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Le Regioni alla Costituente:  Il «caso» Molise (1946-1947)
Le Regioni alla Costituente:  Il «caso» Molise (1946-1947)
Le Regioni alla Costituente:  Il «caso» Molise (1946-1947)
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Le Regioni alla Costituente: Il «caso» Molise (1946-1947)

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A settant’anni dall’Assemblea Costituente e dalla Costituzione questa ricerca ricostruisce il dibattito che dette luogo alla configurazione territoriale delle diciannove Regioni cosiddette «storiche» al termine di un lungo e faticoso confronto, ricco di meditate proposte e di fondate perplessità, di precorritrici intuizioni e di pervicaci ostilità come si espressero sull’introduzione dell’ordinamento regionale nella nuova organizzazione dello Stato, quando al calcolo politico pur presente negli schieramenti contrapposti si accompagnò una rara e forse ineguagliabile passione civile. In tale ambito, il particolare percorso della questione regionale molisana non si limita a delineare gli elementi che fecero del Molise un «caso» destinato ad essere chiuso tardivamente con legge costituzionale del 27 dicembre 1963, ma offre spunti di riflessione tuttora utili alla più generale comprensione dei problemi non risolti e delle prospettive ancora aperte della questione regionale nella storia italiana.
LanguageItaliano
Release dateJan 17, 2018
ISBN9788838246463
Le Regioni alla Costituente:  Il «caso» Molise (1946-1947)

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    Le Regioni alla Costituente - Luigi Picardi

    Luigi Picardi

    Le regioni alla costituente

    Il <> Molise (1946-1947)

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2017 by Edizioni Studium - Roma

    ISBN 978-88-382-4646-3

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838246463

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Introduzione

    I. La questione regionale nel periodo precostituente (1945-1946)

    II. Le Regioni alla Costituente. Il «caso» Molise (1946-1947)

    Indice dei nomi

    CULTURA

    Studium

    110.

    Storia / 15.

    LUIGI PICARDI

    LE REGIONI

    ALLA COSTITUENTE

    Il «caso» Molise (1946-1947)

    a Renato, Edvige e Luigi

    Introduzione

    La «questione regionale», nell’ambito della più generale questione delle autonomie di cui ha rappresentato una specificazione, è rimasta aperta ed ha attraversato tutto il corso della storia italiana unitaria, ponendosi come «esigenza di articolazione dello Stato su base regionale» e dando luogo a una feconda «discussione politica, oltre che culturale e tecnico-giuridica, sul fondamento, la validità e le conseguenze» di tale esigenza, che ha finito per accumulare negli anni una letteratura amplissima [1] .

    All’indomani dell’Unità, com’è noto, la caduta dei progetti di decentramento di Luigi Carlo Farini prima e di Marco Minghetti poi, vicini alle originarie intenzioni dello stesso Cavour, segnò a partire dal Governo Ricasoli la scelta centralistica dell’ordinamento dello Stato [2] mantenuta fino all’avvento del fascismo ed oltre, sulla base della ricorrente motivazione secondo la quale il regionalismo in tutte le sue declinazioni potesse costituire un «pericolo per l’Unità» da poco e faticosamente raggiunta, leit motiv degli antiregionalisti di ogni orientamento politico fino agli anni della Costituente [3] .

    Prima di tale «evento» [4] , con un andamento carsico, la questione regionale era puntualmente riemersa, con tutto il carico delle sue aspirazioni democratiche e di rinnovamento della società e dello Stato, in corrispondenza delle crisi che venivano segnando la storia generale del Paese.

    Così, a fine secolo e nei primi anni del Novecento, l’istanza regionalistica veniva decisamente riproposta dai socialisti (Ciccotti, Salvemini), dai repubblicani (Ghisleri) e dai primi democratici cristiani (Murri, Toniolo, Sturzo); e così pure nella temperie del primo dopoguerra, nell’ampio dibattito che in Parlamento e nel Paese riprendeva particolare vigore nel quadro della crisi della liberaldemocrazia, delle esigenze di trasformazione dello Stato e delle nuove istanze meridionalistiche, impegnando significativamente le forze politiche, dai socialisti ai popolari, e figure culturali di spicco, da Gobetti a Salvemini, da Einaudi a Turati e a Sturzo [5] , mentre l’antiregionalismo di nazionalisti e fascisti avanzava con Rocco e Mussolini in difesa dell’«Unità» e i comunisti liquidavano le istanze autonomistiche accusandole di «astrattezza».

    Ma come è stato generalmente osservato, il periodo più importante nella storia della questione regionale «è sicuramente quello che va dalla caduta del regime fascista all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana [...] un periodo decisivo, che si conclude con l’inserimento dell’ordinamento regionale nella Carta costituzionale» [6] , dopo un lungo e faticoso confronto tra le forze politiche.

    Tale esito, peraltro, non era affatto scontato, essendo in partenza del tutto minoritario in Assemblea il fronte regionalista costituito da democristiani, repubblicani e azionisti.

    Sarà solo dopo la crisi del maggio 1947, con il revirement del Partito comunista ispirato da preoccupazioni garantiste, volto a cogliere le opportunità di una ripresa della lotta politica che ora sembravano venire offerte nell’ambito delle ipotizzate Regioni dopo l’estromissione dal governo centrale, che andrà formandosi e via via consolidandosi in Assemblea la necessaria maggioranza favorevole all’istituto regionale, benché con rilevanti condizionamenti rispetto al disegno regionalista originario concepito dal Comitato per le autonomie locali presieduto da Gaspare Ambrosini, discusso poi nella seconda Sottocommissione e nella Commissione dei settantacinque.

    Tali condizionamenti, in qualche modo subìti specie dalla Democrazia cristiana, impegnata anche ad arginare manovre dilatorie presenti al suo interno, ma decisa a dare dignità costituzionale al suo antico regionalismo pur con la positiva riserva di successive correzioni territoriali, risulteranno alla base del compromesso raggiunto con i comunisti sul Titolo V.

    Condizionamenti che riguarderanno in particolare, sotto il profilo istituzionale, la potestà legislativa delle regioni, mentre per quello territoriale sarà evidente il ripiego, sulla scorta del noto ordine del giorno del socialista Targetti (recante anche le autorevoli firme dei comunisti Grieco e Laconi), che soffocava quanto di più innovativo era stato elaborato sul tema delle regioni dentro e fuori l’Assemblea, sulle cosiddette regioni «storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche» (quelle della «tradizionale ripartizione geografica dell’Italia» sostenuta in particolare dal Pci lungo il percorso costituente), finendo così per segnare nella geografia politica del Paese «una continuità tra ordinamento repubblicano e regime fascista e tra questo e Regno piemontese» [7] .

    Di qui il rammarico espresso da Moro, che nel suo ruolo di vicepresidente del Gruppo democristiano e portavoce sulla materia regionale aveva infine comunicato, il 29 ottobre 1947, l’adesione a quell’ordine del giorno pur se con alcune significative precisazioni che stavano a sottolineare, al di là di una contingente coincidenza di interessi, la diversità di intenti del suo partito [8] .

    Scriverà, infatti, poco dopo:

    La riforma regionale, che è certamente la più profonda trasformazione dello Stato [...] non si è potuta attuare con quella completezza di linea che era stata disegnata nel nostro programma.

    Ma è già molto aver salvato la Regione dinanzi alla irragionevole ostilità della destra e della sinistra contro questa novità costituzionale. Naturalmente ciò è stato ottenuto a costo di sacrifici, soprattutto nella determinazione delle competenze legislative dell’Ente regione [9] .

    Una posizione non appagata, questa di Moro, in sintonia con quella che, sotto il profilo della configurazione territoriale delle Regioni approvata nell’articolo 123 del Progetto (poi 131 della Costituzione), avrebbe espresso il 4 dicembre Mortati, sottolineando il «carattere di provvisorietà» di quel disegno ed avvertendo «la necessità di dare alla ripartizione delle circoscrizioni regionali un fondamento più razionale di quello che non sia stato possibile finora per la mancanza degli elementi informativi che sarebbero stati necessari». [10]

    La «razionalità» invocata dall’insigne costituzionalista si sarebbe dovuta allora tradurre, com’è noto, in Regioni minori di numero perché di area vasta, demograficamente non inferiori al milione e mezzo di abitanti, economicamente vitali per realizzare i compiti ad esse affidati nell’interesse dei cittadini [11] .

    Quanto alla «provvisorietà» sottolineata da Mortati, anch’essa sarebbe stata «congelata» dalla lunga «inattuazione» dell’ordinamento regionale, per giungere irrisolta, dopo aver attraversato diverse stagioni politiche, fino a noi.

    Mentre questo problema, con le sue antiche e nuove difficoltà, è dunque ancora aperto [12] , è sembrato utile tornare al dibattito costituente sulla configurazione territoriale dell’ordinamento regionale che gli Atti ci restituiscono a tutto tondo nella sua complessa ricchezza di meditate proposte e di fondate perplessità, di precorritrici intuizioni e di pervicaci ostilità, in un contesto nel quale, al calcolo politico pur presente negli schieramenti contrapposti, si accompagnava una rara e forse ineguagliabile passione civile.

    Per il contributo che può recare ad una ulteriore comprensione della questione regionale italiana come si pose negli anni della Costituente, è apparso inoltre significativo rileggere in controluce il particolare itinerario della questione regionale molisana, che in quegli stessi anni fece registrate il suo più alto benché travagliato momento, non riuscendo a tradursi, per contingenti motivi politici, nel risultato pieno della separazione dagli Abruzzi. Questa avverrà, sedici anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, in un quadro politico ben diverso della storia del Paese, con legge costituzionale n. 3 del 27 dicembre 1963, quando la questione molisana incontrerà ancora sul suo percorso Aldo Moro, il quale dal 4 dicembre presiedeva il primo governo «organico» di centro sinistra avente tra i punti qualificanti del suo programma l’attuazione dell’ordinamento regionale [13] .

    Peraltro, il Molise avrebbe costituito un «caso»: per la XI Disposizione transitoria, che prometteva e avrebbe dato poi, a fronte di una consistenza demografica ancora minore rispetto a quella del 1947, ciò che prima era stato negato; per la Disposizione IV, che considerava il Molise come fosse Regione a sé stante, ma solo per la prima elezione del Senato; per l’ottenimento della più piccola circoscrizione per l’elezione alla Camera di cinque deputati, ristretta alla sola provincia di Campobasso, coincidente allora con l’intero Molise, come nei voti espressi già negli anni Venti, agli esordi del movimento regionale molisano e costantemente riproposti fino al secondo dopoguerra; e, last but not least, per la sua separazione dagli Abruzzi, che sarà l’unica modifica all’assetto territoriale delle Regioni scaturito dalla Costituente.

    Ora che la Costituzione compie settant’anni, la questione regionale italiana, fino alle sue più recenti espressioni così strettamente intrecciate con la complessiva vicenda politica del Paese, appare ancora in grado di alimentare, al riparo da ricorrenti tentazioni celebrative, un supplemento di riflessione e di impegno civile per una riforma incisiva che non dovrebbe limitarsi a ridefinire i poteri delle Regioni in relazione a quelli dello Stato senza toccare il loro anacronistico ritaglio territoriale, sempre che la storia sia in grado di aiutare la politica a trovare la strada.


    [1] E. Rotelli, Questione regionale, in Storia d’Italia, 3, a cura di F. Levi, U. Levra, N. Tranfaglia, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 967.

    [2] Sulle interpretazioni di tale scelta cfr. E. Rotelli e F. Traniello, Il problema delle autonomie come problema storiografico, in Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, a cura di M. Legnani, Il Mulino, Bologna 1975, pp. 25 ss.

    [3] E. Rotelli, L’avvento della regione in Italia. Dalla caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana, Giuffrè Editore, Milano 1967. Tra i contributi più recenti, Federalismo e autonomia in Italia dall’Unità ad oggi, a cura di C. Petraccone, Laterza, Bari 1995; A. D’Atena, Il regionalismo nella vicenda costituzionale italiana, in Valori e principi del regime repubblicano, 1, t. II, Sovranità e democrazia, Prefazione di G. Napolitano, a cura di S. Labriola, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 491-539; U. De Siervo, La ripresa del regionalismo italiano nel dibattito costituente, in Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, I, a cura di S. Mangiameli, Giuffrè Editore, Milano 2012, pp. 51-76.

    [4] Per il suo significato nella storia dell’Italia unita, cfr. P. Scoppola, Gli anni della Costituente fra politica e storia, Il Mulino, Bologna 1980; Id., La Costituzione contesa, Einaudi, Torino 1998, pp. 3-17. Tra le rassegne di contributi, G. Melis, Studi recenti sull’Assemblea Costituente. Rassegna storiografica, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno» , 10 (1981), Introduzione di P. Grossi, Giuffrè Editore, Milano 1981, pp. 449-510; G. A. Romeo, La stagione costituente in Italia. Rassegna della storiografia, Franco Angeli, Milano 1992. Tra gli studi più recenti, P. Pombeni, La questione costituzionale in Italia, Il Mulino, Bologna 2016; Id., Ripensare la Costituente settant’anni dopo, in «Il Mulino », a. LXV, maggio-giugno 2016, pp. 398-407.

    [5] Su questo dibattito cfr. R. Ruffilli, La questione regionale dall’unificazione alla dittatura (1862-1942), Giuffrè Editore, Milano 1971, pp. 193 ss.

    [6] E. Rotelli, Questione regionale, cit ., p. 974.

    [7] P. Bonora e P. Coppola, L’Italia governata, in Geografia politica delle Regioni italiane, a cura di P. Coppola, Einaudi, Torino 1997, p. 436.

    [8] Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, 8 volumi, Camera dei Deputati – Segretariato Generale, Roma 1970², Assemblea Costituente (d’ora in poi AC), seduta pomeridiana del 29 ottobre 1947, vol. IV, pp. 3603-3604.

    [9] A. Moro, Le battaglie costituzionali, in «Popolo e libertà», II, n. 44, 16 novembre 1947, p. 3.

    [10] La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, cit., AC, seduta pomeridiana del 4 dicembre 1947, vol. V, p. 4387.

    [11] Una sorta di compendio delle posizioni di Mortati espresse sulla questione regionale nel lavoro costituente è rappresentato dall’articolo La Regione nell’ordinamento costituzionale italiano, in «Studium » (allora diretta da Moro), a. XLIII, n. 10, ottobre 1947, pp. 331-340.

    [12] Superando il tradizionale criterio storico prevalso in Costituente, a partire dagli anni Sessanta si sono registrate varie ipotesi di riforma dapprima nella prospettiva della programmazione economica propria di quel momento (per tutti cfr. F. Compagna, L’Europa delle Regioni, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1964, dove il numero delle Regioni è ridotto a tredici), seguite dagli studi della Fondazione Agnelli intesi a ridisegnare l’Italia in dodici mesoregioni privilegiando criteri di razionalità economica e finanziaria per il buongoverno locale (una sintesi in M. Pacini, Un federalismo dei valori. Percorso e conclusioni di un programma della Fondazione Giovanni Agnelli, 1992-1996, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1996), fino alle ricerche più recenti della Società Geografica Italiana orientate ad una più radicale riforma che coinvolge tutte le autonomie ( Il riordino territoriale dello Stato. Riflessioni e proposte della geografia italiana, a cura di M. Castelnovi, Roma 2013). Un’attenzione ad un riordino regionale su aree più vaste è venuto da alcuni Presidenti delle stesse Regioni (Campania, Lazio, Lombardia, Piemonte, Puglia), mentre «ipotesi di accorpamento» sono state valutate nella Relazione finale (12 aprile 2013) del Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali nominato dal Presidente Napolitano, nella Relazione finale (17 settembre 2013) della Commissione per le riforme costituzionali nominata dal Governo Letta, nel Report conclusivo del Gruppo di lavoro sui costi della politica coordinato da M. Bordignon (5 marzo 2014) confluito nelle proposte del Commissario straordinario per la revisione della spesa C. Cottarelli, La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare, Feltrinelli, Milano 2015. Infine non sono mancate nella corrente legislatura proposte di legge per il passaggio dalle attuali venti regioni a dodici, mentre il Governo, durante la discussione in Senato del disegno di legge costituzionale «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi del funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione» accoglieva un ordine del giorno del sen. Ranucci impegnandosi «a considerare l’opportunità di proporre anche attraverso una speciale procedura di revisione costituzionale la riduzione del numero delle Regioni» (Senato della Repubblica, XVII Legislatura, 520ª Seduta, Assemblea – Resoconto stenografico, 8 ottobre 2015, pp. 91-92): primo timido approdo del problema in Parlamento. Tra le iniziative di approfondimento più recenti, il Seminario sul riordino territoriale organizzato da federalismi (Roma, 4 febbraio 2015), con contributi di D. Del Gaizo, A. Sterpa, L. Antonini, A. Ferrara, I. Nicotra, A. Piraino, F. Pizzetti, A. Poggi, G. Allegri, raccolti in «federalismi.it », n. 3/2015; ed il Seminario promosso da Éupolis Lombardia (Milano, 11 maggio 2015) su Revisione dei confini e accorpamenti di Regioni: fatti e proposte. I casi di Francia, Germania e Italia, con relazioni di S. B. Galli, G. Marcou, G. Milbrandt, A. Petretto ( www.eupolis.regione.lombardia.it).

    [13] Tra gli altri, sull’avvio del cosiddetto «disgelo» costituzionale, cfr. P.L. Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori, Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centrosinistra (1953-1968), Carocci, Roma 2006.

    I. La questione regionale nel periodo precostituente (1945-1946)

    1. Ministero per la Costituente, Sottocommissione Jemolo e questione regionale molisana.

    Caduto il regime fascista, mentre la guerra non era ancora conclusa, l’esigenza di una riforma delle istituzioni e della pubblica amministrazione aveva indotto il presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi ad istituire, nel 1944, una «Commissione per la riforma dell’amministrazione» presieduta dal giurista Ugo Forti dell’Università di Napoli e composta da ventotto membri provenienti in larga parte dalle varie magistrature e dal mondo accademico e forense, con il compito di elaborare e proporre al Governo un disegno tecnico riguardante il decentramento amministrativo, le autonomie regionali, la legislazione comunale e provinciale, l’ordinamento burocratico, la giustizia amministrativa [1] .

    Istituito con decreto luogotenenziale n. 435 del 31 luglio 1945 nell’ambito del governo Parri il ministero per la Costituente [2] con il «compito di preparare la convocazione dell’Assemblea Costituente» e di predisporre gli «elementi per lo studio della nuova Costituzione», il ministro responsabile, Pietro Nenni (che aveva nel giovane giurista Massimo Severo Giannini il suo prezioso capo di gabinetto), nominava a sua volta la «Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato» [3] , alla cui presidenza designava lo stesso Forti, formata da gran parte dei componenti il precedente organismo con l’integrazione di un cospicuo numero di esponenti designati dai partiti politici ed articolata in cinque sottocommissioni così presiedute: 1) Problemi costituzionali, G. Battista Boeri; 2) Organizzazione dello Stato, Emanuele Piga; 3) Autonomie locali, Arturo Carlo Jemolo; 4) Enti pubblici non territoriali, Leopoldo Piccardi; 5) Organizzazione sanitaria, Nicola Perrotti.

    Sul tema delle autonomie e del regionalismo si trovarono quindi ad operare oltre alla terza Sottocommissione della seconda Commissione Forti, le Sottocommissioni già attive della prima Commissione Forti presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, una sul «Problema della Regione» presieduta ancora da Jemolo, l’altra sulla «Amministrazione locale». I loro documenti finali sarebbero stati aggregati alla Relazione all’Assemblea Costituente, in tre volumi, licenziata da Forti il 30 maggio 1946 e consegnata da Pietro Nenni il 28 giugno all’Assemblea subito dopo il suo insediamento [4] .

    La Relazione «Problema della Regione» contenuta nel secondo volume (pp. 163-300), non nascondeva, sin dalla Premessa, le difficoltà incontrate sul «tormentato problema» nell’ampio dibattito suscitato dalle varie ipotesi esaminate, riguardanti, tra quelle pur favorevoli al nuovo ente, le funzioni, la struttura, ma anche la «organizzazione regionale sul terreno concreto». In particolare, non erano risultate «agevoli la delimitazione dei grandi organi regionali e la determinazione dei relativi confini» perché «accanto alle regioni geograficamente e storicamente determinate esistono raggruppamenti che aspirano a una propria individualità e offrono una tenace resistenza alla loro incorporazione in più vaste aggregazioni territoriali»; e, a titolo di esempio, si accennava alla «problematica riunione del Molise con gli Abruzzi» e alla difficile costituzione di una «regione sannitica» che avrebbe dovuto comprendere, oltre alla provincia di Benevento che se ne era fatta promotrice, quelle di Avellino e Campobasso, peraltro diversamente orientate, la prima verso la Campania, la seconda a costituire una entità autonoma [5] . Sicchè la Sottocommissione, consapevole del suo compito tecnico e non politico in ordine a soluzioni che avrebbero in ogni caso creato «malcontenti tra la popolazione locale», preferiva «astenersi dal precisare la dimensione delle regioni, dal tracciarne i confini, limitandosi alla raccolta di dati, all’analisi delle varie aspirazioni e all’esame obiettivo delle ragioni addotte».

    Peraltro, si annotava, «benché sul terreno puramente logico l’istituzione della regione non abbia come corollario necessario la scomparsa della provincia, pure una tale conseguenza sembra certamente imporsi sotto il profilo dell’opportunità» nonostante la «persistenza di uno spirito provinciale che offre una certa reazione all’instaurazione del più vasto organismo regionale». [6]

    Infine la Sottocommissione, riflettendo anche la personale, prudente, ma significativa posizione del presidente Jemolo [7] , si diceva «preoccupata di richiamare l’attenzione sull’opportunità di evitare un brusco, immediato trapasso dall’attuale sistema fortemente accentrato al decentramento istituzionale regionale», suggerendo «un’attuazione graduale della riforma che consente di sottoporla al vaglio dell’esperienza» e predisponendo «accanto al progetto dell’ente regione [...] quello della Consulta regionale: il secondo deve costituire il mezzo per giungere, ove l’esperimento dia utili frutti, all’attuazione del primo» [8] .

    È stato rilevato che la Relazione rappresentava nel suo complesso una «soluzione ibrida» che affidava alle Consulte regionali solo una «potestà propositiva» al Governo su questioni di particolare interesse regionale, una «soluzione pasticciata che non andava al vero cuore del problema italiano», finendo per propendere in qualche modo sul programma minimo di una regione come «semplice organismo di decentramento amministrativo» [9] . Essa, inoltre, facendo infine coincidere le regioni con i compartimenti statistici tradizionali senza mostrarsi avvertita dell’originario significato e degli scopi dell’antico lavoro di Pietro Maestri [10] , non appariva attenta abbastanza ai criteri nuovi di identificazione territoriale delle regioni stesse che pure da più parti si venivano proponendo, sicchè «non è da meravigliare se, movendo da così lacunose indagini preliminari, i Costituenti abbiano ignorato la natura e il valore dei problemi relativi alla individuazione funzionale – e di conseguenza areale – delle regioni» [11] .

    E tuttavia, pur con tali limiti, la Relazione offriva un primo utile contributo conoscitivo tra le incertezze del nuovo clima politico dopo il soffocamento del movimento regionalistico operato dal fascismo, anticipando non pochi temi e problemi del dibattito che vedrà a lungo impegnati i Costituenti: federalismo e regionalismo, decentramento amministrativo e regionalismo politico, regionalismo storico e regionalismo funzionale per ampie aree economiche e territoriali, regionalismo e coesistenza o soppressione delle vecchie provincie.

    Quanto alle implicazioni più propriamente territoriali del regionalismo converrà qui richiamare brevemente i contenuti delle prime due Sezioni della Relazione [12] .

    Nella prima si offriva un excursus delle tendenze federalistiche e regionalistiche manifestatesi nel tempo dal Risorgimento all’Unità, lungo tutto l’Ottocento e sino all’avvento del fascismo, accostando le posizioni favorevoli a quelle contrarie, queste ultime accomunate dal ricorrente motivo di un regionalismo ritenuto capace di minare l’unità dello Stato da poco e non senza fatica raggiunta.

    In particolare, non si mancava di ricordare la configurazione territoriale delle ipotizzate regioni da parte di taluni significativi esponenti del pensiero regionalistico come Giuseppe Saredo [13] il quale agli inizi del Novecento, sulla base del dato storico, degli interessi e delle comunicazioni, aveva disegnato un’Italia in 13-14 Regioni tra le quali una rappresentata da «Campania e Molise» [14] .

    E più avanti, tra le proposte di maggior rilievo del movimento regionalistico dopo la prima

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