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D'amore e d'inganno
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D'amore e d'inganno
Ebook253 pages3 hours

D'amore e d'inganno

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About this ebook

Mentre Cinzia, la compagna del commissario Olivieri, si appresta a preparare il matrimonio, questi è fortemente preoccupato per una lettera arrivata da Milano. Le poche parole scritte con ritagli di giornale riesumano paure dal passato. Pochi giorni dopo una giovane ragazza scompare. Mentre la polizia di Montevarchi è impegnata nelle ricerche, anche uno dei colleghi di Olivieri svanisce nel nulla. Quando il corpo della giovane viene ritrovato vicino ad un cassonetto il commissario apre un'indagine per omicidio e inizia a preoccuparsi oltre che per il collega, anche per la figlia Simona e per la compagna. Sembra che qualcuno le stia spiando. Scavando nel passato familiare della vittima, pian piano il commissario si avvicina alla verità ma…
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 22, 2018
ISBN9788827803936
D'amore e d'inganno

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    D'amore e d'inganno - Andrea Boldi

    ragazzo.»

    Sabato 28 ottobre

    Il commissario Olivieri sbatté le palpebre e sbadigliò. Inspirò profondamente percependo subito l'odore che proveniva dalla cucina. In quel preciso istante non mosse un muscolo. Lasciò soltanto che il cervello registrasse quell'aroma inconfondibile, si stiracchiò nel caldo del letto e, dopo essersi alzato, andò in bagno.

    Lo specchio rimandò la sua immagine.

    «Caro commissario, non hai una bella cera.»

    Lo disse da solo, a voce alta. Poi la sua mano passò tra i capelli brizzolati, sulla barba e, lentamente, scivolò giù fino alla pancia. Almeno li, rasentava la perfezione. La palestra non gli piaceva, lo stare al chiuso lo faceva innervosire. Adorava però correre all'aria aperta e adorava farlo quasi ogni giorno. I chilometri che negli anni aveva macinato avevano scolpito il suo corpo.

    I suoi addominali ne erano il risultato.

    Forse negli ultimi giorni si erano accumulate troppe cose: il lavoro, la sua compagna, sua figlia. In onestà piccole cose ma che, sommate le une alle altre, avevano contribuito a formare rughe e occhiaie profonde. Si chiese se quella cattiva cera fosse davvero dovuta agli eventi dei giorni passati o forse, guardandosi meglio riflesso nello specchio, se quei cambiamenti erano dovuti soprattutto all'età. Aprì la cannella del lavello e si sciacquò la faccia. Si sentì rinascere. Quando rialzò la testa, e il volto fu rimandato ancora una volta dalla superficie specchiata, ne ebbe la conferma.

    Il problema era l'età. Sorrise, sfiorando quasi con affetto le rughe intorno agli occhi e sulla fronte, testimoni loro malgrado della vita trascorsa. Dopo essersi asciugato il viso, entrò in cucina. L'odore che aveva sentito era stato invitante fin dal risveglio. Il caffè era già pronto e i biscotti erano sul tavolo.

    Chiuse gli occhi, quasi a voler percepire non solo i profumi ma anche i rumori. C'era una calma assoluta. Mica come il caos di Milano. Nessuno schiamazzo all'esterno, nessun brusio, nessun clacson che strombazzava, nessun rombo di motore. Solo lui, la sua colazione e l'affetto più caro: sua figlia. La situazione lo faceva stare bene. Adorava il paesino dove si era trasferito: La Cicogna.

    Una piccola realtà rurale di poco più di quattrocento anime, dove ancora oggi tutti sono amici di tutti e dove tutti sono sempre prodighi nel dare una mano al prossimo. Adorava profondamente quella cosa e, quando era libero dal suo lavoro, gli piaceva uscire fuori a correre o semplicemente a passeggiare con la compagna o con la figlia. Salutava tutti quelli che incontrava con un allegro sorriso. Amava tutto questo, ancora di più da quando con lui c'era la sua bambina. Già! La sua bambina che pian piano stava crescendo e che si era fatta donna.

    Passata nella sua mente quella bellissima cartolina, sorrise alla figlia Simona. Il forno caldo aveva intiepidito ancora di più la stanza. Si avvicinò allo sportello e, una volta aperto, vi posizionò le mani davanti per catturare un po' di calore. Era bastato quel profumo di biscotti a fargli venire il buonumore e cambiare idea sulle abitudini della colazione. Quella mattina il caffè sarebbe stato accompagnato dai biscotti fatti con tanto amore dalla figlia. Erano diversi giorni che Simona voleva preparagli qualcosa e, alla fine, il regalo era arrivato in una fresca giornata autunnale.

    «Buongiorno tesoro.»

    «Buongiorno papà. O dovrei chiamarti babbo?» Riccardo si fermò in piedi con le dita sul manico della tazzina, soppesando i pro e i contro di quella domanda. Poi sorseggiò il suo caffè mentre guardava fuori dalla finestra della cucina. Improvvisamente i suoi pensieri furono interrotti dal trillo del timer del forno: sicuramente Simona aveva girato un po' troppo la manopola dei minuti. Diede un altro sorso al caffè e risoluto si girò verso la figlia che aspettava con trepidazione la risposta.

    «Per me non fa nessuna differenza. Ormai sono talmente abituato a sentire la parola babbo.» Lo disse sorridendo mentre accarezzava la testa della figlia.

    «Ok come vuoi babbo. Suona strano però. Senti come ti riempie la bocca? Babbo.»

    Mentre la figlia stava parlando, Riccardo afferrò uno dei biscotti ancora caldi e lo addentò.

    «Mhm, sono buonissimi!»

    «Sì, effettivamente non sono malaccio. Senti pap... ehm, babbo. Come sta tua suocera?»

    Per poco il commissario non strozzò. A quella domanda gli si era fermato il boccone in gola e non andava né su né giù. Il viso era rosso e Simona si affretto a porgergli un bicchiere d'acqua. Dopo aver deglutito parlò alla figlia cercando di non essere imbarazzato.

    «Ti ricordo che non sono sposato con Cinzia e che Maria di conseguenza non è mia suocera. Comunque diciamo che sta benino. Sai, anche se sono passati un po' di mesi, pensa ancora molto a suo marito che non c'è più e quindi non tutti i giorni sono uguali. Come succede a volte a Cinzia. Mi capita di vederla con i lucciconi agli occhi. Lei ovviamente nega. La capisco, ci vuole del tempo per elaborare questi gravi lutti e alcune volte, purtroppo, non basta mai.»

    Simona riprese il discorso provandoci ancora una volta.

    «Beh sai, ho parlato di suocera perché mi ha detto Cinzia che stavate pensando al matrimonio. Non è per caso che aspetto un fratellino o una sorellina?»

    Nel frattempo Riccardo aveva bevuto tutto il bicchiere d'acqua ed era riuscito a ingoiare il boccone.

    «Sei un'impicciona! Comunque la risposta è no! E ancora no!»

    Riccardo si fece serio, poi proseguì.

    «In tutta sincerità abbiamo parlato di matrimonio, ma ti posso assicurare che Cinzia non è incinta. Ti giuro che saresti la prima a saperlo.» Con un pizzico di malinconia Riccardo pensò a quando la figlia era piccola. Quante volte, quando non era di turno in commissariato, aveva dovuto sobbarcarsi notti insonni. Alzarsi, preparare la pappa, cambiare il pannolino. Ricordò anche di quando, poco prima di andare via da casa, aveva aperto il cassetto delle fotografie. Era rimasto un sacco di tempo a osservarle. Foto che aveva fatto insieme all'ex moglie e alla figlia. Foto che ritraevano le gioie di una famiglia felice. C'era Cristina con la piccola Simona e c'era lui. C'erano i suoi genitori e quelli che un tempo chiamava suoceri. Con grande malinconia aveva preso la decisione di non portarsene con sé nessuna. Aveva richiuso il cassetto memorizzando però ogni singolo sorriso ed espressione immortalata. Le avrebbe sempre portate con sé nel cuore e nella mente.

    Sorrise. In tutta onestà non gli sarebbe dispiaciuto però rivivere la paternità.

    Da quando la figlia si era trasferita da lui, dopo che il giudice aveva ribaltato la sentenza di affidamento, faceva spesso tardi al lavoro. Uno sguardo all'orologio gli confermò che erano già le nove passate.

    «Senti tesoro, oggi è sabato e sono in commissariato ma domani non sono di turno e non ho nessuna voglia di andare a fare la spesa.» Prese il portafogli e porse una banconota da cento euro alla figlia:

    «Vai alla bottega del paese. Prendi un po' di cose.

    Se poi non riesci a portarle a casa ci passo io quando torno da lavoro con la macchina. Domani così avremo tutto il giorno libero e potremo andare da qualche parte se sei d'accordo.»

    La figlia sorrise. «Grazie babbo. Sono sicura che sarà una domenica bellissima. Ti voglio bene.»

    «Anche io piccolina. Anche io.»

    Riccardo andò in bagno a farsi la doccia e, dopo essersi vestito e aver preso le sue cose, indossò il soprabito, uscì dall'appartamento e si avviò verso il commissariato di polizia.

    «Allora Antonio, come ti senti?» Il dottor Colombo era seduto sulla sedia accanto al suo paziente e aspettava in silenzio la risposta. Antonio Ferri era un soggetto con evidente ritardo mentale e deficit nelle capacità di apprendimento. Spiccicava pochissime parole, ma, da quando il dottor Flavio Colombo lo aveva in cura, aveva fatto passi da gigante.

    Colombo aveva fatto del suo lavoro uno stile di vita. Anche nei soggetti meno evoluti esisteva una complessa realtà psicologica caratterizzata da tantissimi aspetti: i rapporti interpersonali, le pulsioni sessuali, le aspettative e le convinzioni. Spesso l'assistenza ai soggetti finiva con l'essere settorializzata occupandosi solo degli aspetti organici e poco di quelli emotivi. Colombo invece abbracciava il suo lavoro a trecentosessanta gradi, mettendo tutti i suoi pazienti a proprio agio. Con Antonio era stato un successo.

    Di solito non ci si aspettava grandi e rapidi recuperi ma, dopo varie sessioni di psicoterapia e farmaci adeguati, il dottore era riuscito a fargli proferire oltre a poche parole, anche alcune frasi ed a reinserirlo nella società. Anche se era sempre sotto stretta osservazione, la mattina usciva dall'istituto dove era in cura e si recava a fare il suo lavoro: raccoglieva foglie e immondizia al cimitero di San Giovanni Valdarno. Quello che la gente comune chiama lavoro socialmente utile.

    Con la perenne espressione da ebete, gli occhiali e il costante sorrisetto, Antonio Ferri rispose al dottore.

    «Decisamente meglio.»

    Colombo sorrise e rivolse al paziente un'altra domanda. Era difficile fargli fare un discorso di senso compiuto.

    «Ed il lavoro. Come ti trovi?»

    Il continuo sorriso stampato sulla bocca di Antonio si allargò a dismisura. Il lavoro: quella era la chiave.

    «Sono molto contento di quello che faccio, anche perché c'è un gatto che mi fa compagnia. L'ho chiamato Giustino.» Ancora per qualche secondo l'espressione di felicità rimase stampata sul volto del paziente. Colombo si affrettò a porre un'altra domanda.

    «E da dove è saltato fuori quel gatto? Non me ne avevi mai parlato.»

    Improvvisamente la faccia di Antonio si fece triste.

    «È stato abbandonato. Io me ne prendo cura….» Non fece in tempo a finire la frase che la porta dello studio si aprì ed entrò la moglie del dottor Colombo.

    «La mia carta di credito non funziona. Puoi prestarmi la tua?»

    Per fortuna sul volto di Antonio era ricomparso quasi subito quel risolino che lo caratterizzava. L'interruzione della seduta non lo aveva fatto agitare ma, di contro, aveva fatto imbestialire Flavio. Era rosso in volto e dalle narici soffiava aria come un mantice. Cercando di stare calmo si rivolse al suo paziente.

    «Antonio, scusami solo un attimo.»

    «Sì, dottore.»

    Si alzò e, senza farsi vedere, prese la moglie per un braccio e la strattonò fuori dalla stanza.

    «Quante volte ti devo dire che non puoi entrare in quella maniera nel mio studio. Potresti rovinare il lavoro di mesi e mesi. Meno male che il paziente non si è agitato. In questa fase della terapia assorbe qualsiasi cosa come una spugna. Gli sto insegnando ad avere più autonomia nelle abilità della vita quotidiana. Avresti potuto…. Arghhhr, lasciamo stare. E poi la carta di credito funziona eccome. Mi ha chiamato la banca e in meno di dieci giorni hai esaurito la disponibilità. Ma dove cavolo li spendi tutti i miei soldi?»

    «A parte che quello là dentro è solo un povero demente, ti ricordo che abbiamo un conto corrente comune e che quindi sono i nostri soldi e, se sono nostri, significa che sono anche i miei, e poi devo fare la spesa. Presente quella cosa che facciamo nei supermercati che serve a portare a casa cibo che poi mangiamo?»

    Il dottor Colombo era ancora più rosso. Prese dalla tasca il portafogli ed estrasse una banconota da duecento euro.

    «Se è per la spesa, puoi prendere i contanti. La mia carta di credito non te la do.»

    «Hai ragione tienila pure tu, tanto posso passare di banca e prelevare. La firma sul conto ce l'ho pure io che credi.»

    Mentre parlava con il marito, Fedora Tancredi afferrò la banconota e la mise nella borsa di pelle di Gucci. Flavio era ancora più furente.

    «Se solo ti azzardi a passare di banca…..» La moglie non lo fece neanche finire.

    «Torna dal tuo paziente.» Infilò la mano nella costosa borsa ed estrasse una mazzetta con diverse banconote da cinquanta euro. «Ci sono già stata in banca, ma grazie per i duecento euro. A proposito, stasera sei solo. Tua figlia Tiziana è andata qualche giorno in ferie e io ovviamente non ci sono. Quindi per la cena arrangiati.» Girò sui tacchi ed uscì. La segretaria Eva Berti, che in parte era colpevole di averla fatta passare, rimase impietrita nell'ascoltare la conversazione. Si girò verso il dottore che adesso era in procinto di avere un attacco isterico.

    «Mi dispiace Flavio. Sono mortificata.»

    Poi guardò verso la porta sincerandosi che quella megera della moglie del medico se ne fosse andata.

    «Visto! Non tutto il male viene per nuocere. Stasera a te ci penso io.»

    Il dottore sorrise alla segretaria e rientrò nello studio dal suo paziente. La testa stava già fantasticando su come avrebbe passato la serata con la sua amante.

    Quando Riccardo giunse in commissariato finalmente riuscì a liberare la testa dal pensiero del matrimonio e della presunta gravidanza di Cinzia. Sua figlia aveva visto giusto ma, al di là dalla certezza del matrimonio, ancora non sapeva se la sua compagna fosse davvero in stato interessante. Era felice, ma in fondo all'anima forse c'era qualcosa che lo spaventava. Lentamente nei giorni scorsi aveva tirato fuori dal baule dei ricordi un sacco di cose, ripensando a quel cassetto pieno di fotografie. Sospirò profondamente. Ultimamente lo faceva spesso. Cercò di ignorare quel pensiero ma con scarso successo.

    «Commissario?» L'agente Santi lo chiamò

    appena varcata la soglia della stazione di Polizia:

    «È tutto pronto per la riunione. Ehm, quasi di-menticavo. Buongiorno.»

    Per un attimo lo guardò smarrito senza dire niente, poi si rivolse al suo agente.

    «Ancora con questa storia del Lei? Mi chiamo Riccardo. Ti devo fare un disegno?»

    «Direi di no, commissario.»

    Santi era la personificazione della timidezza. Di un'intelligenza fuori dal comune, nel suo campo era un genio. Quando calcava quel terreno, l'informatica forense, era inattaccabile ed invincibile, ma allo stesso tempo, per quanto riguardava la vita di tutti i giorni, molto timido e impacciato. Viveva con l'anziana madre. Il babbo era morto quando lui frequentava ancora l'accademia di polizia, circa sei anni prima e quella cosa lo aveva profondamente provato. A volte il commissario si domandava come avrebbe fatto se si fosse trovato davanti una ragazza. Riccardo scosse la testa sorridendo.

    «Ecco appunto.»

    Nel frattempo la porta d'ingresso si era riaperta e Luca, il vice commissario, entrò strofinandosi le mani. Fuori l'aria cominciava a pizzicare. Era appena fine ottobre e mancavano quasi due mesi all'inizio dell'inverno, ma quella era una di quelle annate in cui il freddo arrivava presto e finiva tardi. Erano già comparse le prime brinate e l'aria si era fatta molto fredda prima del previsto. Appena sarebbe arrivata la prima perturbazione, la cima del Pratomagno si sarebbe imbiancata con la neve. Di certo un freddo pungente avrebbe preso il sopravvento per diversi mesi.

    «'giorno a tutti» disse battendo i denti, «c'è del caffè?»

    L'agente Santi sorrise compiaciuto. Il giorno prima erano tutti rimasti fregati a causa della macchinetta del caffè che si era guastata. I presenti lo seguirono con gli occhi incuriositi, puntando lo sguardo su quello che teneva in mano quasi fosse una reliquia.

    «La macchinetta ancora non funziona, sembra che il tecnico non possa passare fino a lunedì, ma mi sono permesso di prepararlo a casa e metterlo in un termos.»

    Luca sorrise con gli occhi e si rivolse a Marcello.

    «Okay andiamo in sala riunioni?»

    «Certo. A proposito ha chiamato Massimo ed è dovuto andare in ospedale per via di sua sorella che sta per partorire. Da quando ad inizio anno è rientrata a vivere in Italia, non passa giorno che non vada a trovarla. M'immagino adesso che lo farà diventare zio. Comunque ha detto che arriverà con un certo ritardo.»

    Riccardo prese in mano la conversazione. Quella piccola cosa detta da Marcello sul parto lo aveva fatto sospirare di nuovo. Si domandò se fosse riuscito a nascondere l'emozione e provò a cambiare argomento.

    «La tua divisa è impeccabile.» L'agente Santi arrossì ancora una volta rivelando quello che era il suo carattere timido e impacciato.

    «Grazie Riccardo. Ho trovato uno shampoo che finalmente funziona per il mio problema. Beh, adesso però direi di prenderci un caffè e di cominciare la riunione.»

    Disse quella frase senza rendersi conto che, così facendo, aveva preso una decisione spettante invece al suo capo o al vice.

    Riccardo portò la mano alla testa nel classico saluto militare dicendo: «comandi» e mentre il vice commissario rideva a crepapelle, Marcello era diventato violaceo.

    «Su, su. Cerca di respirare capo.» Luca diede una botta sulle spalle dell'agente che per poco non si strozzava.

    Si presero alcuni attimi per sorseggiare il caffè: era buono e ancora caldo. Il termos aveva fatto il suo lavoro, come anche la mamma dell'agente Santi: sapeva perfettamente che non era stato lui a prepararlo ma l'attenta e anziana mammina. Nel frattempo il volto di Riccardo si era incupito. Marcello e Luca lo stavano guardando. Si vedeva lontano un chilometro che aveva qualcosa che gli frullava per la testa, ed in effetti era così. Mille e più pensieri si accavallavano nella mente e non erano legati al lavoro. Quando Luca posò con un po' più di enfasi la tazzina sul tavolo di metallo della sala riunioni, Riccardo si ridestò e alzò lo sguardo verso i colleghi, rimanendo immobile ancora qualche secondo, poi si rivolse ai presenti.

    «Allora, domani io ho il giorno di riposo e sarò con mia figlia. Ci sarai tu Luca, insieme a Massimo. Tu Marcello sarai a controllare la mostra di quadri di questo famoso Rubens, alias Ciro Esposito. La mostra sarà aperta dalla mattina, ma tu sarai di turno nel pomeriggio dalle 14:00 alle 20:00, poi ci saranno le guardie giurate che faranno il turno di notte.»

    L'agente Santi e il vice ascoltarono attentamente, poi Marcello prese la parola.

    «È confermato che si terrà al Circolo Stanze Ulivieri

    «Sì! In settimana hanno finito di montare anche una sorta di allarme aggiuntivo. Sembra che il nostro amico Rubens sia famoso, almeno all'estero. Ma, essendo della zona, ha voluto dare risalto alla mostra nella sua città. È nato qui ma i genitori sono di origine partenopea. Comunque sarà una passeggiata. Tu vai li con un po' di anticipo, ti metti in bella mostra come oggi con una divisa impeccabile e fai finta di guardarti intorno come ad avere la situazione sotto controllo. Per quanto riguarda te Luca, insieme a Massimo, cercate di sistemare quelle piccole denunce che ci sono in sospeso. Per quanto mi riguarda, se non avete niente da chiedere, andrei nel

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