Abbecedario delle sciocchezze da non scriversi
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Le definizioni di Alessandro Zaltron aiutano a risvegliare quell’atteggiamento critico che sarebbe doveroso mantenere sempre attivo verso il linguaggio, nella consapevolezza che “chi è impreciso nel poco lo sarà nel molto”.
Da un attimino a come dire, da eccellenza a in qualche modo, la rassegna di questo spiritoso Abbecedario è un prontuario a cui ricorrere ogni volta che si è presi dal dubbio prima di usare una parola ‘sospetta’, e un trattatello di cui far tesoro per contribuire in prima persona a preservare la salute della nostra lingua.
“La lingua usata con noncuranza, in modo sciatto, è, almeno per il popolo italiano, il corrispettivo dell’infrazione sistematica dei parcheggi per disabili o dell’evasione elusiva di tasse e previdenza – cioè l’identica manifestazione di indolente distacco da norme e convenzioni che valgono per tutti ma che tutti interpretano a proprio capriccio”.
Il libro è illustrato dalle lettere di un alfabeto disegnato da Enrico Sabadin.
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Abbecedario delle sciocchezze da non scriversi - Alessandro Zaltron
(IM)PORTANTI
PREFAZIONE
di Vera Gheno
Alessandro e io condividiamo un amore, o forse un’ossessione (nota, ahinoi, a tutti coloro che ci conoscono): ci piace usare l’italiano con attenzione, selezionare le parole oculatamente. A volte le cerchiamo quasi fossero gemme rare; non siamo soddisfatti finché non abbiamo trovato quella che fa perfettamente al caso nostro, la più icastica , direbbe Italo Calvino. Io sociolinguista, lui scrittore, entrambi cercatori di perle sotto forma di parole.
L’amore per la lingua reca inevitabilmente con sé il fastidio per le parole logorate dal troppo uso, che la linguista Ornella Castellani Pollidori chiamava plastismi o, globalmente, lingua di plastica . Sono quelle che si incontrano spesso sui mezzi di comunicazione di massa e che magari vengono riproposte per darsi un tono, oppure per sentirsi parte di una specifica comunità di parlanti che condivide un’enciclopedia di conoscenze: e così è tutto un fiorire di weekend da bollino nero, gente comune o saluti al piccolo angelo volato in cielo. Ovviamente gli àmbiti in cui la stereotipia linguistica regna sovrana ( vedi ) sono diversi, alcuni così marcati da aver dato origine a degli -esi: l’aziendalese, il burocratese, il doppiaggese… Tra i malvezzi rientra anche l’inglese impiegato in maniera innecessaria; qui siamo nel contesto dei forestierismi di lusso, termini stranieri senza i quali potremmo vivere benissimo, e invece: location, food and wine, know-how, skills, mission e così via.
Alessandro parla di appiattimento delle nostre competenze lessicali su poche centinaia di parole al giorno. Questa impressione è suffragata da dati reali: il Vocabolario di base dell’italiano, stando al compianto Tullio De Mauro, è formato dai circa 2.000 termini del lessico fondamentale, che rappresentano il 90% dei nostri discorsi quotidiani (parole come casa, fiore, pane), da circa 2.500 termini del lessico di alto uso, che formano l’8% del nostro parlare di tutti i giorni (come barzellettao splendore) e infine circa 2.000 parole di alta disponibilità, che conosciamo molto bene ma che non usiamo quasi mai attivamente, ossia ci capita più spesso di sentire (come orizzontale). Poco meno di 7.000 parole sono quelle che ci permettono di vivere la nostra vita senza grossi problemi, e di queste, quelle che usiamo più spesso sono solo 2.000. Ma le parole della nostra lingua sono, anche rimanendo molto bassi con le stime (perché è difficile calcolare quanti siano esattamente i termini che compongono una lingua di cultura), almeno 250-300.000.
Questa differenza tra lessico esistente e parole usate di consueto porta a due conseguenze fondamentali, secondo me.
La prima: possiamo