissima Autobianchi, comprata usata, con i primi guadagni delle serate