Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Robot 82
Robot 82
Robot 82
Ebook326 pages4 hours

Robot 82

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

romanzo (237 pagine) - Racconti di Charles Stross, Amal El-Mohtar, Franco Ricciardiello, Daniele Brolli, Maurizio Cometto, Elena di Fazio. Interviste con Valerio Evangelisti, Julie Dillon. Articoli su Star Trek e James Blish, American Gods

Una donna che si sottomette per compiacere il marito e una che pur di evitare gli uomini imprigiona se stessa. Sono le due storie speculari raccontate da un’autrice di rarà sensibilità e dal tocco gentile, Amal El-Mohtar, nel racconto vincitore del Premio Hugo Stagioni di ferro e vetro che introduce un numero di Robot che sui rapporti complicati torna in vari modi. Dagli amanti che si inseguono attraverso il tempo e lo spazio di Elena di Fazio alla storia di un tradimento raccontata da Franco Ricciardiello, a un rapporto speciale tra compagni d’ospedale nella Salamandra di Daniele Brolli. Mentre Maurizio Cometto ci porta ai margini di un sogno, Charles Stross ci scaraventa nell’incubo di una guerra più che fredda, e popolata di mostri: quelli antichi risorti dall’abisso, e quelli moderni estratti dall’atomo. Se non è un rapporto complicato questo…

Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 21, 2017
ISBN9788825404135
Robot 82

Read more from Silvio Sosio

Related to Robot 82

Related ebooks

Science Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Robot 82

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Robot 82 - Silvio Sosio

    Stop

    EDITORIALE

    Niente traduttori nel futuro della traduzione

    Silvio Sosio

    «La vodka è buona ma la carne è marcia». Questa frase è stata per tanto tempo una sorta di monito: i computer possono fare tante cose, ma hanno dei limiti oltre i quali gli esseri umani non possono essere sostituiti. Uno di questi limiti era la traduzione. Dando da tradurre al computer la frase The spirit is willing, but the flesh is weak («lo spirito è disposto ma la carne è debole») il computer non sarebbe stato in grado di capire dal contesto la differenza tra spirito nel senso di volontà e spirito nel senso di essenza alcolica.

    Ancora qualche anno fa, nei primi tempi di internet, un passatempo divertente era provare a tradurre automaticamente frasi in inglese e a ritradurle in italiano, e spanciarsi dal ridere leggendo le assurdità che uscivano.

    Oggi si ride molto di meno. Soprattutto, temo, ridono meno i traduttori.

    La traduzione automatica, o machine translation in inglese, è un’idea che circola nel mondo dell’informatica praticamente dalle origini dell’informatica stessa. I primi studi risalgono al 1949, le prime dimostrazioni di programmi traduttori al 1954. USA, Russia, Giappone, Inghilterra, progetti in tutti i paesi più avanzati. Già durante la guerra del Vietnam i manuali militari erano tradotti automaticamente dall’inglese al vietnamita.

    Oggi il servizio Google Translate è usato su larga scala: si stima che traduca ogni giorno l’equivalente di un milione di libri.

    Ma potremo mai usarlo per sostituire davvero un traduttore? Non per tradurre un manuale tecnico o un documento commerciale: parlo di opere letterarie. Provate a fare una domanda di questo tipo in ambito editoriale e otterrete nel migliore dei casi sguardi compassionevoli. Eppure.

    Per capire quali sono le prospettive reali dobbiamo innanzitutto farci un’idea di come funzioni la traduzione automatica.

    Intuitivamente l’idea potrebbe essere prendere ogni parola e cercare nel dizionario la traduzione. Naturalmente ci sono diversi problemi: le frasi in lingue diverse vengono costruite in modo diverso, e le parole possono avere diverse traduzioni a seconda del contesto.

    Capire la struttura della frase non è impossibile; farsi un’idea del contesto è già meno facile. C’è un modo però: l’approccio statistico. Riducendo le frasi a schemi un programma può fare un’analisi delle frasi vicine e avere una valutazione di quale traduzione sarebbe più corretta in quella situazione.

    Il sistema di traduzione automatica di Google è stato per lungo tempo basato sull’analisi statistica. Nel 2005 vennero fatti digerire al sistema documenti tradotti in varie lingue all’ONU, qualcosa come mezzo miliardo di pagine. L’affidabilità della traduzione del sistema fece improvvisamente un balzo in avanti.

    Ma Google (e i suoi concorrenti) non si sono fermati. Oggi la frontiera sono le reti neurali: sistemi che replicano in forma artificiale i meccanismi di pensiero di un cervello biologico. Le reti neurali sono utilizzate per svolgere compiti che fino a poco tempo fa pensavamo fossero appannaggio degli esseri viventi: riconoscere volti e oggetti, capire il linguaggio parlato, interpretare testi scritti, eseguire diagnosi mediche.

    Vengono alimentate con enormi quantità di esempi dai quali sono in grado letteralmente di imparare. La macchina neurale per la traduzione automatica di Google oggi è in grado di tradurre in inglese una trentina di lingue (e viceversa).

    È vero: le traduzioni attuali sono ancora lontane dall’essere perfette. Le traduzioni di singole frasi quasi sempre sono abbastanza buone, ma se si prova a tradurre un intero articolo si scoprirà che il lavoro da fare per sistemare il risultato non sarà poca cosa.

    E, tuttavia, i progressi sono impressionanti.

    Se la continua escalation verso l’intelligenza artificiale deve preoccuparci sotto diversi punti di vista (dalla perdita di posti di lavoro alle guerre mondiali previste da Elon Musk per l’accaparramento di materiali e tecnologie, fino all’ipotesi Skynet sempre meno fantascientifica) senza dubbio apre anche molte opportunità. Una di queste potrebbe essere proprio la traduzione automatica totale.

    In Star Trek e nella Guida Galattica per Autostoppisti abbiamo visto all’opera i traduttori universali. Restando nell’ambito della letteratura, possiamo cercare di immaginare un mondo in cui qualunque testo scritto, in qualunque lingua, sia accessibile e leggibile da chiunque.

    Da sempre gli autori italiani invidiano inglesi e americani che, grazie alla loro lingua, possono accedere a un mercato enormemente più vasto. Questo è destinato a finire. La caduta della barriera linguistica permetterebbe finalmente agli autori di casa nostra di invadere le librerie di tutto il mondo.

    O forse no. Dopotutto in altri settori dove la lingua è meno rilevante, come la musica, il predominio anglo-americano a livello globale sussiste ugualmente. Ci sono altri fattori in gioco, come la forza commerciale delle aziende dietro gli artisti e la stessa egemonia culturale americana che al momento sussiste anche se forse è in declino. A livello letterario sospettiamo che il dominio anglofono non sia dovuto solo alla lingua ma anche a un modo di scrivere più efficace, più accessibile, più pragmatico. Discorso lungo.

    Anche senza ribaltare il mondo dalle fondamenta in un giorno solo è facile immaginare che le cose cambierebbero radicalmente. Così come oggi un autore italiano può raggiungere facilmente lettori italiani in tutto il mondo grazie alla rivoluzione degli ebook, domani autori non anglofoni potrebbero raggiungere curiosi, amanti della loro cultura o anime affini in ogni parte del mondo.

    Chi mai si prenderebbe il disturbo di pagare la traduzione di un romanzo di fantascienza scritto in tailandese, o anche solo in islandese? Di recente è uscito in Italia Il problema dei tre corpi di Cixin Liu, bestseller di fantascienza a livello mondiale, ma difficilmente sarebbe stato economico tradurlo dal cinese: arriva in Italia, infatti, tradotto dall’inglese. Ma quante altre opere potrebbero esserci in Cina, in Corea, in Russia, che potrebbero incontrare i nostri gusti?

    I traduttori non cesserebbero di esistere. Plausibilmente il loro lavoro resterebbe ancora per qualche tempo migliore di quello delle macchine e le opere importanti continuerebbero ad avere traduzioni umane. Tuttavia non è detto che il lettore le preferirebbe a un testo comunque leggibile anche se artisticamente meno sofisticato, soprattutto se il costo del libro dovesse risentire del costo della traduzione manuale.

    La traduzione automatica probabilmente influirebbe anche sul modo di scrivere. In fase di revisione gli scrittori prenderebbero l’abitudine di tradurli e controtradurli, sistemando le frasi in modo da ottenere traduzioni automatiche migliori. Potrebbero insomma rinunciare a qualche raffinatezza artistica in cambio di un pubblico molto più vasto. O potrebbero loro stessi contribuire al corpus di esempi fornito al software di traduzione. Almeno finché, dopo qualche anno, l’ulteriore sofisticazione dei programmi non rendesse inutile questo lavoro.

    Diventerà del tutto inutile studiare le lingue. Entro qualche decennio quasi nessuno conoscerà più lingue diverse dalla propria. La maggior parte delle cose che leggeremo e sentiremo sarà tradotta automaticamente da intelligenze artificiali.

    E sarà allora che comincerà.

    Piccoli dettagli cambiati. Piccole parole spostate. Un nome lì, un aggettivo là. L’apparenza di certo prodotto un po’ migliorata, un certo abito presentato un po’ meglio, o un po’ peggio. Un’idea presentata in un modo un po’ diverso. Un’opinione influenzata.

    L’immensa potenza di elaborazione delle IA calcolerà esattamente quali dettagli spostare per cambiare il baricentro del mondo. Nessuno si accorgerà di nulla.

    Finché a qualcuno non verrà in mente di accendere il proprio smartphone, fare clic sull’icona del microfono e chiedere Dio esiste?

    Illustrazione di Luca Vergerio

    NARRATIVA

    Stagioni di ferro e vetro

    Amal El-Mohtar

    Traduzione di Marco Crosa

    Amal El-Mohtar, nata a Ottawa nel 1985 da immigrati libanesi, ha studiato in Canada e in Inghilterra e vive in Scozia.

    Cura Goblin Fruit, una webzine trimestrale dedicata alla fantastical poetry. Ha pubblicato The Honey Month, antologia che raccoglie ventotto variazioni sul tema del miele e un’altra ventina di storie brevi tra cui La verità sui gufi, premio Locus 2015, uscita su Robot 77. (FL)

    Per Lara West

    Tabitha cammina e pensa alle scarpe.

    Pensa alle scarpe ormai da molto tempo: a quanto dureranno tre paia e mezzo, per essere precisi, anche se col ferro è difficile capirlo. Più facile stimare quante paia ne restano: delle sette con cui è partita ne rimangono tre, allacciate saldamente ad appesantire l’esterno dello zaino che trasporta. Le stagioni non rimarranno ferme, le scivoleranno accanto come il paesaggio, quindi non sa dire con certezza se un anno di cammino basta a consumare una suola, ma le sembra abbastanza plausibile. Parte sempre con l’intenzione di contare i passi iniziando dal prossimo paio, ma è facile distrarsi.

    Pensa alle scarpe perché non può avanzare in altro modo: ogni cinghia di ferro taglia, sfrega, provoca contusioni, fa spuntare vesciche e il dolore alimenta la loro capacità di attraversare fiumi, montagne e gli spazi d’aria vuota in mezzo ai dirupi. Deve camminare, o le scarpe non si consumeranno mai. Le scarpe devono essere consumate.

    Indossarne un paio nuovo è sempre difficile.

    Tre paia di scarpe fa si trovava in una pineta, il cui odore verde e pungente le aveva risvegliato qualcosa dentro, qualcosa che era più del torpore, di un numerico ammontare. (Montare? Ma la conosco appena! Quella freddura l’aveva fatta ridere, a intermittenza, per una settimana intera.) Era rabbrividita nei raggi di luce sottili come aghi, si era avvolta le braccia nel mantello di pelliccia ma aveva stiracchiato le dita dei piedi nel terriccio autunnale e poi aveva pianto, provando per un attimo qualcosa di simile alla libertà… prima che i numeri tornassero a strisciarle dentro insieme al freddo, e il pensiero uno è andato, ne restano sei si era fatto strada nel suo sollievo: dunque era possibile consumarne almeno un paio nel corso di una vita.

    Due paia di scarpe fa era in mezzo a un lago, camminando a grandi falcate sulla superficie di un blu profondo, quando l’ultimo brandello di suola aveva ceduto. Era caduta e aveva cominciato ad annaspare per sciogliere le cinghie, armeggiando confusamente per staccare dallo zaino il paio successivo, affondando finché non si era spezzata un dito nel calzarlo a forza e quindi ritrovandosi di nuovo sulla superficie, ad arrancare zoppicando verso la riva più lontana.

    Un paio di scarpe fa era in riva al mare. Si era bagnata i piedi nell’acqua salata e aveva guardato le stelle, chiedendosi se annegare sarebbe stato doloroso.

    Ricorda le calzature indossate dai suoi fratelli: un paio di stivali delle sette leghe, fatti di morbido cuoio; sandali alati; pantofole satinate che facevano diventare invisibili. Com’era strano, pensa, che i suoi fratelli avessero scarpe che alleggerivano i loro passi e restringevano il mondo, rendendolo piccolo e facile da esplorare, da scoprire.

    Forse, pensa, non era affatto strano: perché le scarpe non dovrebbero aiutare a viaggiare chi le indossa? Forse, pensa, la cosa davvero strana sono le scarpe che devono indossare le donne: scarpe di vetro; scarpe di carta; scarpe di ferro arroventato al calor bianco; scarpe nelle quali ballare fino alla morte.

    Che strano, pensa, e intanto cammina.

    Amira fa dell’immobilità un’arte.

    Siede in cima a un alto colle di vetro, la cui sommità è modellata a formare una specie di trono, robusto e levigato, perfettamente adatto a lei, purché non si muova. La magia la cinge, radica la sua immobilità nel trono. Qui lei ha resistito a tempeste, la pioggia dalle dita sottili che luccicava tra vetro e gonna, tra pelle e capelli, cercando di smuoverla in questa o l’altra direzione; ma lei ha resistito a schiena rigida, diritta, tenendo in grembo una mela dorata.

    A volte ha fame, ma la magia pensa anche a quello; spesso è stanca e la magia incoraggia il sonno. La magia le impedisce di scottarsi la pelle bruna durante il giorno e ai suoi piedi vestiti di seta di gelarsi durante la notte… purché stia immobile, purché mantenga il suo vitreo seggio sulla sua vitrea collina.

    Dalla sua posizione sopraelevata riesce a vedere molte cose: contadini che lavorano i campi; viaggiatori che camminano da un villaggio all’altro; a volte una rapina o un assassinio. Ci sono molte cose per cui vorrebbe scendere dalla sua collina e raccontarle alla gente, se non fosse per i pretendenti.

    Raggruppati e schiamazzanti intorno alla base del colle di vetro vi sono i cavalieri, i principi, i figli dei pastori che si sono perdutamente innamorati di lei. Si gridano incoraggiamenti a vicenda mentre incitano i loro destrieri da guerra a salire la collina, infrangendosi su di essa un’ondata dietro l’altra, tendendo le braccia verso di lei.

    Mentre scivolano giù dal pendio levigato, i cavalli coperti di schiuma, le gambe contorte o spezzate, le gridano contro imprecazioni: quella troia, quella strega, non riesce a capire quello che gli sta facendo, puttana di vetro su un colle di vetro, la prenderanno domani, domani, domani.

    Amira stringe la sua mela dorata. Di giorno si distrae con gli uccelli: tutte le oche selvatiche che volano sopra di lei, i gabbiani e i rondoni e le rondini, le allodole. Ricorda una storia su vesti di ortiche gettate ai cigni e si chiede se potrebbe allungare la mano e staccare una piuma da loro per farsi un paio di ali.

    Di notte disegna con la mente delle forme intorno alle stelle, immagina che le costellazioni note assumano diverse configurazioni: e se il grande mestolo fosse invece un falcetto, o magari un orso? Quando esaurisce gli uccelli e le stelle, ricorda che è stata lei a scegliere questo.

    Tabitha scorge la collina di vetro dapprima come una lama di luce che traccia un verde arco attraverso il suo campo visivo, poi distoglie lo sguardo. Sta uscendo proprio ora da una foresta; il sole del mattino è spietato, fulgido ma senza traccia di calore; l’erba coperta di brina crepita sotto la pressione dei suoi tacchi di ferro, ma una piccola parte le lascia un fresco sollievo sulla pelle esposta attraverso le cinghie.

    Si siede sul margine della foresta e osserva la luce cambiare.

    Ci sono degli uomini alla base della collina; il loro chiasso è un sordo fruscio che le ricorda l’oceano. Li osserva spronare i cavalli fino a farli sanguinare. C’è una magia potente in quella collina, pensa, per spingere gli uomini a comportarsi in modo tanto sciocco; una magia potente in quella collina, per resistere a così tanti zoccoli ferrati.

    Abbassa gli occhi sui propri piedi, poi guarda la collina. Stima la qualità del suo dolore in numeri, ma non in gradazioni: se il suo dolore è un sei significa che è freddo, blu con un margine tagliente; se è un sette è rosso, infiammato e sanguinante; se il suo dolore è un tre ha un sentore giallo e arrotondato, sordo e forse gocciolante di infezione.

    Al momento il suo dolore è un cinque, verde e marroncino, solido e stabile, e dovrebbe bastarle ad affrontare la salita.

    Aspetta fino al tramonto, poi si incammina nella radura.

    Amira vede una nebbiolina levarsi al calar del sole, e il suo cuore canta nel vedere ogni cosa diventare così soffice: un grande silenzio cala su tutto, un odore d’acqua che non contiene miasmi di sangue o di sudore. Adora vedere il mondo così sbiadito, così silenzioso, così tranquillo.

    Il cuore manca un battito quando sente grattare da qualche parte sotto di lei, in qualche punto tra la bruma: qualcosa che sfrega, quasi un rumore di grattugia, saldo come non lo sono i suoi nervi, perché qualcosa sta scalando il colle di vetro e non è così che dovrebbe andare, nessuno dovrebbe essere in grado di raggiungerla, ma la magia è magia ed esiste sempre una magia più forte… All’inizio pensa che sia un orso, poi distingue un cappuccio di pelliccia, scorge un mento pallido e delicato sotto le falde, una bocca larga e contorta in un ringhio tutto denti dalla fatica dell’ascesa.

    Amira guarda fisso, incerta, mentre lo sconosciuto incappucciato e senza cavallo raggiunge la sommità e si ferma, si china e ansima, lasciando ricadere il caldo peso del cappuccio. Amira vede una donna e la donna vede lei, e la donna somiglia a una piuma e a una spada e sembra molto, molto affamata.

    Amira offre la sua mela dorata senza dire niente.

    Tabitha aveva pensato che la donna davanti a lei fosse una statua, un ornamento di rame, un idolo, finché non aveva mosso il braccio. Una parte di lei sente che dovrebbe riflettere prima di accettare del cibo da una donna magica in cima a un colle di vetro, ma è sovrastata da un appetito famelico che non prova da settimane; perdendosi nelle scarpe, dimentica lo stomaco fino a quando la debolezza non minaccia di impedirle di mettere un piede davanti all’altro.

    La mela non sembra cibo, ma la morde e la buccia si rompe come zucchero filato, la polpa gocciola un succo limpido e dolce. La mangia, torsolo e tutto, prima di guardare di nuovo la donna sul trono e dirle – con un’asprezza che non sente o intendeva usare – Grazie.

    – Mi chiamo Amira – dice la donna, e Tabitha si stupisce per come riesce a parlare senza muovere nessun’altra parte del corpo, quanto sia misurato il funzionamento della sua bocca. – Sei venuta a sposarmi?

    Tabitha sgrana gli occhi. Si asciuga il succo dal mento, come se così facendo potesse cancellarsi dal ventre la mela dorata. – Devo farlo?

    Amira batte le palpebre. – No. Solo che… è il motivo per cui la gente prova a scalare la collina, sai.

    – Oh. No, io… – Tabitha tossisce, leggermente imbarazzata. – Sono solo di passaggio.

    Silenzio.

    – La nebbia era fitta, mi sono confusa…

    – Hai scalato… – la voce di Amira è molto bassa – …una collina di vetro… – e infine – …per sbaglio?

    Tabitha giocherella con l’orlo della camicia.

    – Be’ – dice Amira – è un piacere conoscerti, ah…

    – Tabitha.

    – Sì. Molto lieta di conoscerti, Tabitha.

    Altro silenzio. Tabitha si mordicchia il labbro inferiore mentre scruta nel buio verso la base della collina. Poi, sottovoce: – Perché sei quassù?

    Amira la guarda freddamente. – Per sbaglio.

    Tabitha sbuffa. – Capisco. Molto bene. Guarda qui. – Tabitha indica i suoi piedi stretti nelle stringhe di ferro. – Devo consumare queste scarpe fino in fondo. Sono magiche. Ho la sensazione che quanto più sia strana la superficie – quanto più sarebbe difficile camminarvi sopra normalmente – tanto più in fretta si consumi la suola. Perciò la tua collina magica, qui…

    Amira annuisce, o almeno a Tabitha sembra annuire… ma potrebbe trattarsi solo di un batter di ciglia un po’ più lungo a dare l’impressione che la sua testa si muova.

    – …sembrava proprio fare al caso mio. Non sapevo che ci fosse qualcuno sulla cima, però; ho aspettato che gli uomini giù di sotto se ne andassero, perché sembrava una marmaglia poco raccomandabile…

    Amira non rabbrividisce davvero, ma la qualità della sua immobilità diviene più densa. Tabitha sente qualcosa di simile a una sensazione di allarme iniziare a ronzarle sorda nella pancia.

    – Se ne vanno quando le notti si fanno più fredde. Ma tu sei la benvenuta, se vuoi fermarti – dice Amira in tono di profonda cortesia – a sfregare le scarpe contro il vetro.

    Tabitha annuisce e si ferma, perché da qualche parte nella musica misurata delle parole di Amira sente suonare un ti prego.

    Amira si sente frastornata, seduta lì a chiacchierare con qualcuno che non ha intenzione di distruggerla, di farla a pezzi per carpire la metà del regno che le appartiene.

    – Sono stati loro a metterti quassù? – chiede Tabitha, e Amira trova strano sentire della rabbia non diretta verso di lei, una rabbia che sembra al suo servizio.

    – No – dice piano. – L’ho scelto io. – Poi, prima che Tabitha possa dire qualcos’altro: – Tu perché cammini dentro scarpe di ferro?

    La bocca di Tabitha si apre ma le parole si bloccano, e Amira le vede mutare direzione come un nugolo di storni dentro la sua gola. Decide di cambiare argomento.

    – Hai mai sentito i rumori che fanno le oche quando ti volano sulla testa? Non i loro versi, quelli li sentono tutti, ma il fruscio delle loro ali. Hai mai sentito frusciare le loro ali?

    Tabitha sorride un po’. – Sembra un tuono, quando si alzano in volo da un fiume.

    – Come? Oh. – Una pausa; Amira non ha mai visto un fiume. – No… non è affatto così quando ti volano sulla testa. È… un crepitio, come lo sportello di una stufa che non cigola, come se le oche fossero macchine vestite di carne e piume. È un suono bellissimo – sotto i loro schiamazzi c’è come un basso ronzio, ma se volano in silenzio, è come… un vestito, in qualche modo; come se tu potessi ascoltare nel modo giusto e scoprire che ti sono cresciute le ali.

    Senza accorgersene, Amira ha chiuso gli occhi mentre parlava delle oche; li riapre e vede Tabitha osservarla con singolare concentrazione, e per un attimo si sente disorientata da quell’esame. Non è abituata a essere ascoltata.

    – Se siamo fortunate – dice piano, facendosi girare tra le

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1