La sirena della fabbrica
By Bona Fiori
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La sirena della fabbrica - Bona Fiori
Bona Fiori
La sirena della fabbrica
Argot edizioni
© Argot edizioni
© Andrea Giannasi editore
ISBN 9788899735524
A mio marito Nino e alle mie figlie, Donata e Mariachiara.
«Volarono anni corti come giorni» di Eugenio Montale da Meriggi e ombre
.
Prefazione
Diverso il mio paese, cresciuto lungo una valle stretta tra monti e poggi, percorsa da un fiume spesso irrequieto. Là ho imparato a sopire le mie ribellioni, a lenire il bruciore di ciò che sentivo come ingiustizia, ad ammorbidire l’aridità della solitudine ed assorbire le lacrime, pedalando, furiosa, sulla mia bici,
assecondando le curve ombrose dei colli.
( Il mio paese).
Con queste parole Bona Fiori riassume in modo puntuale, anche se inconsapevole, il contenuto del suo libro di racconti. Essi infatti costituiscono, nel loro insieme, una specie di romanzo che, partendo dall’ infanzia, attraversa l’adolescenza fino a giungere alle porte dell’età adulta, rivelandoci ansie, curiosità, gioie e difficoltà tipiche di ogni momento vissuto.
Il tutto avviene sullo sfondo di Fornaci di Barga, paese cresciuto in fretta attorno alla fabbrica
, la Società Metallurgica Italiana, che aveva trasformato il preesistente piccolo borgo di case in un ambiente organizzato con scuole, cinema, stazione, alloggi per i dipendenti, impiegati e operai, un grande campo con gli impianti sportivi in cui trascorrere il tempo libero, uno spaccio per acquisti di vario genere e molto altro. La vita dell’intero paese era inoltre scandita dal suono della sirena della fabbrica che annunciava i vari momenti della giornata di lavoro. Un ambiente ordinato, anche troppo, se si pensa alla rigida separazione imposta tra le diverse classi a seconda del ruolo ricoperto in fabbrica, in una gerarchia rigida e inflessibile, in cui anche le mogli e i figli assumevano lo stesso grado del capofamiglia.
Ma appena fuori dal paese si trovava subito la campagna, dove la modernità non era arrivata e dove Bona osservava un modo di vivere più semplice e autentico. Davanti ai suoi occhi di bambina si offriva una natura ancora intatta, selvatica e affascinante, dove fare scoperte sempre nuove e entusiasmanti, un mondo pieno di dolcezza e di magia come quello delle fiabe, ma anche protettivo e sicuro.
Era un mondo ovattato, soffice e fresco come il muschio che copriva il terreno. I boschi si stendevano senza confini, in salita o sprofondando in grotte e gole improvvise. Era un mondo selvaggio, ma ogni anfratto poteva essere anche un rifugio. Non lo temevo. (Il mio paese)
Quel mondo diventa la meta prediletta di Bona ed Elena, l’amica del cuore, una bambina decisa e coraggiosa, molto diversa da lei, che però le trasmette il gusto per l’avventura e la sprona ad essere sempre se stessa.
Elena le resterà accanto anche durante l’adolescenza e a lei Bona confiderà i pensieri più segreti, quelli che non avrebbe potuto mai affidare ad un diario segreto, perché non avrebbe potuto conservarlo in un cassetto tutto per sé, senza il pericolo che venisse letto dalla madre.
Con quest’ultima Bona ha un rapporto contrastato, come tutte le adolescenti del resto. Appartengono a generazioni troppo distanti tra loro, hanno caratteri diversi, tanto amante delle formalità la madre, quanto desiderosa di libertà la figlia. Anche col resto della famiglia Bona ricorda di aver avuto un rapporto distaccato, dovuto anche alla rigidità dell’educazione che le era impartita, tipica delle famiglie di un certo ceto sociale. Soltanto da adulta Bona riuscirà ad avvicinarsi ai genitori ormai anziani e a riconoscerne pregi e difetti con un senso di compassione affettuosa.
E poi troviamo gli abitanti del Casermone
, la palazzina dove abitavano gli impiegati con le loro famiglie, i bambini suoi compagni di gioco, le amiche della madre, le domestiche tuttofare e i negozianti storici di Fornaci, tutti ritratti nelle loro caratteristiche peculiari in modo affettuoso e spesso divertente.
E ancora ci sono i ricordi della guerra vista con gli occhi di una bambina a cui tutto sembra un gioco innocente, ma che intuisce la presenza del male dai volti preoccupati degli adulti.
Quando parla dei suoi primi anni di vita l’autrice dimostra di saper recuperare la spontaneità e la freschezza delle immagini e delle espressioni tipiche dell’infanzia, rendendoci così i suoi ricordi particolarmente vicini e vivi.
L’infanzia è infatti la stagione della sua vita che predilige, un momento bello e luminoso che sembra osservare ancora con una certa nostalgia, come nel racconto Luce.
Possibile ci fosse sempre il sole o fosse sempre estate? No, gli autunni a Fornaci erano lunghi e piovosi, in inverno il monte Gragno incombeva cupo sopra la valle lunga e stretta, sbarrando la strada ai raggi caldi del sole. Poi c’era la nebbia, una coltre bianca, spumosa, sino alla prima curva di Castelvecchio. Restava ostinata, per ore, a volte per giorni, un manto uniforme, da un capo all’altro della valle del Serchio.
Eppure io vedo me bambina sempre immersa nella luce, come sul palcoscenico di un teatro o su un set cinematografico, sotto il faro di un riflettore abbagliante, incerti i contorni delle cose intorno, come nelle fotografie sopraesposte.
Chi legge questo libro potrà ritrovarvi così una galleria di personaggi, conosciuti e non, in un quadro assai ricco della Fornaci del dopo guerra e degli anni Cinquanta, ma anche e soprattutto il racconto della crescita e della formazione interiore di una persona durante il viaggio, sempre interessante e mai troppo scontato, della vita.
Paola Stefani
Io sona nata qui
Sono nata durante la guerra qui, a Fornaci di Barga, piccolo paese dell’alta valle del Serchio, ai confini con la Garfagnana. Tre o quattromila abitanti, quasi tutti dipendenti di una fabbrica di manufatti siderurgici e di materiale bellico, la SMI, per antonomasia la fabbrica
.
La valle del Serchio è lunga una quarantina di chilometri ed è particolarmente stretta in Garfagnana, dove il fiume scende impetuoso come un torrente, si allarga poi, e il Serchio scivola sempre più placato verso la città di Lucca.
Sull’altra sponda del fiume, di fronte a Fornaci, sorge un paesino ancora più piccolo, Bolognana, ai piedi del monte Gragno. I due paesi sono quasi tutto il giorno all’ombra e in autunno nella nebbia. Bisogna salire sui poggi, sui colli, o meglio, su a Barga, a quattrocento metri di altezza, per avere il sole pieno e spaziare con lo sguardo lontano, fino alle Apuane. Il nome Fornaci viene dalla fornace di mattoni aggrappata alla riva di un corso d’acqua, poco più di un torrente, l’Ania, che ha usufruito della terra argillosa del luogo da tempo immemorabile. Il vecchio paese sorto per merito della fornace c’è ancora: un dedalo di viuzze larghe un metro e un mucchietto di case grigie, fatte con i sassi del fiume, pigiate sul fianco del colle appena sopra la piana del fiume.
La SMI fu costruita proprio sul greto del Serchio, probabilmente per sfruttarne l’acqua e la corrente. Il paese nuovo le crebbe non intorno ma in parallelo, le case una accanto all’altra, in una fila abbastanza ordinata, lungo la strada che porta in fondo alla valle, dove poi si divarica: o si sale in Garfagnana o verso le colline tanto amate dal Pascoli.
Anche la linea ferroviaria segue il corso del Serchio e la stazione di Fornaci guarda verso il fiume che scorre pochi metri più in basso. Dalla stazione parte un bel viale alberato, fiancheggiato dalle ville dei dirigenti della SMI, dalle palazzine degli impiegati e il grande edificio che ospitava l’asilo, le scuole elementari e medie, e il cinema-teatro. Venne costruito anche un albergo per gli impiegati scapoli e per i visitatori occasionali, con un ristorante per i pranzi di rappresentanza o di affari. Le case operaie sorsero più lontano, oltre la fabbrica. Il viale della stazione, Viale Cesare Battisti, si immetteva nella strada principale, Via Nazionale, ora Via della Repubblica, la strada dei negozi.
Col tempo in paese furono aperti tanti negozi e bar (affollatissimi quando arrivarono le prime televisioni), ma mia madre per qualsiasi spesa che non fosse cibo si recava in città, a Lucca. Lei veniva da Ferrara e aveva vissuto a Torino, a Fornaci di Barga si è sempre sentita un po’ in esilio.
Sono nata e cresciuta sul piazzale, davanti al campo sportivo, detto il Campone
, poco lontano dalla stazione ferroviaria, da dove mi arrivava il ciuf ciuf della locomotiva a carbone e io guardavo i pennacchi di fumo espandersi e dissolversi nel cielo. Quando il Serchio era in piena udivo il suo ruggito sommesso e costante. Al di là del fiume il monte Gragno mi sbarrava deciso l’orizzonte.
Partigiani
La villa è grande, massiccia, quadrata. È situata in alto rispetto alla strada che va a Filecchio ed è circondata da un vasto giardino digradante. L’ho rivista finita la guerra, più e più volte, e ogni volta ho osservato con curiosità e sgomento quella facciata, interrotta da un balconcino abbracciato da ghirigori in ferro battuto, deturpata da buchi e slabbrature nell’intonaco.
È stata lasciata così a ricordo di quella notte o per incuria?
Io e la mia famiglia abbiamo vissuto alcuni giorni nella villa, ospiti del podestà, amico di mio padre. Eravamo sfollati, fuggiti dalla nostra casa dopo un massiccio bombardamento da parte degli inglesi sulla fabbrica. Io avevo due anni, ma la sensazione di un ricordo preciso, scandito nei tempi e dai suoni, non mi ha mai abbandonato.
Voci concitate, trambusto, sbattere di porte. I miei genitori, ormai svegli, che parlottano tra loro, mio fratello che chiede che c’è, io che voglio continuare a dormire.
Tutto è confuso, ovattato, lontano, io non sono spaventata.
Poi la raffica secca di proiettili contro la casa, un urlo di donna, un’imposta che si apre con violenza e la voce dura, minacciosa di chi è abituato al comando, ribollente di rabbia, del padrone di casa e, subito dopo, colpi di pistola. La moglie e le figlie trascinano via dalla finestra il podestà e chiudono l’imposta.
La mamma è seduta sul bordo del letto, mio fratello, il volto chiuso, le si appoggia contro, io mi riaddormento.
Il giorno dopo ci trasferimmo lontano dalla villa, in un casolare di contadini, l’Ettore e l’Adele, ai margini del paese di Filecchio. I partigiani avrebbero potuto tornare.
Dopo la guerra i partigiani non avrebbero perdonato a mio padre quell’amicizia e lui dovette subire un processo. Alla fine fu chiaro che da parte di mio padre si era trattato solo di imprudenza.
La linea gotica
Un rombo come di tuono lontano. La gente esce per le strade e alza gli occhi al cielo, allarmata. Gli aerei inglesi vengono a bombardare la fabbrica, laggiù nella valle. Da mesi continuano a provare a colpire lo stabilimento e gli aerei arrivano a stormi, come uccelli maledetti, a volte ad intervalli regolari, quasi prevedibili, ma a volte no. Ed è il terrore, le bombe cadono dappertutto, sul fiume, sulle prode, sui fianchi del monte. Poche, per fortuna, perché è molto incassata, sulla fabbrica, dove gli uomini lavorano notte e giorno per fornire l’esercito di materiale bellico. Le famiglie degli impiegati e degli operai sono quasi tutte sfollate. Io sono con mia madre e mio fratello a Filecchio, un pugno di case contadine costruite su un colle coperto di castagni, duecento metri sopra Fornaci. Qualche bomba centra il bersaglio e dopo l’esplosione noi da Filecchio vediamo il fumo dell’incendio salire verso di noi.
La paura allora si trasforma in disperazione: dove ha colpito? chi ha colpito?
Papà è laggiù, è responsabile proprio del reparto che produce munizioni. È stato assunto quando ancora nessuno parlava di guerra. Aveva 25 anni, aveva conosciuto la mamma nella loro città, Ferrara, e avevano subito deciso di sposarsi. Erano arrivati insieme, senza viaggio di nozze, senza una casa. La mamma, più tardi, mi avrebbe detto che non aveva mai pensato che quel posto avrebbe potuto non piacerle. Questo era successo nel ‘35, adesso eravamo nel ‘44 ed eravamo nati sia io che mio fratello.
Bombardano. Si sentono gli aerei arrivare da lontano. Si abbassano, sono sopra di noi. Suonano le sirene della fabbrica per lanciare l’allarme. Gli aerei ci hanno sorvolato, puntano alla fabbrica, si abbassano finché possono, dove il fiume si allarga. Qualcosa fischia nell’aria, poi i boati provocati dallo scoppio delle bombe fanno eco in tutta la valle
Anche noi siamo in pericolo: gli americani, e con loro inglesi, indiani, africani, hanno spinto i tedeschi ad una fuga disperata verso Nord e adesso i due eserciti si stanno incontrando e scontrando qui, sulla cosiddetta linea gotica. Si sparano da una collina all’altra, dalla riva di un torrente all’altra, con mortai e cannoni. Filecchio e altre frazioni nel mezzo.
I tiri si fanno sempre più fitti e precisi, i soldati più vicini. Si deve scappare. La mamma non sa decidersi, vorrebbe aspettare papà, spera che lui ci raggiunga, che almeno mandi qualcuno a dare notizie.
Bagliori bianchi, gialli e rossi salgono dalla valle, seguiti da forti boati. I contadini si muovono veloci e decisi: nascondono fagotti, fanno buche negli orti per seppellire oggetti, accudiscono le bestie. Pensano anche a noi e la mamma poi ritroverà le sue poche cose preziose in un buco nascosto da mattoni e le provviste del mercato nero interrate in cantina.
Un operaio, trafelato per la corsa, porta notizie dalla fabbrica, papà ci raggiungerà, ma noi, intanto, dobbiamo andare via. Ci uniamo al gruppo che si sta incamminando, come per una processione. Io sono in braccio a qualcuno, forse a Virginia, la ragazzina che accudisce me e mio fratello, la mamma trasporta una valigia, mio fratello, di fianco a lei, spinge la mia carrozzina piena di ogni ben di dio.
È primavera, non