Confini di pelle
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(...) I personaggi raccontati da Maurizio Valtieri sono arroccati entro i propri confini di pelle, per difendersi, per nascondersi o semplicemente perché non hanno altra scelta, in una sorta di inferno sartriano, che altro non è che la cosiddetta e troppo spesso invocata normalità della vita quotidiana.
Sono famiglie in fuga dalla guerra, folli in conflitto con meschine personalità latenti, mariti con segreti, ragazzi in lotta con i loro coetanei e donne che hanno riposto la propria fiducia in uomini sbagliati. Sono terribilmente umani i personaggi, fatti persone nell’accezione etimologica del termine, ovvero maschere, che escono dall’immaginazione di Valtieri, pur nulla conservando di immaginario.
Ciò che si legge è semplicemente vita narrata e non importa quanto sia lunga una storia, perché anche una breve può emozionarci, farci riflettere o sognare. Basta saperla raccontare e Valtieri lo sa fare. Lo sa fare così bene che anche a voi lettori, come è successo a me, verrà voglia di rileggerlo e di farne un livre de chevet.
(dalla prefazione di Antonio Veneziani)
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Confini di pelle - Maurizio Valtieri
Maurizio Valtieri
Confini di pelle
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Indice dei contenuti
Prefazione
I faraglioni di Kos
Christmas box
L'ultima nota
Viaggio di compleanno
La panchina
Il gradino
Lunedì
Sinusoidi
Maurizio Valtieri
Confini di pelle
per la versione e-book:
© 2017 Maurizio Valtieri
per la versione cartacea:
© 2017 Edizioni Libreria Croce di Fabio Croce
edizionicroce.com
In copertina:
Elvio Chiricozzi, Potrebbe essere sera, 1992, collezione privata
Prefazione
«Ora, una delle ragioni per cui gli scrittori sono interessati alla vita più di altri che invece semplicemente continuano a vivere, è che lo scrittore non capisce che si tratta di qualcosa in cui lui si comporta come se fosse una sorta di specialista; quel qualcosa è la vita. E la ragione per cui scrive è di spiegarla a se stesso e, per cominciare, meno ne capisce più probabilmente ne scriverà» .
(Grace Paley)
Scrivere e pubblicare racconti oggi comporta una certa dose di coraggio, in un mondo editoriale dove si guarda sempre con grande sospetto alla narrazione breve. Quando si discute di racconti, si ha la sensazione di fare un giro sulle montagne russe: in alcuni momenti, sembra che questo genere possa comunque trovare un suo posto sul podio più alto del narrare, in altri se ne parla come del figlio di un dio minore. Chi si cimenta nella scrittura di racconti, sperimenta sulla propria pelle il pregiudizio secondo il quale il lettore medio prediligerebbe il romanzo, possibilmente corposo, e, dunque, il destino commerciale della sua opera sarebbe segnato da sorte avversa. Ovviamente di pregiudizio si tratta, poiché una moltitudine di lettori ama il racconto, considerandolo più agile e meno impegnativo della lettura di un romanzo.
Fuori dai nostri confini, come dimostra l’esperienza anglosassone e, soprattutto, la letteratura americana, le cose vanno diversamente e molto spesso una raccolta di racconti segna l’esordio di nuovi scrittori. E ci sono grandi autori di racconti come Grace Paley (per me forse una delle maggiori narratrici americane), o ancora Allan Gurganus, autore di Piccoli eroi. Non possiamo poi non citare almeno Raymond Carver e David Leavitt, immancabili sono anche Augusto Monterroso e Max Aub, l’elenco sarebbe sconfinato.
Ho sempre amato il narrar breve e di uso immediato e soprattutto un racconto non può mai cedere all’inutile altrimenti è un racconto mediocre.
Maurizio Valtieri ha una struttura perfetta, calibrata, una lingua elegante e ogni particolare è indispensabile, parlerei di bellezza e parola composta e assolutamente toccante.
Facendo un passo indietro, da E.A. Poe a Flaiano, passando per Pavese, Buzzati, Cechov..., il racconto è sempre stato un’opportunità di arricchimento sia per l’autore che per il lettore, raggiungendo le vette più alte della scrittura letteraria.
Lo stesso Poe afferma che proprio nel racconto il genio dello scrittore può manifestarsi meglio che nel romanzo. Sempre Poe ritiene che il racconto debba essere il più possibile breve per poter assicurare quell’unità di lettura che è la precondizione per la sua efficacia emotiva.
Dunque in questo consiste la vera sfida per l’autore, il quale non può avvalersi degli escamotage che il romanzo, nella sua lunghezza, gli offre, non può fermarsi a respirare nel susseguirsi di più e più pagine e riordinare le proprie idee: nel racconto lo scrittore deve mostrare al lettore un mondo con i suoi abitanti e tutte le loro storie, tutti i loro sogni e delusioni, in un numero limitato di battute. Deve farlo bene, per catturare l’attenzione e colmare la soddisfazione di chi legge. La brevità e il rigore sono gli elementi, non facili da combinare e maneggiare
, a sua disposizione. Stephen King, dice che i racconti richiedono una specie di perizia acrobatica che comporta tanta noiosa pratica e aggiunge: «Non percepisco mai i limiti del mio talento in modo così evidente, come quando lavoro a un racconto».
Ma torniamo a Maurizio Valtieri, lui non ha paura del pregiudizio, né sta lì a prendersi pena per le infinite discussioni su cosa comporti o non comporti oggi scrivere racconti. Al contrario, sembra dare il meglio della sua vocazione proprio in una scrittura al fulmicotone, che a tratti si fa corrente di risacca, trasportando il lettore avanti e indietro nella curva del tempo della narrazione.
In Confini di Pelle, attraverso otto storie, ci conduce in una estraniante realtà quotidiana, dove appare evidente come l’umanità abbia perso totalmente la sua unità di specie. Abbandonato il mondo animale propriamente detto e non avendo mai raggiunto la comunione con il divino, gli esseri umani giacciono in un limbo di non-appartenenza, in cui ognuno è un universo a sé e l’altro è un diverso che va tenuto a distanza, ignorato o combattuto oltre ogni ragionevole buonsenso. Siamo mondi racchiusi dentro il limite ultimo che è la nostra pelle; fuori altri mondi, altri confini di pelle, che, a causa dell’uso smodato delle nuove tecnologie, non ci è più neanche necessario sfiorare. Il vero contatto non è più un’abitudine e molti ne hanno perso anche il controllo, tanto che troppo spesso la violenza sembra essere la modalità ultima per concepire un qualche confronto con il prossimo.
I personaggi raccontati da Maurizio Valtieri sono arroccati entro i propri confini di pelle, per difendersi, per nascondersi o semplicemente perché non hanno altra scelta, in una sorta di inferno sartriano, che altro non è che la cosiddetta e troppo spesso invocata normalità della vita quotidiana.
Sono famiglie in fuga dalla guerra, folli in conflitto con meschine personalità latenti, mariti con segreti, ragazzi in lotta con i loro coetanei e donne che hanno riposto la propria fiducia in uomini sbagliati. Sono terribilmente umani i personaggi, fatti persone nell’accezione etimologica del termine, ovvero maschere, che escono dall’immaginazione di Valtieri, pur nulla conservando di immaginario.
Ciò che si legge è semplicemente vita narrata e non importa quanto sia lunga una storia, perché anche una breve può emozionarci, farci riflettere o sognare. Basta saperla raccontare e Valtieri lo sa fare. Lo sa fare così bene che anche a voi lettori, come è successo a me, verrà voglia di rileggerlo e di farne un livre de chevet.
Antonio Veneziani
I faraglioni di Kos
Majd vola, come un aereo in una gara acrobatica, vola guardando in alto, con gli occhi resi specchi dalla luce lunare. Sogna di volare, ma c’è solo acqua, nera e infinita. Majd non è un aereo, ma una barca rivestita di cotone nuovo e leggero, che si è fatto pesante, zuppo, appiccicoso. Majd non ha vele. Allah è il suo maestro d’ascia e, quando l’ha costruito, non ha previsto vele, né remi, né motore, solo la forza della carne.
«Majd!»
Lui corre verso la pentola, tagliando l’aria satura di odore di confettura alle rose.
«Majd, aspetta, non essere frettoloso, è troppo in alto e tu troppo piccolo».
Ghalia, sua madre, sigilla l’ultimo contenitore di vetro e con un mestolo tira su dal fondo della pentola quel che resta della confettura.
«Tieni e fai piano, ché è ancora calda. Soffiaci sopra. Poi corri a chiamare le tue sorelle e ricordati sempre che quello che hai non è mai solo di tua proprietà».
«Un giorno avrò molti soldi e aprirò per te il negozio di confetture più grande e bello del mondo!»
«Majd, il ragazzino con la bocca sporca», gli dice Ghalia con un sorriso, passandogli il pollice sulle labbra, «un giorno sarai l’uomo più ricco di Siria, inshallah!»
Non è un crampo, non deve essere un crampo, ma solamente una stupida fitta, mentre la luna sembra volergli cadere addosso. Se così fosse, l’acqua si piegherebbe fino al centro della Terra e lui non avrebbe più dolore. Concentrarsi sul nucleo terrestre lo aiuta a non saturare la mente con ipotesi negative. Visualizzare il nucleo interno e quello esterno che ruotano, così come gli è capitato di leggere, in direzioni opposte, lo sbalordisce quanto basta a non fargli sentire le grida che si confondono con altre grida. Non c’è abbastanza sale per tenerlo a galla, non con il peso che porta. Spinge via prima una scarpa, poi l’altra e ha la netta sensazione di essere molto più leggero. Solo per un secondo, il suo sguardo ottimista incontra l’innaturale e terribile indifferenza sul volto di Bushra.
«La senti la mia mano? Cerca di stare rilassato, abbandonati e lascia fare all’acqua».
La voce di Samer gli arriva direttamente da un’altra dimensione, poiché le sue orecchie sono completamente immerse. Percepisce la mano dell’amico poggiata alla schiena e non si sente minacciato dal piacere che prova. Samer è come un fratello e gli sta insegnando a nuotare. Il padre di Samer è un ricco commerciante di oro e materiali pregiati e la sua famiglia è tra le poche ad avere una piscina, nel cortile della grande casa, costruita cinque generazioni prima nella città vecchia.
Hai superato i vent’anni ed è ora che impari a nuotare, così gli dice Samer.
Majd, almeno una volta a settimana, si infila nell’intrecciarsi di vie strette e vicoli, che lo portano a casa dell’amico; indossano costumi occidentali e Samer si tuffa urlando. Majd entra lentamente, non si fida dell’acqua e non sa nemmeno perché stia imparando a nuotare. Aleppo non è una città di mare e i laghi, se è possibile, lo inquietano anche di più. Solo una volta in tutta la sua vita ha immerso i piedi nel lago al-Jaboul. I trenta chilometri percorsi per raggiungerlo, dopo aver chiesto un passaggio a dei turisti francesi, gli sono sembrati allora un’eternità. Ha dovuto far fronte a decine di domande curiose, di cui non conosceva la risposta, inventando storie su un luogo che visitava per la prima volta. La sensazione del sale tra le dita è l’unico ricordo che il suo corpo conserva di quella improbabile gita.
I loro gesti