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Figli della Jugoslavia: Il calcio slavo dopo la tempesta
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E-book139 pagine1 ora

Figli della Jugoslavia: Il calcio slavo dopo la tempesta

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Info su questo ebook

Dopo FOOTBALLSLAVIA, Danilo Crepaldi, ci riporta nei Balcani, una terra che produce più storia di quella che riesce a consumare. Dopo la disgregazione della Jugoslavia ancora una volta il calcio s'intreccia alla politica ed alla storia dei nuovi stati slavi in maniera viscerale venendo usato dal potente di turno per i propri interessi personali. In questo libro Crepaldi Danilo ci racconta il difficile rapporto fra calcio, tifo e politica in una parte di mondo che non sembra volere e potere trovare un equilibrio definitivo.
FIGLI DELLA JUGOSLAVIA è il fedele resoconto, storico-calcistico della storia balcanica dopo lo scioglimento della Jugoslavia. Una storia che, ancora oggi, è profondamente legata al ricordo dello stato socialista governato da Tito.Una storia di calcio, guerre e violenze che sembrano non voler dar pace agli ex cittadini jugoslavi.
LinguaItaliano
EditoreStreetLib
Data di uscita10 dic 2017
ISBN9788827531259
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    Anteprima del libro

    Figli della Jugoslavia - Danilo Crepaldi

    Danilo Crepaldi

    FIGLI DELLA JUGOSLAVIA

    Il calcio slavo dopo la tempesta

    UUID: 4fb5635c-dced-11e7-ae13-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Ringraziamenti

    Alla mia famiglia....

    INTRODUZIONE

    12 Febbraio 2003

    Il 12 Febbraio 2003 è una data che, da un punto di vista storico, non sembrerebbe avere grande rilievo; eppure nei Balcani è una data che in pochi non ricordano. Quel Mercoledì si giocava a Podgorica, attuale capitale del Montenegro, la partita valevole per le qualificazioni ai campionati europei di calcio di Portogallo 2004 fra le rappresentative nazionali di Azerbaijan e Jugoslavia. Jugoslavia che aveva cessato di esistere da più un decennio ma che ancora, almeno nominalmente ed a livello calcistico e sportivo, continuava ad esistere; ancora in Europa si continuava a parlare di calcio jugoslavo e la Repubblica Federale di Jugoslavia formata solo più da Serbia e Montenegro sembrava poter dare, almeno a livello sportivo, una continuità a quella che fu la Repubblica Popolare Socialista di Jugoslavia quella del Bratstvo i Jedinstvo che di unità e fratellanza fra gli slavi del Sud non aveva più nulla. Nessuno sapeva ancora che quel giorno sarebbe stato l'ultimo in cui uno speaker all'interno di uno stadio avrebbe scandito il nome Jugoslavia; nome che qualcuno cominciava ad associare ad un sentimento di nostalgia che pochi anni dopo si vedrà assegnare un termine nuovo e tutto suo, jugonostalgija. Termine cognato proprio per dare una nomenclatura precisa a tale sentimento di nostalgia per il passato comune jugoslavo. L'ulteriore divisione che avrebbe diviso ancor di più i territori dell'ex stato slavo, fra la Serbia dal Montenegro era ancora lontana tre anni ma il nome Jugoslavia si congedò dall'Europa, dalla storia, dalla politica, dallo sport e soprattutto dal calcio proprio in quella tiepida sera di fine inverno.

    L'ultima partita dei plavi fu una partita triste, un anonimo pareggio contro l'Azerbaigian, nazionale giovane nata dallo sgretolamento dell'Unione Sovietica, non certo una squadra che sedeva nell'Olimpo delle grandi del calcio. La Jugoslavia, o quel che rimaneva, riuscì a portarsi in vantaggio per 2-0 grazie alla rete di Mijatovic su calcio di rigore ed ad un gol fantasma di Lazovic che scatenò le proteste degli azeri, salvo poi venire rimontata dalle reti di tal Gurbanov.

    Quel giorno a differenza del 4 Maggio 1980 giorno della morte di Tito nessuno pianse, in fondo la Jugoslavia era già morta da un pezzo e non aveva senso piangere in eterno un defunto; ma si dice anche che una persona non se ne va mai veramente fino a quando un pezzetto di lei vaga sulla terra. Quello fu il giorno in cui l'ultimo pezzetto di Jugoslavia si congedò dal presente per consegnarsi alla storia e lo fece in uno degli ambiti che contribuì in maniera notevole alla sua nascita ma anche alla sua morte: il calcio.

    Dalla morte della Jugoslavia sono passati ormai più di due decenni ma gli slavi del Sud sono sempre li, nei Balcani in quel lembo di terra che parte dalle Alpi slovene e va finire giù fino alla cirenaica ai confini con la Grecia, in quella terra che a Ovest è delimitata dall' Adriatico e ad Est dai Balcani. I popoli slavi sono sempre li uguali e profondamente diversi fra di loro, li pronti a guardarsi in cagnesco ma tutti ugualmente capaci di riconoscere un passato unitario che li vide grandi ed uniti. Fratelli che non sono fratelli ma forse solo fratellastri; amici che non sono amici ma semplicemente la faccia della stessa medaglia che oggi a distanza dei tragici fatti di fine anni '80 ed anni '90 hanno cominciato seppur a piccoli passi un riavvicinamento che, ancora una volta, passa inesorabilmente per il calcio, addirittura prima che dalla politica, visto che da tempo circola insistentemente la voce di una riedizione del campionato jugoslavo di calcio. Il termine Jugoslavia intanto è stato sostituito dal termine Jugo-sfera parola questa che sembra avere il potere straordinario di riavvicinare i popoli dei Balcani.

    Tanto si è scritto, fino ad oggi, sul calcio jugoslavo e tanto si è scritto sulle guerre che hanno messo fine alla Jugoslavia stessa; poco di contro si è scritto sui quasi trent' anni successivi alla disgregazione dello stato degli slavi del Sud. Che ne è stato del calcio slavo? Cosa è rimasto dello stato degli slavi del Sud?. Questo libro cercherà nel suo piccolo di rispondere a queste domande. Nel suo piccolo perché capire fino in fondo la mentalità balcanica è difficile per un ex jugoslavo figuriamoci per uno come me che un po’ slavo lo è solo nel cuore.

    ARKAN È IL PADRONE DEL CALCIO SERBO

    L'era dell'Obilic Belgrado

    Al termine della guerra sia Slobodan Milosevic, leader della Serbia, che Franjo Tudman, leader della Croazia, dovettero accontentarsi di una sorta di vittoria mutilata. I loro piani di annettersi i territori della Bosnia Erzegovina fallirono miseramente di fronte al cessate il fuoco imposto dall'ONU con a capo gli USA. Stati Uniti che distratti dalla digregazione dell'URSS e dalla riunificazione tedesca avevano sottovalutato la situazione dei Balcani che dalla morte Tito si erano lentamente, ma inesorabilmente deteriorati, trasformandosi in una bomba ad orologeria pronta ad esplodere alla minima scintilla.

    In Serbia al termine del conflitto Milosevic diventava, così come Arkan, una sorta di eroe nazionale e questo li diede il potere di proclamare la Serbia, il Montenegro, la Vojvodina ed il Kosovo come i naturali eredi della Jugoslavia, mantenendone il nome, l'inno e la bandiera senza tuttavia la stella rossa a cinque punte, simbolo del partito di Tito e per estensione del socialismo, denominata Petrokakra, al centro. Mentre Milosevic s'impadroniva del potere politico di quella che qualcuno definì la nuova Jugoslavia, il calcio serbo e montenegrino si trovò di colpo con un solo padrone Zeljko Raznatovic ovvero il famigerato Arkan.

    Arkan, aveva fatto il suo ingresso nel calcio jugoslavo nel 1989, quando era diventato il capo ultrà dei tifosi della Stella Rossa Belgrado, i cosiddetti Delije e da qui, a poco a poco, aveva attinto per creare delle milizie irregolari che durante la guerra, con il nome di Tigri di Arkan, avevano compiuto atrocità indicibili ai danni di croati, kosovari e bosniaci.

    Al termine del conflitto Arkan rientrò in Serbia dove incredibilmente i mandati di cattura internazionali per crimini di guerra neppure lo sfiorarono. A Belgrado Zeliko riuscì a diventare addirittura più potente dello stesso Milosevic reinventandosi come uomo d'affari; d'altronde i soldi, frutto delle razzie di guerra, non gli mancavano. Per prima cosa smantellò il corpo militare delle Tigri che ormai, in tempo di pace, non gli servivano più restituendo gli ultras agli stadi dell'ex Jugoslavia ed iniziò a promuovere la carriera della giovane moglie Svetlana, in arte Ceka, una nota cantante folk serba sposata durante gli eventi bellici. Investí molto sulla figura della bella consorte finanziandone di fatto la carriera tramite videoclip costosi, organizzazione di concerti e vestiti alla moda. Nel frattempo investí anche nel commercio e nel gioco d'azzardo con l'apertura di locali alla moda e casinò di lusso e nel campo edilizio. In breve tempo da signore della guerra la sua figura si trasformò in quella di un benefattore che offriva casa, lavoro e dignità al popolo serbo stremato dalla crisi, dalla guerra e dalle sanzioni ONU.

    Una cosa tuttavia era rimasta inalterata nella nuova Jugoslavia rispetto a quella vecchia e cioè la passione per il fudbal, cosí come era, ed è chiamato, in Serbia e Montenegro il calcio. A differenza della Croazia qui le squadre avevano mantenuto inalterate le proprie denominazioni e seppur in scala ridotta il Partizan e la Crvena Zvezda (Stella Rossa) erano sempre li a farla da padrone. In Europa, ormai, non contavano più niente ma entro i ridotti patri confini continuavano ad essere delle potenze. Arkan capì in fretta che se voleva davvero essere potente doveva diventare il padrone di una squadra di calcio, sapeva che il calcio aveva sempre rivestito un ruolo importante, per non dire primario, in tutta la storia recente dei Balcani; inoltre l'esempio di Berlusconi nella vicina Italia stava li a testimoniare il potere politico che il fudbal poteva dare. La sua scelta ricadde, naturalmente, sul club in cui si sentiva di casa, il club il cui nome, in Europa, incuteva ancora un certo timore reverenziale ovvero la Stella Rossa Belgrado che aveva già usato per portare a compimento i suoi piani criminosi. Nell'ufficio presidenziale dello stadio Rajko Mitic sedeva ancora il Mago dei Balcani Dragan Dzaijc, uno dei pochi che non aveva abbandonato la Stella Rossa in quello che fu, probabilmente il periodo più buio e difficile della sua storia e quando Arkan gli si parò di fronte con un offerta che pareva irrinunciabile ebbe la forza di dire no. Dzaijc doveva avere, all'epoca una coperta molto lunga perchè, in quel periodo, rifiutare qualcosa a Raznatovic non era cosa facile ma in qualche modo il presidente bianco- rosso padre della Zlatna generacija riuscì a non cedere alle lusinghe (o forse minacce) di quello che era l' uomo più potente e pericoloso del suo paese. Incassato il no dei crvena- bijeli, Arkan spostò le sue mire sul club kosovaro dell'FK Pristina che riuscì ad acquisire senza grosse difficoltà.

    All'epoca la situazione del Kosovo era tutt'altro che pacificata, con Ushtria Clirimtare e Kosovari (UCK) ovvero l'esercito di liberazione kosovaro che muoveva i primi passi nel tentativo di liberare gli albanesi del Kosovo dal giogo serbo. L'intento di Arkan era chiaro, attraverso il calcio voleva nuovamente ergersi a paladino del popolo serbo in questo caso dei serbi del Kosovo. La sua ingombrante presenza a Pristina voleva essere un monito alla popolazione di etnia albanese non a caso la sua prima mossa fu quella di estromettere dal club tutti i tesserati di origine albanese, giocatori compresi. Arkan, si accorse tuttavia, ben presto, che l'FK Pristina non era adatto ai suoi piani di grandezza. Quel piccolo lembo di terra, all'epoca, nessuno lo conosceva ed in Europa il nome del piccolo club kosovaro non era che una goccia nell' oceano. Riportò, quindi, le sue mire sui club di Belgrado, acquisendo l'Obilic ed abbandonando a se stesso l'FK Pristina.

    Alla presidenza della terza forza della capitale, ancora nominalmente jugoslava, Belgrado mandò in onda la più grande farsa che il calcio balcanico conoscerà nella sua gloriosa storia.

    L'Obilic non era un grande club europeo e la sua storia non era gloriosa e ricca di trofei ma era attivo fin dal 1924 e la scelta di Arkan aveva, come al solito, una valenza più politica che calcistica. Il nome del club era quello di Milos Obilic il condottiero ed eroe nazionale serbo che combattè nel 1389 in Kosovo al campo dei Merli in difesa

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