Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Come Formiche in Fila
Come Formiche in Fila
Come Formiche in Fila
Ebook550 pages8 hours

Come Formiche in Fila

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Collodi, Toscana. Inverno 2009. Piove a dirotto: Michele, 23 anni, perde il controllo dell’auto su cui sta viaggiando e precipita giù per un dirupo. Ne esce completamente illeso, ma nello stesso momento un’altra persona viene colta da un malore fatale. Con questa premessa, Michele e i suoi migliori amici di infanzia si incontrano dopo anni, rievocando ricordi e spettri (veri o presunti) del proprio passato. Tale percorso tortuoso li porterà a riflettere sulla nostalgia, sulla paura, sull’amore, sull’infanzia, sulla crescita, sulla depressione, sulla felicità e sulla morte… e su ciò che accadde nella torrida estate 2003. Un racconto ibrido, corale, carico di tensione e di mistero, ma anche di tenerezza e di comicità. Una finestra aperta sul piccolo mondo innocente di quella generazione “di mezzo” cresciuta a cavallo del millennio tra musica, cotte e le ultime scorribande in bici e nei boschi prima della dittatura di Internet.
LanguageItaliano
Release dateDec 27, 2017
ISBN9788827542101
Come Formiche in Fila

Related to Come Formiche in Fila

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Come Formiche in Fila

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Come Formiche in Fila - Armando Marchetti

    Intro.

    «Voi ragazzi la ballavate lenta anche prima,

    e adesso sarete ancora più lenti,

    ma potete sempre tenere il ritmo.

    C’è tempo in abbondanza per fare ogni passo.

    Tempo. Tempo in abbondanza.

    Far ripartire il disco, ma suonarlo più lento»

    Stephen King

    «È come stare in mezzo a una centrale elettrica sotto acidi.

    Se ti metti in piedi in mezzo a una di quelle piuttosto grandi,

    senti come una presenza davvero strana, e c’è quel ronzio.

    Ti senti l’elettricità attorno. Per me è semplicemente favoloso»

    Richard David James

    «Morire non è mai una buona idea»

    Un bambino

    A chi c’è stato.

    PARTE UNO: SUITE OF DISEASE

    «Una parte di me non se ne andrà via»

    Linkin Park, Part Of Me

    Ouverture e Suite.

    1.

    Dev’esserci una custodia con dei cd, da qualche parte, nello spor­tello del cruscotto. Comincio a rompermi le palle di questa pioggia che mi prende a pugni il parabrezza: sembra che vengano giù goc­ce di mercurio, e la lamiera della jeep amplifica i colpi, come se non bastasse. Dalla radio, solo i barriti delle scariche elettrostati­che: se non metto su della musica mi esploderà la testa. Non mi in­tendo molto della musica di oggi, se devo esser sincero. Questo ca­torcio non è nemmeno mio, quindi non so che cavolo ci troverò, in quel porta-cd, e ho come l’impressione che quel rimbecillito di Martino non ascolti Gustav Holst, purtroppo. È difficile rovistare in mezzo a manuali della Suzuki, strofinacci lerci e (bleah) involu­cri unti e semivuoti di Crispy McBacon mentre si tenta di tenere lo sguardo sulla strada. Che è più che altro una serie di tornanti, se proprio volete saperlo. Non che mi dispiaccia, venire a lavorare in collina, ma quando piove anche la Reggia di Versailles sembra uno schifo di posto, ci scommetto quello che volete. Trovo una sotto­specie di sacca con cerniera in mezzo a quel ciarpame: la estraggo e tento di disseppellirne il primo disco che mi capita sotto le dita, ma la zip è tipo incastrata, e non posso distogliere gli occhi dalla strada per controllare meglio. Il minivan di fronte a me frena: c’è un incrocio, se Dio vuole. Mentre gli stop dietro alla vettura mi inondano di luce rossa, forzo l’apertura della sacca e rufolo dentro a casaccio. Il minivan riparte, appena in tempo perché io ficchi nella bocca dell’autoradio un cd con su scritto Hybrid Theory EP : non oso immaginare che roba sia. Ingrano la marcia e parto con un muggito quasi sbuffante del motore. Mi devo correggere: non apprezzo molto il rock, o quello che è, ma questa traccia non è male, soprattutto l’inizio con la chitarra. Davvero una bella apertura, peccato che duri poco, io l’avrei prolungata a loop continuo. Ma comunque. Lancio un’occhiata all’orologio accanto al contachilometri. Non vedo l’ora di arrivare a casa, immerso nel caldo nella poltrona a vedermi un film; magari prima passo dal VideoVip a prendere Cruel Intentions e un bel pacco di popcorn al formaggio. Nel frattempo però lampeggio a quel rimbambito davanti a me, che pare essere terrorizzato a fare più di trenta chilometri orari. La strada comincia a scendere, adesso; il furgoncino riprende finalmente un’andatura come Cristo comanda, e io accelero, accertandomi di usare il freno motore in discesa per evitare sbandate. I fari delle auto sull’altra corsia mi appaiono frammentati in costellazioni per via delle gocce sul mio parabrezza, perle tremolanti spazzate via dal tergicristallo, per essere sostituite da nuove un attimo dopo. Piazzo la terza e stringo forte il volante, premendo la spina dorsale contro il sedile.

    Ancora poco .

    2.

    Avere accanto alla scrivania dove si studia un piccolo cestino della carta straccia con sopra appeso un canestro può sembrare una sciocchezza, una roba da telefilm anni ‘90, ma quello che la gente non considera è il modo subdolo in cui aiuta ad eliminare lo stress. Passo a spiegare. Se non si è soddisfatti di qualcosa che si è creato, lo si accartoccia e lo si getta via: resta però uno sgradevole senso di inadeguatezza e sconforto per aver fallito. Riuscire a centrare l’a­nello del canestro durante la dolorosa operazione del disfarsi della propria spazzatura, ridona quindi allo sventurato soggetto una sorta di felicità posticcia ma innegabile, una sensazione di benes­sere che gli fa pensare che – nonostante tutto – non abbia fallito al cento per cento . Ed ecco, stiamo per vedere come un semplice gin­gillo di plastica con sopra la decalcomania degli Hornets possa dare magicamente un senso alla palla di fogli protocollo che una volta risultavano essere i tuoi compiti di estimo. Coi calcoli tutti sbagliati, pensò con amarezza il ragazzo appollaiato sulla poltrona girevole, i capelli corvini freschi di parrucchiere inondati dalla mo­lesta luce della lampada alogena posta accanto al computer. Era un’ora e mezza che spippolava con la calcolatrice. Sospirò, senza allentare la presa dai fogli appallottolati, e ringraziò mentalmente di essere figlio unico: non gli sarebbe stato facile concentrarsi con una sorellina rompicazzo che veleggiava per le stanze cantando i Jonas Brothers o qualcosa di simile. Penna alla mano, ricontrollò i dati del problema sul libro di testo, cercando di ignorare la pioggia che si accaniva contro le finestre della sua camera. La sua era una casa vecchia e, non essendo doppi, il vento scrollava i vetri come aveva dovuto fare Ernesto con lui qualche estate prima, quando a suon di vodka-lemon ci aveva dato giù come la pompa degli spurghi, e a fine serata non ne voleva sapere di smettere di ridere come un beota gattonando per il pavimento del locale. Fuori, nel nero, la pioggia stava diventando più maligna. Sembrava che la tempesta avesse voce propria, che volesse dirgli qualcosa. Guardò l’ora: le sette e mezza. Il ragazzo strinse con rabbia quello che ormai era diventato un grumo di A4 cosparsi di equazioni (sbagliate) e con uno scatto del polso lo spedì nel cestino della carta straccia sotto il minicanestro a ventosa. Centro. Si sentì un po’ meglio. Nelle orecchie aveva sempre quegli strilli del vento, simili a canti di balene malate. Con un colpo deciso trasse a sé il nastro della saracinesca, che si chiuse con uno squittio. Le sette e mezza, e ancora doveva finire gli esercizi. Avrebbe dato loro un’occhiata mentre cenava. Sentiva i palmi delle mani che gli prudevano: arrotolandosi su se stesso, il nastro glieli aveva segati un po’. Un improvviso bagliore azzurrognolo anticipò di una manciata di secondi un tuono di un’intensità quasi ultraterrena, fuori dal mondo: era come sentire esplodere una manciata di granate tutte assieme. Mischiato al fragore che ne seguì, e al vibrare furioso delle imposte, gli arrivò alle orecchie un trillo prolungato: il citofono. I suoi erano già tornati? Impossibile. Spinse da una parte il blocco ad anelli e inarcando la schiena si alzò dalla poltrona girevole, mentre con una mano si aggiustava l’elastico dei pantaloni della tuta. Prendendosi più tempo possibile per arrivare all’ingresso, percorse le stanze che lo dividevano dal suo studio in un ciabattare svogliato. Non aveva idea di chi potesse essere, ma non sembrò preoccuparsene: iniziò a farlo solo quando, aperto l’uscio, si trovò dinanzi quella cosa coperta di fango.

    3.

    L’unica cosa di cui Gaetano si accorse poco prima di chiudere il tornante che conduce a Rimogno, incassato nell’Ape con il respiro condensato a fargli compagnia, fu un ragazzo in un piccolo fuori­strada che per un attimo parve sollevare la mano nella sua direzio­ne, come per salutarlo. Ricambiò con un cenno della testa e un vago sorriso: poco prima un disgraziato gli aveva fatto il pelo con la sua dannata macchina sportiva, non c’era da sorprendersi se era felice di vedere qualcuno che viaggiava normalmente, con quel tempaccio. Poi i due veicoli si incrociarono e si persero di vista, e fu in quel momento che Gaetano lo sentì. Era già capitato altre vol­te, naturalmente, ma quella sera era diverso. La immaginò per un secondo accucciata davanti al camino, intenta a sistemare i ciocchi di legno. Si premette il palmo della mano sul costato: poteva quasi vederla, la padella con le rape e i pezzetti di salsiccia, bella fuman­te nonostante i rantoli dell’aspiratore ormai malandato. Avrebbero cenato e guardato quella trasmissione coi pacchi insieme. E maga­ri più tardi avrebbe seguitato a leggere quel libro che suo ni­pote aveva dimenticato in soggiorno, quello sul cimitero degli ani­mali, mentre lei finiva il centrino. Gaetano ruotò di scatto il manu­brio facendo oscillare l’abitacolo; sforzandosi, riuscì a rallentare l’andatura e accostare in una piazzola. Un lampo sbiancò gli alberi oltre il parabrezza, scontornandone le fronde di violetto. Il mug­ghiare del vento e il bastonare della pioggia sul tettuccio si rubaro­no lo strano suono frusciante alle sue spalle e se lo portarono con sé. Gaetano Torre rimase lì dov’era. Non si scompose nemmeno quando bussarono al suo finestrino. Le colline intanto, prima im­pallidite alla luce, tornarono al loro ottuso grigiore.

    4.

    Dopo un po’ gli aveva rotto. Probabilmente non durava molto, anzi, nemmeno quattro minuti, a giudicare dal display. Però – tra­lasciando la qualità audio che faceva abbastanza pena – dopo la seconda volta che partivano quegli sberci, passare in rassegna le stazioni radio gli era parsa un’opzione migliore. Difatti su Rete To­scana Classica c’era la London Symphony Orchestra che eseguiva La Valse di Ravel. Ecco, quello era un inizio che dava veramente i brividi, sembrava una specie di colonna sonora che avresti potuto trovare tranquillamente in Shining, e poi sfociava in un valzer da paura, bellissimo. Alzò il volume. Una cosa che lo inquietava da sempre erano i colpi di tosse e gli scricchiolii delle sedie durante le registrazioni dei concerti, ma era una sensazione piacevole: c’era una grossa differenza tra gli squittii degli mp3 a 96 kilobit al secondo di Martino e le imperfezioni dei vinili miste ai respiri del pubblico in una bellissima esecuzione degli anni ‘80. Mise la quarta e accelerò. Ancora pochi minuti ed era arrivato: aveva passato Botticino da un pezzo, infatti la strada stava diventando parecchio più ripida. Aumentò il volume ancora di qualche tacca e schiacciò la schiena contro le perline di legno che rivestivano il sedile. Notò che in cima al lunotto posteriore del furgoncino davanti a sé c’era un adesivo, ma era attaccato capovolto, quindi non riuscì a decifrare cosa c’era scritto. Qualcuno gli strombazzò col clacson e lo superò, rischiando di creare uno spicinìo contro una Yaris azzurra. Vide questo qualcuno gesticolare rabbioso mentre gli passava accanto e proseguiva a tutta birra. Gli gridò contro, sovrastando l’ultimo movimento del valzer, ma le sue imprecazioni gli suonarono insulse nell’abitacolo stretto e privo di alcun riverbero. Nel frattempo, il conducente del minivan sembrò svegliarsi tutt’a un tratto dallo stato catatonico in cui era, e decise di infrangere la temibile barriera dei quaranta orari. Lo seguì a ruota, tirando una specie di sospiro di sollievo: era ora. Il pezzo di Ravel era intanto terminato, e quell’odiosa voce della radio, impostata come poche, gli fece sapere che il brano successivo sarebbe stato la Sinfonia Il Titano di Mahler, diretta da Sinopoli. Un altro pezzo della madonna. Poi, con il sottofondo della pioggia sul tettuccio del Jimmy, era più che piacevole, era una cosa adrenalinica, bizzarra, intima. Se prima rischiava di farsi venire un mal di testa per colpa di quel tempo orribile, adesso desiderava che non la finisse più di piovere. Partirono i fiati sull’inquietante tessitura dei violini, e un brivido gli solleticò la schiena, giù fino al coccige. Volse la testa al passaggio di un’Ape nella corsia opposta: sorridendo, alzò il palmo in un cenno di saluto al vecchietto che lo fissava da dietro il parabrezza appannato, poi socchiuse gli occhi, espirando beatamente, e fu in quel preciso istante che il volto di Michele Ansani fu arrossato dall’accendersi improvviso degli stop posteriori del minivan.

    5.

    rosso rosso tutto rosso questo si avvicina cazzo gira gira il volan­te vedi la pioggia la pioggia che spara sul parabrezza la senti come picchia sembra spingermi indietro frena frena frena merda ora succede stringo i denti schiaccio i pedali le ruote scivolano e anche io sono io che mi avvicino ma devo devo devo sterzare l’ho oltrepassato e anche stavolta non riesco a leggere cosa c’è scritto in quell’adesivo attaccato al contrario ma io scivolo avanti ho tutti e due i piedi piantati sul freno uno sull’altro ma non succede niente c’è troppa pioggia troppa pioggia merda sono nell’altra corsia non vedo cosa c’è oltre la curva non vedo niente magari non c’è nessuno magari non succede niente però io devo girare non c’è il servosterzo ma ci riesco e mi scappa un ghigno ma è isterico credo è buffo che sto sterzando e frenando insieme sono di nuovo sulla destra e c’è una fiat palio che mi sfanala mi manca lo specchietto di un paio di centimetri e io mi ritraggo dal finestrino con gli occhi chiusi e quando li riapro sto andando troppo a destra troppo verso il ciglio verso il muretto e un lampo illumina le fronde al di là come in un’epifania teatrale perché oltre il muro c’è lo strapiombo e sotto romba il fiume mi sembra di sentirlo o forse è il cuore mi fa espandere i polmoni si gonfiano come ci hanno detto al corso di immersione che se trattieni il respiro e torni a galla ti esplode il torace non mi ricordo come si chiama i miei fari bagnano di arancione il profilo mangiucchiato del muro chiudo gli occhi non posso farne a meno io trattengo il respiro e ci finisco contro ma non c’è nessun botto perché sto continuando ad andare contro gli alberi sto volando anche se non guardo giù sento sento lo sento che sotto le ruote non c’è nulla e lo schianto dei rami contro il parabrezza mi fa dischiudere le palpebre e fuori è nero e arancio e verde dove la luce dei fari evidenzia le foglie poi tutto si ribalta e la botta è fuori di testa una cosa inammissibile enorme troppa stringo i denti mentre il tettuccio si schiaccia e la prima cosa che penso non è che sto per morire ma è quella in tv che gli vogliono fare l’eutanasia non voglio finire così con una cannuccia in bocca e una nel culo qua tutto gira ancora una volta non so distinguere chi si sta muovendo sono io o è il bosco sono io o è il bosco me lo chiedo una due tre volte lo sento il bosco che abbraccia il fuoristrada prima una portiera poi il tetto poi l’altra fiancata e poi sotto dove c’è l’albero motore i dadi appesi allo specchietto ondeggiano e sbatacchiano contro il tettuccio poi tornano a posto e di nuovo vanno sottosopra voglio che i colpi finiscano sono troppo troppo forti e io morirò di paura e mi troveranno qua con i pantaloni pieni di merda e oltretutto non ho mai scopato la cosa buffa è che mahler sta continuando e la quarta volta che nell’abitacolo risuona quel suono rabbioso sento un pugno forte sulla fiancata e la pioggia sulla spalla solo che è troppo forte per essere acqua muovo la testa e vedo che ho del vetro sulla manica del bomber allora apro la bocca e finalmente butto fuori l’aria i polmoni si sgonfiano il petto si rilassa fasciato dalla cintura ed è in quell’istante che capisco che ero io a muovermi ma è stato il bosco a fermarmi.

    6.

    Quando era apparso sulla soglia, zuppo di pioggia e col giubbotto striato di melma, all’inizio non l’avevo riconosciuto. Soltanto gli occhi, bianchissimi e spalancati, risaltavano in quella macchia marrone che era il suo volto. Aveva un rametto impigliato tra i ca­pelli incrostati di terra, con una fogliolina verde che si agitava ber­sagliata dalle gocce che colavano dalla grondaia. Quando si spostò in avanti, le mani tese, il ramoscello cadde ai miei piedi. Non pian­se, ma la sua stretta era fatta di lacrime, potevo sentirlo. Michele non mi aveva mai abbracciato in vita sua: ci stavo ancora pensan­do mentre mi portava lassù.

    Arrivati al ponte pioveva ancora, anche se lievemente: il fiume era in piena, imbizzarrito e grigio. Non mi ero nemmeno portato un ombrello, ma per fortuna il temporale stava calando d’intensi­tà, e le gocce erano solo spruzzi freschi sul volto. La cosa strana era che nessuno di noi aveva parlato per tutto il tragitto: l’unica cosa che Michele mi aveva fatto capire era che c’era stato un incidente. Mano a mano che ci avvicinavamo all’incrocio, cominciai a render­mi conto che qualcosa non quadrava. Mi lasciai scappare un gemi­to: chiunque l’avrebbe fatto. Oltre il fiume Pescia, infatti, al di là delle cime degli alberi, sorgeva il sole; l’alone biancastro di un glo­bo di luce filtrava da dietro le fronde tremanti. Peccato che in quel­la direzione ci fosse il nord, e soprattutto erano praticamente le otto di sera. Ci fermammo.

    «Che roba è?», riuscii a balbettare. Mi venne fuori in una voce sfiatata che a suo tempo avrebbe fatto ridere i polli. Provai a schiarirmi la gola. Michele continuò a fissare impassibile il bosco arroccato sull’argine, poi sbatté le palpebre e proseguì.

    «Vieni. Ti faccio vedere», si limitò a dire, partendo di corsa su per Via delle Cartiere. Mentre lo seguivo, notai che aveva uno squarcio sul Moncler lucido di pioggia: ne uscivano fuori sbuffi di piume a ogni passo. Erano passati mesi, forse quasi un anno, dal­l’ultima volta che ci eravamo visti: la maturità per me, il lavoro per lui, e tutto il resto. Gli guardai la chioma castana: aveva sempre portato quei capelli pettinati all’indietro, lunghi fin sotto le orec­chie. Da piccolo lo scambiavano tutti per una bambina, non fosse per il fatto che a pallone faceva di quelle scivolate sull’asfalto da restarci secchi. Questo almeno da quello che avevo sentito dire: essendo più piccolo di lui, lo conobbi quando ormai, superati i dodici anni, aveva le spalle e i polpacci abbastanza ingrossati da scongiurare ogni equivoco. Ernesto senz’altro se ne ricorderà di quando tutti i ragazzini lo chiamavano bimba, Michelle o quella lì; lui ci giocava insieme da… quand’era? Il ‘98? O addirittura prima? Aumentai l’andatura, con scarsi risultati: la poca pioggia che c’era sembrava ricacciarmi indietro.

    «Mic, rallenta! Mi dici che è successo?», strillai, ottenendo in risposta un mugolio indistinto oltre all’eco del suo scalpicciare sul terreno. Adesso riuscivo a vedere che la fonte della luce era oltre la curva; le suole non facevano bene presa sull’asfalto in salita, fatica­vo come un dannato. Alzai il viso contro gli schiaffi del vento, e mentre Michele si girava brevemente nella mia direzione, i nostri sguardi si incrociarono. Diciamocelo, pensai. Sarà passato anche un anno da quando ci siamo incontrati, ma ne sono passati molti di più dall’ultima volta che siamo stati davvero insieme, tutti quanti. Avevo il capo chino quando raggiunsi il mio vecchio amico, sul ciglio al di là del tornante, ma credo si fosse accorto che d’im­provviso avevo gli occhi lucidi. È un cliché, ma non era la pioggia. Io li detesto, i luoghi comuni: forse fu per questo che quando alzai di nuovo lo sguardo la bocca mi si spalancò tipo tagliola. Non ave­vo mai visto una cosa del genere in tutta la mia vita, giuro.

    «Oh, cazzo», sibilai. Avete presente quando nei film alle scene clou gli attori dicono sempre una cosa del genere prima di scappa­re, e immancabilmente vi suonano falsi? Beh, in quel momento quelle due parole mi parvero la reazione più adatta. Accanto a me Michele ansimava per lo sforzo, coi capelli anneriti dalla pioggia, tutti schiacciati sul cranio e arricciati sul collo. Dinanzi a noi la strada era chiusa: c’erano macchine ferme da entrambi i lati, i fari puntati contro le strisce da cantiere ondeggianti che alcuni uomini con dei caschi arancioni stavano tendendo da un capo all’altro della strada. Sulla sinistra c’era un muretto in pietra alto sì e no mezzo metro, e in un punto era come crollato: sul grigio dell’asfal­to risaltavano due strisciate nere. Un’autopompa dei vigili del fuo­co, imperlata di pioggia, stava parcheggiata al centro della scena; degli addetti in uniforme avevano innalzato due alti sostegni metallici sul retro della vettura, ai cui vertici erano avvitati dei riflettori enormi, simili a quelli degli stadi. I fasci che ne scaturivano tingevano il dirupo oltre il muretto di una luce finta, troppo bianca, asettica. Sembrava una foto in bianco e nero, i colori degli alberi erano come desaturati: una decina di metri più giù, cappottata contro una specie di colonna di mattoni coperta di muschio, c’era la jeep di Michele. Per un attimo mi sembrò che le ruote girassero ancora. Una roba fuori di cervello.

    «Lo sai qual era la cosa più tremenda?», lo sentii mormorare, al mio fianco. Io non riuscivo a distogliere lo sguardo dal rottame. «I dadi», fece.

    «Cosa?»

    «I dadi. Sai, quelli di spugna, non lo so… quelli gommosi. Che si attaccano al retrovisore. Tipo Arbre Magique. Quei dadi che an­davano su e giù, contro il tettuccio, appesi al filo. È buffo da dire, ma è la cosa che mi ha sconvolto di più». Presi fiato, e finii per ingoiare uno spruzzo di pioggia.

    «Ti sei… capovolto?», gli chiesi, incredulo di star avendo quel genere di conversazione con una persona viva e vegeta.

    «Quattro volte. Non ho nemmeno un graffio. Come in quel film, Ern ha detto che ci farà la tesi su», disse, e lo pronunciò tési, con la ‘e’ chiusa.

    «Hai visto Ernesto?», domandai, senza alcun motivo.

    «Sì, a Pisa, per caso. Ma abbiamo parlato poco. Mi sa che è di­spiaciuto a entrambi, però ad ogni modo l’ho visto felice. Era con i suoi compagni.»

    «Mic, ma tu stai bene?»

    «Sì», disse, e annuì, molto lentamente. «Sto bene».

    Un agente della stradale si fece strada verso di noi. Guardava Michele preoccupato.

    «Ragazzi, vediamo di sgombrare la strada, però, eh?», ci am­monì, respirando a fatica. «Tu non dovevi andare a casa a chiama­re qualcuno?»

    «Ho chiamato lui», rispose Michele, indicandomi col braccio sinistro sollevato. «È mio amico. I miei non ci sono, e se li chia­massi gli prenderebbe un infarto». L’uomo fece sì col capo, e stava per andarsene quando lo interruppi:

    «Ma che è capitato?»

    «Pensavo lo sapessi già», fece l’agente, avvicinandosi alla stri­scia bianca e rossa. «Il tuo amico, qui, è volato oltre il ciglio della strada con la jeep. È rotolato per il crinale. Non fosse stato per quella specie di vecchio rudere di mattoni nel bel mezzo del dirupo sarebbe finito nel fiume. Un volo di più di dieci metri. Sei fortunato ad essere tutto intero: vai ad accendere un cero alla Madonna, quando hai tempo», concluse, fissando Michele con una specie di sorriso, dopodiché si allontanò, raggiungendo i suoi colleghi. Rimanemmo lì per qualche altro minuto, incantati dal bagliore dei fari dell’autopompa. Personalmente sono sempre stato attratto da scene simili, con volanti della polizia, lampeggianti, zone perimetrate e cose così, alla Die Hard. Eppure nell’immagine che si presentava davanti a noi c’era qualcosa di perturbante, di tremendo, che ti faceva passar la voglia di scherzare. Un tizio alto e grassoccio giunto non si sa da dove, con la camicia di pile a quadri e una forte stempiatura, si avvicinò a noi, e posò la mano sulla spalla di Michele.

    «Sei tu quello che è caduto?», gli chiese, piegando le ginocchia per osservarlo meglio.

    «Sì»

    «Ti ho visto sparire, nello specchietto retrovisore. Ero davanti a te. Tutto a posto?»

    «Sto bene, grazie», rispose il mio amico. Il suo tono era gentile e pacato, ma pareva nascondere una qualche strana euforia. Quan­do il tipo pelato ci lasciò, vidi Michele guardarlo con attenzione, inclinando il capo e strizzando gli occhi mentre questi rientrava nel suo furgoncino color panna; poi, all’improvviso, scoppiò a ride­re di gusto, e senza volere anche io distesi le labbra in un sorriso. Cercai di seguire il suo sguardo per capire cosa mai lo avesse fatto sbellicare in quel modo, ma l’unica cosa che vidi fu quel catorcio bianco che ripartiva, con la vernice scrostata, i vetri sudici e uno stupido adesivo sul lunotto che se lo leggevi a testa in giù diceva se riesci a leggere qui dammi una mano. Mi voltai a guardare il mio amico.

    «Ce ne andiamo?», feci. Lui sembrò finalmente rilassato.

    «Va bene»

    «Se vuoi ceniamo insieme. Tanto sono solo», proposi.

    «Okay». Sorrise.

    «Sono contento che stai bene», gli dissi, e sorrisi a mia volta. Sapevo cosa dovevo fare: estrassi dalla tasca il telefono e iniziai a scrivere. Erano le otto e un quarto. Inviato il messaggio, iniziai a distendermi anch’io. La pioggia era praticamente cessata. Dato uno sguardo indietro, vidi che l’agente di prima stava correndo verso la nostra parte di strada, allontanandosi da un’Ape parcheg­giata alla fine della curva. Ce ne andammo prima che venisse a rimproverarci di nuovo.

    7.

    C’è gente che sostiene – quasi vantandosene, a dir la verità – di non sognare la notte. E anche se lo facessi, la si sente blaterare, non mi ricordo mai niente al mattino. Io non sono un fan dei pi­solini pomeridiani, ma stavolta grazie al malloppo di economia credo di essermi iscritto al circolo. Volto il capo: il portatile ronza sul tavolo. Una volta aperto, vengo a scoprire senza troppi preamboli che sono praticamente le otto. Avevo messo un promemoria su iCal: eccolo lì, che lampeggia al centro dello schermo. Quando uno ha bisogno di un’applicazione per ricordarsi di fare la doccia, significa che nella propria vita c’è qualcosa da riordinare, e alla svelta. Non c’entra nulla, ma non ricordo dove ho messo il cellulare. Scalzo via il cuscino dalla poltrona davanti alla tv: sotto non c’e niente, solo una cartaccia di un Fettallatte. Una mia compagna di corso odiava a morte quella pubblicità con Fiona May, ma non ricordo più il motivo. Anche io non la sopportavo, ma solo perché con Fiona May ci avevo litigato quando in fila al McDonald di Roma Termini per sbaglio le avevo pestato un piede. Mentre getto via la carta nella pattumiera, ripenso a quel sogno che ho appena fatto, ed è come essere di nuovo lì.

    Io e Giacomo ci troviamo in una specie di enorme spiazzo fatto di terra battuta. Sopra le nostre teste il cielo è del colore della gra­fite, da far paura. A un certo punto Giacomo inizia a correre: mi spavento, perché si sta allontanando da me, e quel luogo mi mette angoscia. Lo seguo, sempre più terrorizzato dal fatto che non c’è un filo di vento: l’aria è immobile come al centro di un tifone. Gli chiedo dove stia andando. A vedere il nuovo campo da calcio che stanno costruendo, mi strilla, e la sua voce sembra filtrata in high­pass, come se provenisse dalla cornetta di un telefono. Non capi­sco, gli dico: qui non c’è nessuno che costruisce, è tutta terra. Mi viene quasi da piangere. Perché sta correndo in quel modo? Vieni, lo sento gridare. E continuo a non capire come mai la sua voce mi arrivi così lontana. Accelero il passo: ormai l’ho quasi raggiunto. Quando ci si mette è proprio testardo. Ricordo ancora da bambino quando i suoi genitori dovettero trattenerlo per la collottola, per evitare che andasse a vedere l’idrovora. E adesso eccolo lì, dieci metri avanti a me, la maglia rossa che gli sventola sulla schiena. Jackie, gli faccio. Non c’è niente qui. Lui mi ignora, e punta il dito avanti a sé. Quasi svengo, se fosse possibile svenire in un sogno. Giacomo se ne sta in piedi sul ciglio di una depressione geologica enorme. È una sorta di cavità nel terreno, profonda come un cratere. Non ho mai avuto i brividi così da quella volta che ho visto quel canale di scarico al Lago Berryessa, in una foto. Sembrava un buco nell’acqua, una cosa innaturale. Esattamente come questa specie di cava rocciosa. Era un qualcosa di troppo, per essere lì: assomigliava a un pessimo scherzo, più che a un paesaggio. Era come un altipiano in negativo, come la parete interna di una montagna: dava fastidio a guardarla. Eppure vedo Giacomo che si affaccia oltre il bordo, e non riesco a non imitarlo. Ha ragione. In fondo, minuscolo come una trapunta in confronto al cratere, c’è un rettangolo verde d’erba. Mi chiedo chi mai avrà il coraggio di andare fin laggiù per una stupida partita di calcio, a giocare sorvegliato da quelle mura di roccia. Giacomo mi indica una specie di scala intagliata oltre il bordo, e mi intima di scendere giù. A malincuore faccio come dice, sbriciolando pietruzze sotto le suole, raspando con le dita sulla parete di roccia di quella cengia, senza il coraggio di voltarmi verso il centro del burrone. Sono lì che stringo i denti, lottando con tutto me stesso contro l’impulso di urlare, quando mi accorgo che c’è qualcosa di diverso. Si è alzato il vento, e qualcosa mi sta iniziando a picchiettare contro i polpacci scoperti. La folata sta sollevando i sassolini dalla superficie di roccia su cui sto camminando. Jack? mi ritrovo a gridare. Per tutta risposta il vento diventa più rabbioso. Giacomo non risponde. Vengo colto da brividi, anche se il soffio che mi colpisce il collo è tiepido, quasi piacevole, come se provenisse da un phon. Mi viene la pelle d’oca: insieme al vento si sta innalzando qualcos’altro nell’aria, come un ronzio, una specie di canto profondo. Non riesco a resistere: volto la testa verso la parete opposta della cava, distante chissà quanti chilometri. Oltre ad essa il sole è una palla lattiginosa dietro le nuvole sfilacciate dal maltempo, scure come l’asfalto. Socchiudo gli occhi, in piedi su quella cornice di roccia: il vento mi soffia sugli occhiali miriadi di sassolini, ghiaia sparata a velocità inimmaginabile che mi tempesta le guance e la fronte. Ghiaia proveniente – penso con una punta d’orrore – dalla parete opposta di quella enorme cava. Portato dal soffio deciso del vento, continua quel rumore grave e incalzante, così simile a un didgeridoo, quell’aggeggio che gli aborigeni ci soffiano dentro e pare il corno da nebbia di un transatlantico. È solo quando mi rendo conto che quel suono è il Requiem della colonna sonora di 2001: Odissea nello Spazio che, senza troppe cerimonie, dal bordo frastagliato della cava, dritto davanti a me, sorge un oggetto nero come l’ombra, stagliandosi contro il sole, sospeso a mezz’aria. È il monolito del film, penso, delirante e in preda a quel terrore che ti fa lacrimare gli occhi. Ed è venuto fuori – aggiunge la mia mente, bieca – proprio nel momento in cui hai pensato al film. Solo che non ha una forma definita: è triangolare, o a piramide, non riesco a capire bene. È tutto sforacchiato e sfrangiato, come se le intemperie non avessero fatto altro che sbranarselo per milioni di anni: vedo il sole mandarmi bagliori attraverso di esso. In quel momento il Requiem mi trapana le orecchie, e io, sforzandomi per non farmela addosso, mi volto verso Giacomo, che è rimasto imbambolato sul bordo, pochi metri sopra di me. Jack!, strillo, e a malapena riesco a udire la mia voce, sepolta in mezzo a quelle urla dissonanti. Chi l’ha composta questa musica?, mi ritrovo a chiedermi. E poi un pensiero: Mic lo saprà di certo. Mentre sono lì, schiacciato contro la parete di roccia, il viso bersagliato dalla ghiaia, grido un’ultima volta a Giacomo, e lui si gira verso di me. Ha gli occhi fuori dalle orbite, e lo sento bestemmiare: poi la bocca rimane spalancata in una ‘O’ immobile. In quel preciso istante sento che sto per impazzire, e un attimo prima che la mia sanità mentale vada a farsi friggere, come per rigetto apro gli occhi e mi sveglio, aggrovigliato nel piumone. Mi ci sono voluti dieci minuti buoni per calmarmi, sembrava che avessi un rave party dentro la gabbia toracica. Anche adesso, a ripercorrere tutte le fasi di quel sogno assurdo, mi sento leggermente a disagio. Con una manata accendo sei o sette luci nel corridoio: non è che sono solo in casa, ma la compagnia che ho non è molto rassicurante. Vero, non c’è nulla di cui aver paura, ma in ogni caso un’ottantenne in poltrona non ha il carisma di Danny Trejo.

    «Nonna!». La mia voce, baritonale e un po’ cementata dal piso­lino inopportuno, si perde in un’eco secca per tutta la casa. Con un gemito mi ricordo che non solo dovrò farmi da mangiare da solo, ma anche lavare i piatti del pranzo. E i miei torneranno al massimo tra un’ora. Metto le mani a imbuto attorno alla bocca, e chiamo di nuovo. Vedo la porta della sua camera, socchiusa, dalla cui apertura si allunga un sottile trancio di luce aranciata. Mia nonna ha l’Alzheimer, nel caso vi interessi. È iniziato quando io ero alle medie. Era sempre stata smemorata, quindi non ci avevo fatto caso, al principio. Adesso passa quasi tutta la giornata in pol­trona, a guardare fuori dalla finestra. Se le accendi la televisione, si mette ad urlare. È sensibilissima ai rumori forti. A volte però insi­ste per vestirsi elegante perché pensa che debba arrivare Carlo Conti. Io non mi ci metterei mai in ghingheri per Carlo Conti, tra l’altro. Non riconosce quasi nessuno, mio padre a volte lo scambia per il fattore che abitava vicino a casa sua quand’era piccola. È solo questione di mesi prima che smetta completamente di camminare. A farla mangiare ci pensano i miei, per fortuna. Più che altro per­ché loro sanno quali sono tutte le menate da cucinarle, e roba va­ria. Non fraintendetemi, a me piace venire qui. È calmo. Mi rilassa e mi rattrista allo stesso tempo, ma è molto bello. Ci si riesce a stu­diare molto bene. Spesso vado in camera di nonna, e restiamo lì, in silenzio, ad ascoltare i Sigur Ròs. Io col libro di Estetica sulle gi­nocchia, lei con le mani in grembo, grinzose come corteccia.

    «Nonna?». Anche adesso, quando spingo la porta di legno, lei è sempre lì. Vedo solo lo schienale rosso della poltrona, e la mano di lei appoggiata sul bracciolo. Sembra il cattivo di un film di gang­ster. Mi viene da ridere, ma il buio fuori dalla finestra, viola­ceo come un livido su uno zigomo, mi ferma la risata in gola. Mi cade di nuovo lo sguardo su quella mano rugosa, antica, immobile sul tessuto ruvido della poltrona.

    «Nonna, sei sveglia? Sono io», dico, non esattamente convinto. Se cercate la definizione del termine nonchalance su Wikipedia, non troverete il campione audio della mia voce. Sento qualcosa che picchietta contro il vetro: sta iniziando a piovere, e nemmeno poco. Tra poco ci sarà da divertirsi: concerto per tuoni e strilla in re minore.

    «Nonna? Tutto bene?». La mano resta al suo posto. Merda. Il cuore inizia a farmi poliritmie nelle vene del collo. Merda, mi ripe­to di nuovo. È andata. E io non me ne sono nemmeno accorto. Nel pomeriggio mia madre mi aveva chiamato al cellulare, e mi aveva chiesto come stava la nonna: quando ero andato a vedere era nella stessa posizione di adesso. In un film sarebbe stata una scena per­fetta: la macchina da presa che mi segue mentre, col telefono inca­strato tra spalla e guancia, vado a controllare. Poi apro la porta, e in fondo alla stanza ecco la poltrona davanti alla finestra, con la mano di lei artigliata al bracciolo. Sì, la nonna sta bene, è qui in camera, dice il mio personaggio, e mentre esce dall’inquadratura la macchina da presa rimane ferma a mostrare lei . A quel punto lo spettatore diviene onnisciente e dirà a se stesso cazzo, è morta e quel coglione non se n’è reso conto! Pure io me ne sarei accorto, a vedere un film del genere. Avrei inveito contro il protagonista. Pic­colo post-it mentale: nella realtà, a volte la gente è più rincoglioni­ta dei personaggi di un horror. Come a Jeepers Creepers : perché cazzo devi andare a vedere nel tubo che scende sotto la chiesa diroccata? Ho odiato Justin Long, in quel film. E adesso io sono l’esempio fatto e finito del protagonista sconsiderato. Certo, poteva andarmi peggio. Potevo non essermi accorto, che so, di un vetro rotto in cucina mentre fuori c’è un invasione di zombie, invece ho semplicemente ignorato mia nonna morta sul divano da, quanto? Quattro ore? Merda. E adesso, come se non bastasse, devo pure avvicinarmi a lei per controllare definitivamente, con la strizza che si giri di colpo come nel più bieco degli horror. Magari gridando Chtulu. Cazzo. Da piccolo una volta mi ero quasi cagato addosso dalla paura quando mio padre mi leggeva Tom Sawyer . C’è un punto in cui lui e Huckleberry Finn vanno a cercare un teso­ro alla Casa Muta, e quello stronzo di Finn dice qualcosa come pensa se dalla terra sorgesse un teschio e si mettesse a parlare. In quel momento io, con la coperta tirata su fino al naso, mi stavo immaginando la scena, e mio padre ebbe la magnifica idea di fare un verso improvviso per imitare il suddetto teschio. Cacciai un urlo così acuto che i cani del circondario si agitarono nel sonno, ne sono sicuro. Da allora ho avuto una sorta di amore-odio per gli horror, la suspance e quant’altro. Ci sto facendo la tesi per la lau­rea breve, infatti. Ops, prova finale. Il mio relatore si incazza sempre ogni volta che dico tesi. Ma basta parlare di cose inutili, pensiamo alla nonna morta . Dio, sto uscendo di testa dalla tensio­ne. Il cervello mi sta viaggiando a 120 fotogrammi al secondo, e io son sempre qui, in piedi sulla soglia, a fissare quello schienale ros­so davanti a quel riquadro d’ossidiana incorniciato dalla finestra. Mi avvicino. Il parquet scricchiola sotto le suole come un fascio di sedani. Provo a deglutire ma la mia laringe è stata sostituita da carta moschicida. Sul letto qualcosa manda un rumore ovattato: ecco dove avevo messo il cellulare. Era rimasto lì, vicino all’iPod ancora collegato alle casse, quando stamattina ero venuto per farle sentire un po’ di Satie. Il display si è illuminato. Probabilmente sa­ranno i miei che mi cercano di nuovo. Come diavolo faccio a dir­glielo? Pelle d’oca. Mando un lungo sospiro e distolgo lo sguardo dal telefono. Sento la mia colonna vertebrale che comincia a vibra­re. È un’espressione che un mio amico lituano usò per descrivere le sue sensazioni all’ascolto di un brano black metal. Ed è esatta­mente la stessa cosa che sto percependo io, scosso da brividi che non riesco a controllare. Ma tu guarda che buffo, sto usando i miei compagni di corso come spunti narrativi. Sposto avanti un piede, e l’asse del pavimento mi ringrazia con un cigolio sommesso; quan­do allungo il collo per sporgermi verso la poltrona, la stanza viene sbiancata da un lampo improvviso. Mentalmente conto i secondi: il tuono arriva puntuale, rombante, e in quel preciso istante la voce di mia nonna si fa sentire.

    « Silenzio». È solo un bisbiglio, ma riesco a leggervi un lucido rancore sotto la superficie. Mi scappa un sorriso, e caccio un sospi­ro di sollievo a dir poco mastodontico.

    «Nonna… tutto bene?», le chiedo. Mi trema la voce.

    «Silenzio!», ripete lei, e la rapidità della sua risposta mi scon­certa.

    «Come?»

    «Tutto questo chiasso…», mormora. Avrei dovuto immaginar­lo. Beh, che si diano inizio alle danze. Mi chino accanto a lei, e fi­nalmente le vedo il viso, gli occhi azzurri incastonati in fondo a or­bite infossate, puntati sui listelli della finestra.

    «Nonna, è il temporale… ci saranno un po’ di tuoni, ma non devi aver paura, okay?». Stavolta non risponde. Mi alzo facendo scrocchiare le ginocchia e prendo il cellulare da sopra il materasso. C’è un messaggio di mia madre, nel secco stile stenografico di chi si ostina a non voler imparare a scrivere col dizionario T9. 15 min arriviamo , dice. Che meraviglia, ancora non ho cenato, chissà come saranno contenti di trovare tutto in disordine.

    «Nonna, vado un attimo in cucina, va bene? Stai tranquilla». Nessuna risposta. Che mi dovrei aspettare? Mi caccio in tasca il te­lefono e corro in tempo record fuori dalla camera. Mentre sono lì che infilo alla bell’e meglio i piatti nella lavastoviglie, sento di nuo­vo mia nonna che dice silenzio, stavolta in un bercio che fa a gara coi tuoni. Con gli occhi sgranati, mi asciugo le mani a un grembiu­le appeso accanto allo stipite, e vado a vedere che succede. Il brac­ciolo della poltrona ora è vuoto. Mi faccio avanti e vedo che la non­na tiene le mani giunte in grembo, come quando ascolta la musica.

    «Nonna, che succede? Mi hai spaventato». Silenzio. Non lo dice lei, c’è proprio silenzio assoluto. Si sentono solo i colpetti insistenti delle gocce d’acqua sui vetri.

    «Nonna?», ripeto. Lei muove impercettibilmente il braccio de­stro, come per togliersi di dosso un insetto.

    «Tutto questo baccano… tutto questo chiasso». Ha la voce ruvi­da come il suo viso. Ci sono decenni su decenni, in quel timbro in­certo e arrancante.

    «Nonna, è il temporale, te l’ho detto»

    «No…»

    «Vuoi che resti qui con te? Ti faccio compagnia. Metto Thomas Newman, che ti piace tanto», azzardo.

    «No… digli di fare silenzio», ripete lei. Sospiro.

    «Ascoltami, nonna… non posso far smettere il temporale. Mica sono Lucy Van Pelt. Passerà… non ti devi spaventare». Mi chiedo se per caso in casa ci siano dei tappi per le orecchie. Non farebbero male, per stanotte… A entrambi. Prevenire è meglio che curare.

    «Di’ loro di fare silenzio», borbotta lei.

    «Loro chi?»

    «I tuoi amici… fanno sempre baccano… in giardino. Non è edu­cato», bisbiglia. Mi si fa luce nella mente: è probabile che si ricordi di quando da piccoli io e Jackie le tiravamo le felloie dalla finestra. Che merde. Sorrido e mi accuccio davanti a lei.

    «Nonna, stai tranquilla… non ho portato i miei amici»

    «Non mi piacciono le loro battute, con quello spirito piriforme…»

    «Non ho portato i miei amici, non ho portato nessuno», ripeto, con voce calma. Piriforme? Ma di che sta parlando? «Ci sono sol­tanto io, qui», dico.

    «E chi è allora quello che mi guarda dal vetro?». Il sangue mi si trasforma in un prodotto surgelato della BoFrost, in un Polaretto, quello che volete. Vi ho detto della mia relazione complicata con la suspance nei film? In questo momento sto desiderando con tutto il cuore di essere in un altro posto, anche alla prima di Troppo Belli , piuttosto che dare le spalle alla finestra. Inizio a sudare freddo. Raduno le forze per aprire la bocca.

    «Nonna, ma che dici?». Che voce a mongolo. Faccio ridere i polli. Lei volta gli occhi verso di me, spaventata e indignata, come una bambina.

    «Viene tutti i giorni a guardarmi. Digli di smetterla». Ecco un buon momento per farsi venire un infarto. Non sul palco come Feiez, buonanima. E invece me ne sto qui come un coglione, quan­do dietro di me c’è… non c’è nessuno, per la puttana, che cavolo mi viene in mente di agitarmi così? Ma ancora non mi volto indietro, guardo solo gli occhi di mia nonna, e in fondo a quelle orbite livide c’è un disagio vivo, vero, palpabile. Sarà anche malata, ma se ci fosse effettivamente qualcuno affacciato alla finestra? Se quando mi volto vedo una fottuta faccia incorniciata dai listelli di legno delle imposte? Merda. Sento il cellulare vibrarmi di nuovo in tasca, ma non mi muovo di lì. Se morissi di schianto, qui, adesso, non dovrei sopportare ulteriormente questa tensione. Ma morire non è mai una buona idea. Chi lo diceva? Non mi ricordo. Ci sono cose che non sapremo mai, credo.

    «Nonna…», riesco a balbettare. « Chi viene a guardarti dalla fi­nestra?». Lei prende fiato, con lentezza esasperante, e poi parla di nuovo, con quella voce raschiosa, ruvida come carta vetrata ma au­tentica come una vecchia statua greca.

    «Non lo so… Ma forse lo conosco»

    «È ancora qui?»

    «No». Lo dice decisa, quasi annuendo. Mi volto a guardare. Se ci fosse stato effettivamente qualcuno, sarebbe stato un ottimo scherzo da parte sua, ma aveva ragione. Oltre al vetro c’è solo buio. Anzi, avevo ragione io: si stava solo immaginando tutto, e io con lei. C’era di positivo che grazie a questa simpatica conversazione non aveva urlato per un po’.

    «Ma è un uomo?», le chiedo, conscio dell’assurdità della cosa.

    «Sì. L’altro giorno invece c’era un coniglio»

    «Che?»

    «Un coniglio. Dietro le tende. Lo vedo tutti i giorni». Ecco. Ca­somai mi servissero altre prove che sta semplicemente dando di matto, questo pastiche tra Donnie Darko e Il Sesto Senso è quella definitiva. Queste uscite misteriose dovevano essere una cosa co­mune in ambito senile: la mia defunta nonna materna, da quello che mi raccontava sempre mia madre, si era spenta gradualmente in un letto striminzito continuando a ripetere per mesi le solite due lugubri parole: " Quella donna ". Roba da film. Mi alzo in piedi, un po’ più rilassato stavolta.

    «Va bene nonna… ora sai che si fa? Arriva il babbo e gli raccon­tiamo tutto, così scaccia conigli, spioni e quant’altro, okay?». Lei manda un borbottio dei suoi in risposta, e rimette la mano sul bracciolo. Io infilo la mia in tasca per prendere il telefono ed

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1