Io sono Pietro
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Un anno dopo, Pietro, fratello del giovane Nicola – attivista gay rispettato da tutta la comunità –, giunge sul letto di morte del padre, che riesce a strappargli la promessa di far luce sulla vicenda.
Una serie di omicidi, palesemente collegati a quella tragica morte, scatenerà la riapertura delle indagini, portando gli inquirenti a comporre un mosaico in cui ogni tessera sembra andare al posto giusto.
Ma niente è come sembra, e Pietro sarà l’unico a capire il perché.
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Book preview
Io sono Pietro - Fabrizio Rinaldi
© 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-567-8656-9
I edizione settembre 2017
www.gruppoalbatros.com
Libri in uscita, interviste, reading ed eventi.
"Il passato non muore mai.
Non è nemmeno passato".
William Faulkner
Personaggi principali
Gianni Ferroli, questore
Arrigo Zorzi, sostituto procuratore della Repubblica
Luigi Imbeni, commissario capo Polizia di Stato
Palmiro Piccoli, commissario Polizia di Stato
Chiara Sereni, ispettore
Gianna Turatto, sovrintendente
Antonio Serrani, agente scelto
Vittorio Roveron, agente scelto
Emilio De Carli, agente semplice
Manuel Rivera, agente scelto
Giovanni Rosa, capitano dei carabinieri
Nicola Anselmi, un giovane coraggioso
Gabriele Azzolini, amico di Nicola
Carla Righi, amica di Nicola e di Gabriele
Pietro Anselmi, fratello di Nicola
Sonia, compagna di Pietro Anselmi
Angela, compagna del commissario Piccoli
Leo Nuti, appuntato dei carabinieri, amico di Pietro
Luigi Orsé, giudice
Daniele Rensi, giornalista dell’Ansa
L’ambulanza
Alle ore 2.55 di giovedì 30 maggio, l’ambulanza inviata dagli Ospedali Maggiori, in seguito a una chiamata ricevuta dalla polizia, giunse sul luogo di quello che molti avrebbero chiamato incidente
e molti invece avrebbero chiamato omicidio
. Dal mezzo scesero un medico e due infermieri. Uno dei poliziotti presenti indicò un corpo esanime steso a terra. Il medico si chinò, tastò il polso, mise due dita sul collo, poi auscultò il petto con lo stetoscopio. Senza rialzarsi, si volse verso i poliziotti.
«È morto» disse «perché ci avete chiamato?».
Si fece avanti una donna in divisa; era pallida.
«Abbiamo chiamato il 118 perché speravamo si potesse rianimare. In ogni caso occorre certificare la morte. Abbiamo già avvisato la Questura che sicuramente avrà allertato la Procura; c’è sempre un sostituto procuratore reperibile».
Il medico si tirò su.
«Non c’è niente da rianimare; è morto da mezz’ora almeno. Io firmo il certificato di morte, altro non posso fare. Per quanto riguarda le cause del decesso, se ne occuperà il medico legale, suppongo». Si voltò a guardare il corpo steso sull’asfalto.
«È un ragazzo» disse.
Il sostituto procuratore
Il sostituto procuratore reperibile quella notte giunse sul posto che erano quasi le 4 di mattina. Era assonnato, taciturno e incazzato. Si avvicinò al corpo.
«Mi fate un po’ di luce qui?».
Esaminò il cadavere, poi rimase in silenzio per un bel po’, infine chiese: «Chi è il più alto in grado?».
Si fece avanti ancora la donna.
«Sovrintendente Turatto, agli ordini».
«Mi spieghi che cavolo è successo. Sinteticamente, per cortesia, avremo tempo domani o anche dopo per approfondire».
«Ero di pattuglia con l’agente De Carli, sulla prima macchina, quella là» disse indicandola «quando sul vialone un uomo ci ha fermato, era a piedi e ci ha detto in modo concitato che dentro a questo vicolo stavano succedendo cose strane».
«Cose strane?».
«Ha usato esattamente queste parole. Abbiamo chiesto con la radio un’altra pattuglia, e la più vicina era quella dei due colleghi, agenti scelti Roveron e Serrani. Sono arrivati quasi subito; abbiamo posteggiato le macchine come le vede, all’imbocco del vicolo, e siamo scesi. C’è stato un fuggi fuggi generale, questo è un posto di spaccio e di consumo, procuratore. Un ragazzo, invece, ci è quasi caduto in braccio; veniva verso di noi. I miei colleghi lo hanno fermato per identificarlo e interrogarlo su quello che stava succedendo qui, ma all’improvviso è arrivato correndo quel giovane» disse indicando il cadavere «urlando come un matto».
«E che urlava?».
«Ho capito poco... parole sconnesse. Diceva che non potevamo fare quello che stavamo facendo, cose così. Mentre due colleghi trattenevano il primo giovane, l’agente De Carli è andato incontro a... lui» e indicò ancora il corpo per terra. «Ma questo qua lo ha letteralmente aggredito a pugni e calci. Allora gli altri due agenti sono accorsi in aiuto di De Carli, e anch’io mi sono avvicinata. Il ragazzo sembrava un pazzo, gridava, mollava pugni e calci; in verità, dottore, abbiamo dovuto usare le maniere brusche...».
«Lo avete menato?».
«Ma no, dottore, più che altro gli agenti si difendevano perché quello dava botte alla cieca; cercavano di trattenerlo per le braccia e per le gambe, ma quello non si fermava. E purtroppo, a un certo punto, mentre dava uno strattone per liberarsi è caduto all’indietro e ha battuto violentemente la testa proprio lì, sullo spigolo del marciapiede. Non si è più mosso».
«Come si chiama?».
«Dalla carta d’identità, che teneva nella tasca posteriore dei jeans, risulta essere tale Nicola Anselmi».
«E l’altro ragazzo?».
«Quello? Quando mi sono voltata, era sparito, volato via».
«Telecamere di sorveglianza?».
«In questo vicolo? Non ce ne sono, procuratore».
Il sostituto procuratore si grattò il mento e imprecò.
«È un casino» disse.
La commissione consultiva
L’incarico di presiedere la commissione consultiva per quell’anno gli stava stretto; non era tagliato per quel lavoro né per le scartoffie, tante, che ineluttabilmente avrebbe dovuto riempire di parole al termine dei lavori.
Quando gli misero in mano la patata bollente cercò di sbrigare quel lavoro nei tempi più stretti possibili. Volle accanto a sé un ispettore di sua conoscenza, che era anche un esponente del sindacato di polizia; il terzo membro doveva essere un poliziotto di pari grado degli indagati, tra i quali un sovrintendente, due agenti scelti e un agente semplice; lui optò per un agente scelto.
«Sapete che i quattro agenti sono stati sospesi dal lavoro» disse nel corso della prima riunione della commissione.
«Cautelativamente» s’intromise l’ispettore «cautelativamente, teniamolo presente».
«Ispettore» rispose con insofferenza «non è una questione sindacale ma disciplinare. Sappiamo bene che le sospensioni sono cautelari. Bene, ho chiesto e ottenuto di iniziare già oggi».
La sovrintendente di polizia Gianna Turatto entrò nella saletta al pian terreno della Questura, che a volte serviva per gli interrogatori dei fermati. Salutò e si accomodò sulla scomoda sedia di ferro, su cui tanti delinquenti si erano seduti.
Piuttosto robusta, viso quadrato, capelli castani raccolti dietro la testa, il commissario la guardò solo per poco. Aveva uno di quei visi anonimi che non ricorderesti nemmeno se li fissassi per un’ora. Il trucco era sovrabbondante, cosa che non accadeva tra le donne poliziotto, ma forse quel mattino lei aveva pensato che fosse un’occasione particolare.
«Sovrintendente» esordì il commissario «lei sa quali sono gli obblighi di questa commissione e quali eventuali, sottolineo eventuali, sanzioni può stabilire».
«Certamente, commissario».
«Dovevo informarla. Adesso ci può riferire con una certa precisione quanto accaduto nella notte tra il 29 e il 30 maggio scorso?».
Mentre la donna parlava e raccontava con eccesso di particolari i fatti di quella notte, lui pensava: Balle! Sta mentendo su tutto. Recita una parte
, ma il suo viso rimase impassibile. E quando la donna ebbe finito, lui fece una sola domanda.
«Sapendo che quel vicolo era un luogo abituale di ritrovo per spacciatori e tossici, perché non avete chiamato l’antidroga?».
«Sulla base di quello che ci aveva segnalato quel cittadino, non potevamo sapere se si trattava di questioni di spaccio o di altro. Una volta verificato che si trattava di droga, lo avremmo fatto, naturalmente. Ma poi la situazione è precipitata, come ho appena spiegato». La risposta era stata prontissima.
«Già» disse il commissario «quell’onesto cittadino che nessuno ha mai trovato».
Fu l’ispettore a intromettersi.
«Commissario, lei sta insinuando...».
«Non insinuo nulla, ispettore, espongo dei fatti. E le ricordo le funzioni di questa commissione. Non siamo al sindacato. Avete qualche domanda da fare?» chiese rivolto agli altri due membri della commissione, che non aggiunsero altro. «Bene, sovrintendente, lei può andare».
Serrani e Roveron ripeterono per filo e per segno quanto già riferito dalla Turatto. Si trovavano con la loro pattuglia a un paio di chilometri e, quando ebbero la chiamata, si recarono subito sul posto. L’auto guidata da De Carli li aspettava sul vialone e insieme si avvicinarono senza sirene, ma solo con i lampeggianti blu, all’imbocco del vicolo. Erano scesi e poi era successo quello che era successo. Stessa identica versione dei fatti.
Quando alla fine fu la volta dell’agente semplice De Carli, il commissario gli chiese a bruciapelo:
«Saprebbe fare una descrizione del tizio che quella notte vi ha fermato mentre eravate di pattuglia?».
L’agente spalancò la bocca per la sorpresa, poi si riprese subito.
«Io non l’ho visto bene. Era sulla strada e quando ha visto la nostra macchina ha agitato le braccia: ci siamo fermati e lui si è avvicinato al finestrino della Turatto; la sovrintendente lo ha visto bene, io non tanto».
«Com’era vestito?».
L’agente si agitò sulla sedia.
«Non ricordo molto bene; mi sembra che avesse la giacca».
«Portava gli occhiali?».
«Non aveva occhiali».
«La Turatto ha detto che aveva gli occhiali da vista e...».
«Commissario» saltò su l’ispettore «ma che cosa sta facendo? La sovrintendente non ha mai detto che quell’uomo aveva gli occhiali».
Il commissario sorrise.
«Già, è vero». Sospirò, poi disse: «Bene, per me può bastare. Agente De Carli, lei può andare».
«Non gli chiediamo di riferirci i fatti?». Era la prima volta che il terzo membro della commissione, l’agente scelto, parlava.
«Vogliamo sentire per la quarta volta la stessa solfa?» gli chiese sorridendo il commissario.
«Decide lei» mormorò il poliziotto abbassando la testa.
Una volta uscito De Carli, il commissario si rivolse agli altri due: «Ci vediamo oggi alle tre nel mio ufficio e confrontiamo le opinioni. Signori vi ringrazio».
Guardò la porta chiudersi alle loro spalle.
«È una farsa» disse.
Il processo
Primo stralcio
Il giudice richiamò l’attenzione dell’avvocato della difesa.
«Avvocato Pivetti, intende interrogare il teste?».
«Certamente» rispose quest’ultimo, infilandosi la toga; erano tre gli avvocati della difesa, e avevano una sola toga, che si passavano quando dovevano alzarsi e interrogare i testimoni. «Grazie giudice. E se permette, dopo aver parlato coi miei colleghi, il mio sarà l’unico controinterrogatorio». Poi scartabellò delle carte che aveva sul tavolo, più per prendere tempo che per altro.
«Allora, dottore, lei è stato nominato come consulente tecnico della parte civile, cioè la famiglia, per effettuare una perizia medico-legale sul ragazzo morto».
«Esatto».
«Al pubblico ministero, poco fa, lei ha detto, cito a memoria, che la ferita mortale al capo dell’Anselmi potrebbe essere stata provocata da un corpo contundente oppure da un colpo infertogli con una scarpa, se il ragazzo fosse stato già a terra
».
«Stivale, avvocato, ho detto stivale
.
«Stivale, scarpa... che differenza fa, abbiano capito che cosa intende. La mia domanda però riguarda altro. Vorrei che lei ci spiegasse il senso reale di quel potrebbe
».
Il pubblico ministero scattò in piedi.
«Giudice! Ci mettiamo a discettare sulla lingua italiana?».
«Al mio illustrissimo collega dell’accusa forse sfugge, signor giudice, l’importanza della questione, dato che l’uso del condizionale presuppone in questo contesto che ci siano anche altre modalità nella morte del ragazzo».
«Continui avvocato».
«Grazie giudice. Allora, dottore, perché lei ha usato il condizionale?».
Il medico si mosse nervosamente sulla poltroncina di legno.
«Io ho risposto a una domanda precisa del pubblico ministero».
«E adesso non sta rispondendo alla mia. Devo ripeterla?».
«No, ho capito. Cercherò di spiegarmi meglio. Nelle sue conclusioni, il medico legale ha stabilito che il colpo mortale è compatibile con una rovinosa caduta del giovane, che avrebbe battuto la testa sull’asfalto, anzi sullo spigolo del marciapiede. Altro non ho trovato nel suo referto, perciò io ho solo completato la perizia affermando che il colpo mortale potrebbe essere stato inferto anche in un modo differente».
«Lei ha completato; bene dottore. Allora, mi interrompa nel caso in cui io dica qualcosa di sbagliato, lo faccia senza problemi. Per dirla con grande chiarezza, lei afferma che il giovane può aver ricevuto un colpo alla testa da un corpo contundente, oppure può essere caduto a terra rovinosamente battendo il capo sullo spigolo del marciapiede».
«Esatto».
«Perciò entrambe le ipotesi sono valide».
«Sì».
«Un’ultima domanda, dottore. Perché lei ha parlato di uno stivale?»
«Perché se il giovane fosse stato a terra, potrebbe essere stato colpito da uno stivale; non è facile colpire una persona alla testa con uno stivale, se la persona è in piedi».
«Apprezzo la sua ironia, dottore, ma qui stiamo parlando di un fatto molto serio. E personalmente trovo ripugnante che un testimone parli di uno stivale e non di un generico corpo contundente, per il solo fatto che i poliziotti, nell’esercizio delle loro funzioni, calzano appunto degli stivali».
Il pubblico ministero si alzò.
«Giudice non siamo all’arringa finale».
«Concluda avvocato, la prego».
«Ho concluso, giudice, e voglio solo rilevare come la testimonianza del dottore sia solo una sfilza di ma
, di se
e di condizionali: potrebbe
, starebbe
eccetera. Ho finito, giudice».
Secondo stralcio
L’avvocato Pivetti indossò la toga e si alzò.
«Lei, Azzolini, ci ha magnificamente intrattenuto per diverso tempo col suo racconto. A mio avviso, tutto quello che ha detto non è molto edificante, per lei intendo. Voglio dire che vedere massacrare di botte un amico, il suo più caro amico e non fare niente, be’...».
«Che cosa potevo fare?».
«Le dirò: noi uomini in genere sappiamo cosa fare in certe situazioni. Ma, ovviamente, parlo di uomini».
In aula si udirono delle risatine soffocate.
«Giudice» intervenne il pm, ormai stancamente.
«Avvocato, faccia le sue domande per piacere» lo sollecitò il giudice.
«Mi scusi, giudice, ma il teste mi ha fatto una domanda e io ho chiarito. Allora, Azzolini, lei ha affermato nella sua testimonianza di aver visto i quattro poliziotti qui presenti in aula usare violenza contro il suo amico».
«Veramente ho detto: Massacrato di botte
».
«Signor Azzolini» stavolta fu il giudice a intervenire «per cortesia si limiti a rispondere alle domande».
Il ragazzo annuì, quindi disse: «Sì».
«E ha detto di aver visto tutto ciò mentre era nascosto dietro a due cassonetti della nettezza urbana, posti diciamo una ventina di metri più indietro, all’interno del vicolo».
«Sì».
«Allora può spiegare a questa corte come mai in quel vicolo non c’è traccia di cassonetti, come risulta da queste foto?».
L’avvocato portò al giudice una serie di foto ingrandite, che consegnò anche al pm.
«Come si può vedere da queste foto, eseguite da un professionista da più angolazioni, nessun cassonetto si trova in quel vicolo. I cassonetti, come si vede dalla foto numero 5, si trovano fuori dal vicolo, appoggiati a una siepe che circonda il condominio, che fa angolo tra il vialone e il vicolo stesso. E questa» continuò l’avvocato esibendo un documento «è la dichiarazione del responsabile della raccolta differenziata dei rifiuti urbani per quella circoscrizione, in cui dichiara che i cassonetti sono sempre rimasti lì, anche perché per i mezzi della raccolta rifiuti è estremamente complicato fare manovra per entrare in quel vicolo».
L’avvocato consegnò il documento al giudice e ne diede una copia al pm. Quindi si rivolse al ragazzo: «Allora, Azzolini, com’è questa storia?».
«Quella notte erano lì, dove ho detto, perché io mi ci sono nascosto dietro».
«Giudice, può ricordare al testimone che è sotto giuramento?».
«Avvocato» rispose stancamente il magistrato «vada avanti, la prego».
«Va bene». Pivetti fece una breve pausa, poi riprese. «Azzolini, lei è omosessuale?».
Il pm scattò in piedi.
«Ma signor giudice!».
«La prego, illustrissimo collega, e chiedo anche a lei giudice, solo un po’ di pazienza, lo chiedo come una cortesia.