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L'esclusa (1901)
L'esclusa (1901)
L'esclusa (1901)
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L'esclusa (1901)

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About this ebook

Dopo oltre un secolo riproponiamo la prima versione de L'esclusa, primo romanzo di Luigi Pirandello. Testo importante, dedicato alla condizione della donna e alla sua lotta per l'emancipazione.
Apparso a puntate su un quotidiano nel 1901, questa versione del romanzo presenta numerose e rilevanti differenze da quella che sarà l'edizione definitiva (universalmente datata 1908).
Parte del ricavato dall'acquisto di questo libro sarà devoluto all'Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo, per contribuire alle attività di archiviazione, recupero e diffusione del Patrimonio ivi conservato.
LanguageItaliano
Release dateDec 8, 2017
ISBN9788827528853
L'esclusa (1901)

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    Book preview

    L'esclusa (1901) - Luigi Pirandello

    Ringraziamenti

    Nota di edizione

    Proponiamo in questa edizione la prima pubblicazione del romanzo, avvenuta sul quotidiano romano «La Tribuna», dal 29 giugno al 16 agosto 1901.

    Il testo riportato è fedele all'originale.

    Indichiamo di seguito gli interventi apportati.

    Correzione degli errori materiali di ortografia (es: ''pirma'' in prima, ''levati'' in levate, ''eser'' in esser, ''faccente'' in saccente, ''spattellavano'' in spiattellavano,...).

    Correzione delle forme grammaticalmente scorrette (''qual'è'' in qual è, ''tal'e'' in tal e).

    Abbiamo mantenuto:

    - l'accento sulle parole là dove riportato;

    - le forme arcaiche (sclamò,...); e poco comuni (cecamente,...);

    - e le forme doppie (Pentàgora/Pentagora, Sidóra/Sidora, su i/sui,...).

    L'ortografia è stata adattata all'uso odierno, rispettando così la normalizzazione e regolarizzazione che, proprio nei primi anni del Novecento, si andava affermando in ambienti accademici ed editoriali. [1] Pertanto l' accento grave dei termini: poichè, ripetè, allorchè, sedè, battè, insistè, canapè, dacchè, sicchè, giacchè, còmpito, sèno,... è stato sostituito con quello acuto.

    La punteggiatura è stata corretta e adattata ai criteri della collana.


    [1] G. Malagoli, Ortoepia e ortografia italiana moderna , Ulrico Hoelpi, Milano 1912, p. 111.

    L'esclusa

    1901

    PARTE PRIMA

    I.

    Sotto la cappa del camino, ch'era come una mezza tramoggia enorme rovesciata, la vecchia Pentàgora, quella sera, bofonchiava tra sé più del solito, mordicchiando le còcche del grosso fazzoletto nero, di lana, che teneva in capo, annodato sotto il mento.

    Come se lo stipe, i sagginali, i tutoli, i tizzoni, scoppiettando, cigolando, crocchiando o levando fanfaluche le parlassero, ella soleva tutto il giorno lì, aggrondata e ingrugnata, far lunghi discorsi col fuoco, e ogni tanto gestiva, a scatti, con le mani secche, nere, dalle dita agilissime. Parlava continuamente così, tra sé, fondendo le parole precipitose, quasi imitasse un ruzzolo di fusa. Le rare volte che si levava dal canto del fuoco e andava a ronzar come un moscone per casa, pareva s'aggirasse in un sogno smanioso, con gli occhi senza sguardo, le dita sempre irrequiete.

    – A tavola, zia Sidora, – venne a dirle Nicola, il nipote, pallido; con aria stordita. – Papà, dice, non c'è perché restar digiuni. Rocco, però, non è ancora tornato... Come si fa?...

    Zia Sidora guardò un tratto il nipote, con le ciglia aggrottate, quasi non avesse compreso; poi scattò in piedi, alzando le braccia in un gesto vivacissimo di noncuranza sdegnosa, e s'avviò di furia, inarcocchiata, grufando, allo stanzone da pranzo, lugubre, oppressivo dalle pareti nude e dal tetto basso.

    Correvano lungo le pareti due interminabili file di seggiole, quasi tutte scompagne; dal tetto, affumicato in giro, pendeva sulla tavola una lampada di finto bronzo, commessa a tre catenelle di rame; dal paralume rotto sfuggiva un fascio di luce.

    Cenavano già da un pezzo tranquillamente, come se nulla fosse stato, quando Rocco si presentò su la soglia, cupo, disfatto.

    – Oh, Roccuccio... eccolo qua! – esclamò don Antonio, volgendosi verso l'uscio e fregandosi le mani.

    Nicola levò, di sul capo della zia, la testa secca, orecchiuta, da vampiro, per veder l'aria del fratello. La zia non si mosse.

    Rocco stette un po' a guardare i tre seduti a tavola; poi si buttò su la prima seggiola presso l'uscio, coi gomiti sulle ginocchia e le mani sotto il mento.

    – Oh, e alzati! vieni qua... – riprese don Antonio, sospendendo su la forchetta un ciuffetto d'insalata. – T'abbiamo aspettato, sai... Non mi credi? Parola d'onore, fino alle dieci... no, più, più... che ora è? Vieni qua, ti dico; ecco il tuo posto: è tutto pronto.

    E chiamò:

    – Signora Poponica!

    – Epponina, – corresse Nicola a bassa voce.

    – Grazie, lo so. Ma se volessi chiamarla Poponica, come tua zia?

    Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò:

    – Chi è Poponica?

    – Ah! una signora caduta in bassa fortuna, – rispose allegramente il Pentàgora. – Una vera signora! Da ieri ci fa da serva. Tua zia la protegge.

    – Romagnola, – aggiunse Nicola, sommessamente.

    Rocco ripiegò la testa su le mani; e don Antonio, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino cauto; poi strizzò un occhio a Nicola e, facendo spracche con la lingua, disse:

    – Buono! Roccuccio, vino nuovo... Assaggia, assaggia... Ti rimetterà lo stomaco. Sciocchezze!

    E tracannò il resto in un fiato.

    – Non vuoi cenare?

    Attese a lungo una risposta.

    – Non può cenare, – osservò piano Nicola.

    Tacquero tutti, badando che le forchette non frugassero nei piatti e il vino non facesse glo glo, come per non offendere il silenzio ch'empiva penosamente il lugubre stanzone. Ed ecco la signora Poponica, coi capelli color di petronciano unti non si sa di qual manteca, arruffati su la fronte gialla, rugosa, e la bocca stretta e gli occhi ammaccati, entrar tentennante su le gambette, forbendosi le mani piccole sconciate dal lavoro in una giacca smessa del padrone, legata per le maniche intorno alla vita, a mo' di grembiule.

    Subito don Antonio con la mano le fe' cenno, andasse via: non c'era più bisogno di lei. La signora Poponica inarcò le ciglia cespugliate, sbalzandole quasi fin sotto i capelli; distese su gli occhi le palpebre lente cartilaginose; piegò la testa da un lato e andò via, sospirando.

    – Ricordati, oh! che te l'avevo predetto, – uscì à dir finalmente don Antonio.

    Sonò il suo vocione così urtante nel silenzio, che la sorella Sidora, quantunque sempre astratta, balzò ancora qui da sedere, tolse dalla tavola il piatto dell'insalata, ghermì un tozzo di pane e via, e via, a finir di cenare in un'altra stanza.

    Don Antonio restò male: la seguì con gli occhi fino all'uscio, poi guardò Nicola e scosse la testa con un sorriso stupido su le labbra. Ricordava tant'anni addietro, anche a lui di ritorno alla casa paterna dopo il tradimento della moglie, la sorella, bisbetica fin da ragazza, aveva fatto consimile accoglienza. Si aspettava da lei fiumi di rimproveri, prediche interminabili; e invece, nulla: lo aveva condotto senz'altro nell'antica sua camera da scapolo rimasta tal quale egli l'aveva lasciata, come se con ciò avesse voluto dimostrargli ch'ella s'aspettava di vederselo un giorno ricomparir dinnanzi così, tradito e pentito.

    – Te lo avevo predetto! – ripeté, riscotendosi, con un sospiro.

    Rocco si alzò smanioso, esclamando:

    – Non trovi altro da dirmi?

    Nicola allora tirò, di sotto la tavola, la giacca al padre, come per dirgli: – Sta' zitto!

    – No! – gridò forte don Antonio su la faccia di Nicola. – Vieni qua, Roccuccio; levati codesto cappello dagli occhi... Ah, già: la ferita! Lasciami vedere...

    – Che m'importa della ferita? – gridò Rocco, quasi piangente dalla rabbia, sbertucciando e sbatacchiando il cappello sul pavimento.

    – Sì, guarda come ti sei conciato... Acqua e aceto, subito: una pezzuola...

    Rocco minacciò:

    – Ancora? Me ne vado!

    – E vattene! Che vuoi da me? Parla, sfogati! Quella tipa l'hai cacciata di casa?

    – Con un fracco di legnate!

    – Hai fatto benone! A tuo suocero Bau gliel'hai detto?

    – Sul muso!

    – Hai fatto benone! Ora mettiti il cuore in pace e non ci pensare altro. La lettera, io dico, avresti potuto raccoglierla con più garbo, senza romperti così la fronte ne lo sportello dell'armadio... Ma basta: sciocchezze! Denari ne hai, quanti ne vuoi; femmine potrai averne quante ne vorrai. Sciocchezze!

    Sciocchezze! era il suo modo d'intercalare, e accompagnava ogni volta l'esclamazione con un gesto espressivo della mano e una contrazione della guancia sinistra.

    Si levò dalla tavola e, recatosi presso il cassettone, su cui stava accoccolato un grosso gatto bigio, trasse una candela confitta in una bugia di porcellana; staccò, per dare a vedere quel che intendeva fare, i gocciolotti dal fusto, poi l'accese e sospirò:

    – E ora, andiamo a dormire!

    – Mi lasci così? – esclamò Rocco, esasperato.

    – Santa pazienza! Che vuoi che ti faccia? Vuoi che stia qui? E stiamo qui...

    Soffiò su la candela e sedé su una seggiola presso il canterano. Il gatto gli saltò su le spalle.

    Rocco passeggiava per lo stanzone, mordendosi a quando a quando le mani o facendo con le pugna serrate gesti di rabbia impotente. Piangeva.

    Nicola, seduto ancora a tavola, sotto la lampada, arrotondava con l'indice pallottoline di mollica.

    – Non hai voluto darmi ascolto, – parlò, dopo un lungo silenzio, don Antonio. – Hai... hem...! sì, hai voluto fare come me... Mi viene quasi da ridere, che vuoi farci? Ti compatisco, bada! Ma è stata, Rocco mio, una riprova inutile. Noi Pentàgora... – quieto, Fufù, con la coda! – noi Pentàgora con le mogli non abbiamo fortuna.

    Tacque un altro pezzo; poi ripigliò lentamente, sospirando:

    – Già lo sapevi... Ma tu credesti d'aver trovato l'araba fenice... E io? Tal quale! E mio padre, sant'anima? Tal quale!

    Squadrò con una mano le corna e le agitò per aria:

    – Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene...

    A questo punto, Nicola, che seguitava ad arrotondare tranquillamente pallottoline, sghignò.

    – Sciocco, non c'è nulla da ridere? – lo rimproverò il padre, levando su dal petto il testone sanguigno. – È destino! Ognuno nella vita, ha da portar la sua un poco. La nostra, è qui! – E si batté con una mano la fronte.

    Un'altra pausa, e riprese:

    – Dopo tutto, sciocchezze! Croce che non pesa, è vero, Fufù? quando abbiamo scacciato via la moglie? Salute e prosperità! Salute, ne abbiamo da venderne; e, per tutto il resto, grazia di Dio non ci manca. Si sa; per altro che le mogli è il loro mestiere d'ingannare i mariti. Quand'io sposai, figlio mio, tuo nonno mi disse precisamente quel ch'io poi ripetevo a te, parola per parola. Non volli ascoltarlo come tu non hai voluto ascoltarmi... Si capisce. Ognuno vuol farsene la prova, per conto suo. Che cos'era Fana per me? Ciò che tua moglie, Roccuccio mio, era per te... Una santa! Non ne dico male, né gliene voglio: ne siete testimonii. Do a vostra madre tanto che possa vivere e permetto che voi andiate a trovarla. M'ha reso in fin de' conti, un gran servizio, m'ha insegnato che si deve obbedire ai genitori. Dico perciò a Niccolino: – Tu almeno figliuolo mio, salvati!

    Quest'uscita non piacque a Niccolino che già faceva all'amore.

    – Ma pensate a vojaltri, voi, ché a me ci penso io!

    – A lui, ohibò! a lui... ah figlio mio! – sclamò sogghignando don Antonio. – Ma San Silvestro... ma San Martino...

    – Va bene, va bene... – rispose Niccolino irritatissimo; e per far dispetto al padre aggiunse: – Per altro, a noi la mamma poveretta, non ha fatto alcun male, e se pur è vero che...

    – Niccolì, ora mi secchi! – gridò don Antonio. – È destino sciocconcino! E io parlo pe 'l tuo bene... Prendi, prendi moglie, se tre esperienze non ti bastano; e se sei davvero dei Pentàgora, vedrai!

    Si liberò del gatto con una scrollata, tolse dal canterano la candela e, senza neanche accenderla, scappò via.

    [1] Rocco aprì la finestra e si mise a guardar fuori, a lungo.

    La notte era umida. In basso, dopo il ripido degradare delle ultime case giù per la collina, la pianura immensa, solitaria, si stendeva sotto un velo triste di nebbia fino al mare laggiù, rischiarato pallidamente dalla luna.

    – Che debbo fare? che debbo fare? – diss'egli forte, alla fine, innanzi a quel vasto silenzio malinconico della notte, con lo spirito oramai sbaldanzito e dibattuto quasi in un interno mareggiamento impetuoso.

    – Scendi giù dall'Inglese... – insinuò piano e quieto Nicola, che se ne stava ancor presso la tavola con gli occhi fissi su la tovaglia.

    Rocco trasalì alla voce, e si rivoltò, stordito da quelle parole e dal vedere il fratello ancor lì, impassibile, sotto la lampada.

    – Da Bill? – gli domandò accigliato.

    – Sì, il signor Madden è maestro di scherma...

    – E per far che?

    – Io, nel tuo caso, farei un duello... – disse con aria semplice e convinta Nicola, raccogliendo nel cavo della mano tutte le pallottoline arrotondate e andando a buttarle dalla finestra.

    – Un duello? – fece Rocco. – Sì, sì... ammazzarlo! Hai ragione... Un duello! Ammazzarlo!

    Dalla chiesa vicina giunsero i rintocchi lenti della mezzanotte.

    – Mezzanotte...

    – L'Inglese sarà sveglio...

    Rocco raccolse il cappello ammaccato dal pavimento:

    – Ci vado!


    [1] Qui inizia l'appendice numero 2 del 30 giugno 1901.

    II.

    Difatti il signor Madden non dormiva. Seduto su un vecchio sgangherato canapé innanzi a un tavolino, la gran fronte illuminata da una lampada senza globo, una gamba accavalciata su l'altra e dondolante, con la calza ricaduta su la fiocca del piede e senza scarpe, dava morsi da arrabbiato ad un panino imbottito, guardando religiosamente innanzi a sé una bottiglia sturata di pessima birra e un altro panino accanto alla bottiglia.

    Ogni mattone in quella camera reclamava la scopa e una cassetta da sputare pel signor Madden; reclamavano le pareti e i pochi e vecchi mobili uno spolveraccio; reclamava il letticciuolo dai trespoli esposti, come i quattro stinchi d'un bue magro che presentasse il di dietro, le solide braccia d'una servotta, che lo rifacessero almeno una volta la settimana; reclamavan gli abiti del signor Madden non una spazzola, ma una brusca da cavallo.

    Le vetrate dell'unica finestra erano aperte; le persiane, accostate a fessolino. Le scarpe del signor Madden, una qua e una là, in mezzo alla camera.

    Don Antonio Pentàgora aveva estrutto quella sua casa che pareva una torre, a piano a piano: al quarto, per il momento, s'era arrestato. Forse perché nessuno voleva aver da fare col proprietario, o che la casa restasse veramente un po' fuorimano, certo a don Antonio non veniva mai fatto d'affittarne un quartierino. Il portinaio aveva la dignitosa gravità d'un notaro; ma cinque lire al mese; per cui non salutava mai nessuno.

    Sfitto il primo piano da due anni. Del secondo una sola camera era abitata da un professor di ginnasio sui cinquant'anni, per nome Luca Blandino, alto, magro, calvissimo, ma – quasi per compenso – enormemente barbuto, vestito sempre di nero; tipo singolare, ben noto in paese per le incredibili distrazioni di mente a cui andava soggetto. Ricco in addietro, coinvolto nella rovina dal fallimento di un suo congiunto, se n'era a gran pena rialzato, dedicandosi con triste rassegnazione all'insegnamento; e adesso non si curava più di nulla né di nessuno, assorto sempre in filosofiche meditazioni. Pure, chi all'improvviso avesse saputo impressionarlo così, da farlo per poco discendere dalla sfera di quei suoi nuvolosi pensieri, avrebbe potuto tirarlo dalla sua, e farsene aiuto prezioso e disinteressato.

    come nel secondo piano, una sola stanza del terzo era occupata e da un tipo forse non men singolare: dal signor W. H. Madden, inteso Bill. Le altre stanze, qua e là, dai topi.

    Possedeva Bill una fronte così spaziosa che, attesa la sua professione di maestro di lingue straniere, si poteva dire una piazza internazionale. I capelli aurei, finissimi, pareva si fossero allontanati dai confini del capo e delle tempie per paura del naso; ma in cerca di loro, dalla punta delle sopracciglia serpeggiavano su su per la fronte le due arterie sempre rigonfie. Sotto le sopracciglia s'appuntavano gli occhietti grigio-azzurri, a volta astuti, a volta dolenti, come gravati dalla fronte e protetti dagli zigomi secchi, da cui poi scivolavano le guance infossate, le quali pareva si appigliassero al gran naso da uccel ciuffagno per non sprofondare del tutto. Sotto il naso i baffetti color di fieno, tagliati rigorosamente intorno al labbro, poi il mento lungo e vigoroso; poi il collo lungo e magro, poi il corpo lungo e magro

    Il signor Madden dava lezioni d'inglese, di tedesco, di francese, bistrattando l'italiano. E poiché infino la natura aveva voluto dotargli anche di agilità il suo corpo, non ostante la fronte monumentale, egli, nelle ore d'ozio, si era messo a dar lezioni di scherma, ma così, senz'alcuna pretesa al mondo, beninteso.

    Probabilmente neppur lui, povero Bill, avrebbe saputo ridire come mai dalla nativa Irlanda si fosse ridotto in un paese di Sicilia. Nessuna lettera mai dalla patria! Era proprio solo, con la miseria dietro di sé, nel passato, e la miseria innanzi a sé, nell'avvenire; e, così abbandonato alla discrezione della sorte, pur raramente si disaiutava. In verità, il signo Madden aveva, per sua ventura, più vocaboli in mente che pensieri.

    – Oh Rocco! – esclamò egli con la barbara pronuncia, nella quale gargarizzava, schiacciava, sputava vocali e consonanti, con sillabazione spezzata, come se parlasse con una patata calda in bocca. Di tratto in tratto, dopo qualche frase letteraria citata spesso a sproposito, domandava:

    Ho detto ciusto? – e con una mano abitualmente in tasca grattavasi il ventre sotto i calzoni.

    – Scusa, Bill, se vengo così tardi – disse Rocco con faccia cadaverica. – Ho bisogno di te.

    – Di me? – fece Bill, che ripeteva quasi sempre le ultime parole del suo interlocutore come per agganciarvi la risposta. – Un momentino. È mio dovere rimettere prima le scarpe.

    E guardò sconcertato la lividura sulla fronte dell'amico.

    – Ho avuto, una lite...

    – Non capisco.

    – Una lite! – ripeté con forza Rocco, additando la fronte.

    – Ah, una lite, benissimo, a strife; e che cosa posso io fare?

    – Ho bisogno di te.

    – Vuoi tu forse fare qualche duello?

    – Appunto... Ma, vedi, io... non so proprio nulla io di...

    – Non capisco.

    – Di, di... duello, non so nulla! – gridò Rocco, imbalordendo peggio il Madden. – Come si fa? Non vorrei mica farmi ammazzare come un cane, capisci?

    – Come un cane, benissimo capito! E allora bisogna prendere qualche lezione.

    – Ora? Ma non ho più tempo!

    – Sicuramente, sicuramente... e allora...

    – Non potresti insegnarmi... ?

    – Qualche... coup? Ah! un colpo – si dice? sì, un colpo infallibile, sì. Io te lo posso insegnare. Molto semplice, sì. Se vuoi, possiamo anche provare subitamente...

    – Almeno a sfalsare, intendi? a sfalsare...

    Il signor Madden staccò dalla parete due vecchi fioretti irrugginiti. Rocco non sapeva più quel che si facesse: guardò i fioretti, ne prese uno. Bill gli dispose le dita di tra le basette: – Così! ecco, così! – E allora Rocco si lasciò piegare, stirare: – Cado! cado! – atteggiare come un manichino. Si avvilì presto, in quella posizione stentata: – Cado! cado! – e il braccio teso gli si stancava, gli s'irrigidiva; il fioretto, possibile? pesava troppo. – Eh! eh! olà! oilà! – incitava intanto il Madden.

    – Aspetta, Bill ! – nel dare il colpo a fondo, il piede sinistro come poteva star fermo? e il destro, Dio! Dio! non poteva più ritrarsi in guardia! – A ogni movimento il sangue affluivagli con impeto alla ferita della fronte.

    Bum! bum! bum! – alcuni colpi bussati con rabbia sotto il pavimento.

    Il signor Madden ristette scosciato, con la gran fronte imperlata di sudore. Tese l'orecchio.

    – Abbiamo svegliato il professore Luca!

    Rocco si era abbandonato, rifinito, su una seggiola, con le braccia ciondoloni, la testa cascante appoggiata alla parete; quasi in deliquio. Pareva, in quell'attitudine, avesse già terminato il suo duello con l'avversario e ricevuto una ferita mortale.

    – Abbiamo svegliato il professore Luca – ripeté l'inglese guardando Rocco, a cui tale notizia pareva non arrecasse alcuna spiacevole

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