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Esistenza e Significato
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Esistenza e Significato

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La necessità di dare un significato alle cose segna, allo stesso tempo, l'impossibilità di avere certezze in merito. Così lì dove c'è l'interpretazione ermeneutica c'è il mistero, la possibilità della fede. Da qui l'intreccio e l'incontro con l'esperienza religiosa. Nella natura stessa dell’argomento affrontato fa da sfondo il sovrapporsi di un piano votato alla ricerca dell’assoluto che si scontra spesso con la dimensione storica, relativa, che quella ricerca assume nel discorso umano. E’ il paradosso del mediare tra i contesti e le sue forme con l’origine e il senso di tutti i contesti e di tutte le forme. Qui cerco di calare un simile paradosso, farlo mio e proporlo. Per questo ho trovato opportuno impostare una prima ricerca verso l’assoluto quando parlo della possibilità o meno di una metafisica, ed una verso l’analisi e la scelta di una forma relativa dell’assoluto nella storia, quando parlo dell'orizzonte cristiano.
LanguageItaliano
Release dateNov 3, 2017
ISBN9788827510469
Esistenza e Significato

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    Esistenza e Significato - Fabio Luffarelli

    r

    ESISTENZA E SIGNIFICATO

    Fabio Luffarelli

    f

    Copyright © 2006 , Publisher: Fabio Luffarelli

    Standard Copyright license

    fabio.luffarelli@yahoo.it

    PREMESSA

    La fede, come qualsiasi altra credenza, è esperienza quindi la sua trasmissione razionale è legata in primo luogo ai sentimenti che essa produce, piuttosto che dalla logica di cui spesso si veste. Non di rado sentimento e ragione si confondono nel tramite dell’esperienza, in proporzioni che variano dagli individui, le culture e il periodo storico. In ogni caso, ogni vissuto è la narrazione di una mia esperienza sul mondo, tutto ciò è il motore primo che alimenta e fa mutare le nostre credenze. Tali constatazioni possono apparire scontate ma è più opportuno stupirci delle abitudini, per poterne verificare le fondamenta. Chi si stupisce regnerà dice Gesù in uno dei tanti vangeli apocrifi. D’altra parte ancora prima Platone e Aristotele legano il bisogno di filosofare al sentimento della meraviglia, ovvero al senso di stupore e inquietudine sperimentata dall’uomo, allorchè, ormai libero dalle necessità materiali, comincia a interrogarsi sull’esistenza. Ironia della sorte, oggi, quelle stesse necessità materiali dalle quali pensavano di esserci affrancati, ci costringono più che mai in una serie di bisogni indotti.

    Dunque, scendere giù da quello che diamo per scontato può essere un buon motivo per vedere se effettivamente lo è, se c’è una motivazione o una pura ripetizione nell’agire. Qui ci giochiamo la partita tra convinzione e convenzione.

    Questo lavoro è nato in tanti modi; è stato un’esperienza contro la convenzione, un modo di costruire il mondo a partire da una nuova curiosità della sua presenza, quindi per giungere ad una convinzione. Raccolgo, con un bel po’ di ambizione in meno, lo stimolo di Jean Guitton sulle questioni relative all’esistenza di Dio, alla divinità di Gesù, infine sull’unità e la verità evangelica delle chiese cristiane: "una mente capace di abbracciare queste tre questioni fondamentali". Certo, senza voler avere la presunzione di risolvere questi annosi argomenti in modo esaustivo e, perdipiù, oggettivo e obiettivo (cosa peraltro impossibile), tento semplicemente di calare in me un simile proposito, visto che da tutto quel sostrato di convenzioni culturali provengo. Di conseguenza si tratta di un percorso individuale, anche perché, aldilà delle tematiche storiche e più o meno scientifiche che può incarnare la proposta di Guitton, di fatto non ci sono molte altre alternative per portare avanti una tale ricerca.

    Da un punto di vista strutturale si hanno due parti, la prima di ricerca sul senso dell’essere associato alla sua esistenza; la seconda, più storica, in cui le religioni della rivelazione (ebraismo-cristianesimo e islam) vengono approfondite. Quindi, nella seconda parte prenderò in considerazione Dio che storicamente si ritiene sia disceso in mezzo agli uomini. Dal punto di vista antropologico la rivelazione possiede un ruolo tutto particolare: se l’uomo fa (o vuole fare) esperienza di Dio, quest’ultimo non può che fare esperienza dell’uomo.

    Parlando della realtà come segno, fonte e oggetto di interpretazione, non possiamo che parlare di Esistenza e Significato. Non decidiamo mai se esistere o significare, ovvero tra agnosticismo epistemologico e il credere, piuttosto, in quanto essere umani interpretanti e simbolici, esistiamo e significhiamo. Quindi il punto non è credere o meno, quanto in cosa e come credere. Ma vi è anche un altro aspetto: la contiguità che il termine di significato riveste nella filosofia del linguaggio consente di relazionarsi più facilmente con una consistente parte del pensiero contemporaneo. Infine, come si avrà modo di approfondire, il concetto di significato non lo intendo (almeno concettualmente parlando) in analogia con quello di senso: tant’è che con il primo delineo le interpretazioni date a contatto con il reale e poste a fondamento del vivere (gli scopi), con il secondo la propensione di ogni uomo nel cercare queste interpretazioni. Si cerca un senso, per dare un significato al reale (una credenza, un’interpretazione più o meno formalizzata) che ci spinge a determinati scopi. In particolare, nel momento in cui andrò ad indagare l’interpretazione cristiana del mondo, analizzerò una struttura significante che nasce dalla ricerca di senso. In un altro mio lavoro, Pensieri al margine, mi occupo, per quanto sommariamente, della peculiarità del senso. In altri termini, l’enigma sul senso del mondo cerca una risposta in un significato rappresentativo da attribuirgli; in questo caso il cristianesimo. Rappresentativo nel senso di rappresentare bene, all’interno di un certo punto di vista, un determinato paradigma.

    PARTE INTRODUTTIVA:

    POSSIBILITÀ DEL PENSIERO METAFISICO

    Io l’ho visto un altro mondo, a volte penso solo di averlo immaginato.

    (il Witt del film La sottile linea rossa)

    Né ridere né piangere, ma capire

    (Baruch Spinoza)

    L’INTERPRETAZIONE DEL MONDO, IL MONDO DELL’INTERPRETAZIONE

    Insomma, è col significato in quanto idea che ce l’ho. (Willard Van Orman Quine)

    Dall’interpretazione del mondo a vivere del mondo dell’interpretazione, è questo, credo, l’uomo. Posto in questa dinamica interpreta sempre e comunque il mondo, anche quando non vuole perché non pensa di farlo. L’importante sta nel giocarci, come uomini, la carta della nostra interpretazione nella scommessa della vita. Certo, tra un condizionamento e l’altro, tra coscienza e incoscienza ma è in questo connubio la scommessa. In un simile mix, del proprio e dell’alieno, sta la singola originalità di ogni uomo che vede il mondo. La costruzione di significati è quindi duplice: da un noi più o meno volutamente e consapevolmente spoglio di determinazioni, al mondo; dal mondo a noi, da noi a un nuovo ritorno al mondo. Non c’è alcunché di relativista o di oggettivista: c’è propriamente l’incontro, un incontro da cui nasce l’esistenza. Vivere è incontrarci con il mondo e con il mondo dell’altro: altro culturale, personale, interiore. L’incontro con il tutto che ci circonda è l’apertura a un noi diverso da quell’incontro.

    Diverse teologie contemporanee (le teologie della morte di Dio, della secolarizzazione, liberali ecc.) nascono proprio dall’accresciuta consapevolezza dell’incrociarsi tra Dio e la sua morte, tra Dio e un universo ormai divenuto capace anche di trovare risposte senza di lui. Queste teologie non di rado hanno cercato di cambiare il cristianesimo per adattarlo ad un mondo ormai divenuto adulto (Bonhoeffer). Il problema non sta solo nel conformare (denaturando) il cristianesimo ad un’epoca secolarizzata, ma anche di riportare, al contempo, l’uomo ad una visione più conforme al pensiero spirituale, interiore. Intendendo con dimensione religiosa l’attitudine a crearsi orizzonti di senso: delle risposte esistenziali per l’esistenza.

    È lecito dire che se l’uomo è di per sé un essere che interpreta la realtà, ciò gli riesce tanto più naturale nel momento in cui la sua esperienza si fa problematica. Ebbene, se l’incontro tra fede e contemporaneità è problematico ecco affacciarsi l’esigenza dell’ermeneutica. Qui si offre proprio un’ermeneutica esistenziale, che vede nell’interpretazione della vita sui termini di significato, senso e scopo degli assi portanti. Con questa consapevolezza penso sia opportuno ricondurre esplicitamente l’uomo nella sua condizione esistenziale. L’interesse per il senso delle cose porta all’interesse per un atteggiamento di fede, rinnovando al contempo ciò che con quest’ultima intendiamo (il passaggio dalla convenzione alla convinzione). In quest’ottica tante volte sarebbe di gran lunga più saggio occuparsi della vita delle persone: di come vivono e di conseguenza cosa credono, piuttosto che parlare di contemplazione e fede (religiosamente connotata) a persone che non hanno mai vissuto tali esperienze. Da qui prende il via un discorso esistenziale fondamentale, che non implica astratte ricerche epistemologiche ma la vita degli individui. Parlare di come intendiamo l’esistenza è un discorso intimo: alla radice di tutto ciò che siamo, potremmo non saperlo se non costretti a porci certe domande a fronte di determinati eventi. Evidentemente ciò accade perché noi tutti cerchiamo cose che esulano dal ricordarci la possibilità di una messa in discussione dell’esistenza, dandola per scontata, a maggior ragione in una modernità che tutto pianifica e previene. In questo modo non siamo più portati a credere alla realtà, cioè all’aspetto problematico della vita.

    Questo libro è in fondo un approccio critico ad una metafisica inevitabile, culturalmente identificata nel cristianesimo. Segna un incontro, uno dei tanti possibili di un soggetto con l’esistenza. Nella natura stessa dell’argomento affrontato fa da sfondo, come si noterà, l’intrecciarsi di un piano votato alla ricerca dell’assoluto che si scontra spesso con la dimensione storica, relativa, che quella ricerca assume nel discorso umano. È il paradosso del mediare tra i contesti e le sue forme con l’origine e il senso di tutti i contesti e di tutte le forme. Qui cerco di calare un simile paradosso, farlo mio e proporlo. Per questo ho trovato opportuno impostare una prima ricerca verso l’assoluto quando parlo della possibilità o meno di un Dio, ed una verso l’analisi e la scelta di una forma relativa dell’assoluto nella storia quando parlo del cristianesimo.

    Incontrarsi è interpretare, concentrarsi sull’interpretazione dell’incontro e l’incontro delle interpretazioni può dischiudere nuovi mondi, di sintesi, di distinzione o comunque sempre di identità. L’incontro è identità, maturazione o il definirsi stesso di un’ identità. Incontrarsi vuol dire sempre darsi un significato nella comunicazione che svolge l’incontro, in seguito l’aprirsi è una diretta conseguenza di un vero incontro. In fondo i punti chiave di questa ermeneutica esistenziale non sono che: la ricerca esistenziale quale un convenire tra il noi e il mondo, cioè la consapevolezza di una presenza già data. Un approccio verso la conoscenza, frutto attento dell’interpretazione del sé con l’altro (inteso in vari modi, ma in generale indice della realtà esterna dal noi), quindi l’apertura alle interpretazioni diverse che l’uomo dà all’alterità.

    Da questi presupposti è chiaro come il cristianesimo sia un complesso di significati che utilizzo criticamente, per tradizione culturale e influenza di concetti, con lo scopo di legare significativamente la mia soggettività a tutto ciò che ne è fuori. In questo senso il cristianesimo, come qualsiasi altro costrutto sociale condiviso dal quale si è stati condizionati, è un punto di partenza e di arrivo che si mette in discussione proprio in virtù di quell’incontro che si continua a subire con tutto l’esistere.

    HA SENSO PORSI DOMANDE DI SENSO?

    Una distinzione classica in filosofia è quella tra valori e fatti: i primi connotati dall’umano, in cui ci configuriamo come misura di tutte le cose attraverso la loro interpretazione (la cultura); i secondi sono datità oggettiva di cui ne viviamo semplicemente le occorrenze (fisica e biologia). Su questa distinzione possiamo edificare molte altre dicotomie: sentimento e ragione, scienze umane e scienze fisiche, progettualità e casualità, senso (il valore che cerchiamo nelle cose) e non senso (l’indifferenza indifferenziata della natura). Quest’ultima contrapposizione è tipica di un altrettanto dibattito: quello che vede lo sguardo scientifico decostruire il vissuto religioso. In particolare il primo condanna al secondo di vedere e parlare di qualcosa che fin dal principio nella natura, aldilà di noi, non c’è: appunto il senso. Se l’insieme delle scienze fisiche riflette l’ordine delle cose esistenti, quindi misurabili e dimostrabili, il senso (e le sue folli domande) è il prodotto di provvisori discorsi umani senza alcuna velleità epistemica, può semmai essere oggetto della storia e dell’antropologia. Potremmo dire che le nozioni di senso e significato sono umane troppo umane (Nietzsche), tali da non riflettere la verità delle cose reali che si può raggiungere, appunto, solo comprendendone i fatti. Tant’è che quando si parla di "esistenza (l’insieme dei fatti dati) non si può di certo parlare di significati (l’interpretazione dei fatti a cui essi si riferiscono). Tale visione mina fin dal principio la domanda sul senso, vedendo in essa una superstizione: letteralmente un parlare aldilà di qualcosa che si può conoscere. Ora, per dare legittimità a tutte le parole che verranno spese sull’argomento, è opportuno sottolineare alcuni fatti", a partire dalla constatazione che anche la produzione scientifica è una narrazione.

    Che le nozioni umane di senso e significato (così come molte altre, come quella di scopo) siano una superstizione è fuori di dubbio, dato che si tratta di concetti meta-fisici. Parlando di sovrastruttura, in quanto sopra (generale)-l’essere, il senso non può che essere un questionare metafisico (oltre la fisica dei fatti). D’altra parte, se accettiamo di buon grado l’appellativo di superstizioni quando interpelliamo il senso, dovremmo accettare anche l’inevitabilità di tale spinta superstiziosa in ogni discorso e agire umano. Se il senso è parte di quel complesso mondo dei valori del tutto umani, non possiamo di certo immaginare un uomo troppo poco umano tale da essere privo di sentimenti. Ogni cultura, conseguentemente ogni persona, incarna dei valori, ciò è inevitabile perché lo sono i sentimenti: ovvero il riflesso che i fatti hanno su di noi. Ecco dunque come la rigida distinzione tra valori e fatti si dissolve per lasciare spazio alle sfumature che portano dagli uni agli altri. Vi sono dei fatti che assumono valore all’interno di una certa storia (un insieme di fatti connotati di senso), allo stesso modo vi sono valori inscindibilmente legati e spesso dipendenti da dei fatti. Sotto questo punto di vista possiamo spingerci nel dire che i valori possono essere dei fatti e che, contestualmente alle vicende umane (alla sua storia, se vogliamo dotare di senso tale presenza), i fatti possono diventare un valore. Dunque si tratta di una distinzione più labile di quella che appare a prima vista, ciò a testimonianza di come la percezione umana dei fatti (che dir si voglia sentimento) sia da questi ultimi inseparabile. Una simile coincidenza è ben rintracciabile nella storia dell’uomo, è tipica di tutte quelle fasi in cui le domande spirituali si identificano in quelle scientifiche, lì dove nel tentativo di significare si spiega (il fulmine diventa la manifestazione della volontà del divino). In fondo, anche la domanda scettica: "ha senso porsi domande di senso?" incarna tale compresenza, infatti cos’è mai il domandarsi se non esercizio della ragione e cos’è mai il senso se non l’interpretazione di un sentire? Allora porsi domande di senso è il ragionare sui propri sentimenti, ma siccome anche la scienza è animata almeno da un sentimento, per esempio del piacere della scoperta e della conoscenza, allora ha senso porsi domande di senso perché senza di esse non vi sarebbe neppure la cono-scienza, quindi lo stupore che rinnova la passione del ricercatore. Come si vede, il discorso umano che rappresenta l’apoteosi della razionalità dei fatti (la scienza) è, direi di fatto, costituito e accompagnato costantemente da sentimenti e percezioni. Tutto ciò per dire, giocando ancora un po’ con le parole, come la distinzione tra valori umani e fatti del mondo è più un valore che un fatto, appare cioè sempre più funzionale ad esemplificare che non a dimostrarci la realtà così com’è. Nessun uomo, normalmente inteso, è immune da percezioni e sentimenti, in essi compresi quelli che proviamo verso l’esistenza e le cose in generale. Da qui l’inevitabilità della superstizione metafisica, ma, appunto, da qui la sua necessità. La questione allora non è tanto se scegliere tra un discorso superstizioso e uno razionale, quanto di che tipo di metafisica ci appropriamo. Tale consapevolezza non è apologetica di un certo sentimentalismo, quanto riflessività, ovvero oggettività misurata su noi stessi: metterci a nudo. Ciò è vero nella misura in cui il non senso (tout court) è per noi il terrore dello smarrimento, la perdita di ciò che ci rende troppo umani. Allora ci rendiamo conto di come la scelta a quale tipo di superstizione affidarci è dettata da che tipo di consapevolezza del bisogno (di senso) abbiamo di fronte ad una natura indifferente. Possiamo colmare tale bisogno attraverso il significato che diamo alla cono-scienza oppure, quando percepiamo che essa non basta (soprattutto nei confronti del dolore del mondo), mettiamo in atto altre risposte.

    Se per lo scienziato più razionalista che possiamo immaginare, che non vede nelle questioni di senso un riflesso dei fatti della realtà, conoscere non è privo di senso (perché mai lo farebbe altrimenti?), abbiamo la rassicurazione (o la delusione) che tutti noi non possiamo sfuggire dai miti che ci costruiamo. Il termometro del non senso è la tragedia; a riguardo è significativa quella greca, una cultura che per un certo momento si è eletta come filosoficamente priva di una fede nell’aldilà. L’aspetto bivalente e significativo è proprio come quella tragedia diventi una pratica tale da esorcizzare la follia del non senso. È paradossale notare come proprio in quella cultura si assiste ad un proliferare di miti. Come se la paura di toccare il fondo, dopo averlo visto nella mortalità umana (tanto più reale se posta in relazione all’immortalità degli dèi), tentasse ancora di trovare delle risposte, appunto attraverso la pratica dell’esorcizzazione, del racconto, del mito. In ultima analisi la vera tragedia, se c’è, è non saper rinunciare a quest’ultimo.

    L’ESSERE PIUTTOSTO CHE IL NULLA? IL PARADOSSO PIUTTOSTO CHE IL RAZIONALE

    Su questa domanda, eminentemente metafisica, possiamo ben dire con Severino, partendo da Parmenide, che l'essere è, e non può mai diventare un nulla: ogni essente è eterno. Parmenide tentava di risolvere le implicazioni di tale ragionamento, in particolare il conflitto tra il divenire e l'immutabilità dell'essere, affermando l'illusorietà del divenire: negando l'esistenza delle cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia. Al contrario, Severino sceglie una via differente, affermando che ogni cosa, ogni pensiero, ogni attimo sono eterni. Quindi il divenire temporale non può che rappresentare l'apparire successivo degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di un film si susseguono fino a formare il suo svolgimento completo; gli enti entrano ed escono da quello che Severino chiama cerchio dell'apparire. Ciò significa che, quando un ente esce dal cerchio dell'apparire non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente alla vista: così le cose esistono anche quando scompaiono, ovvero non si vedono. Riprendendo la metafora di Plotino, il divenire degli enti è come lo scorrere degli oggetti sulla superficie di uno specchio: le cose esistono prima di entrare nel campo visivo dello specchio e, ovviamente, continuano ad esistere anche dopo esserne uscite.

    Questa strada però ci costringe ad una tale metafisica che, a mio modo di vedere, forza l’esperienza che abbiamo dell’esistente. Ovvero, per ammettere la logicità del fatto che l'essere è, e non può mai diventare un nulla non dobbiamo necessariamente immaginare che ogni singolo attimo sia eterno o che il divenire non esista. Il venir meno della realtà del ni-ente, delle cose che vengono dal nulla e che vanno nel nulla, è di fatto implicito nelle manifestazioni stesse del divenire. Su un piano molto generale del discorso, da cui parte la medesima domanda sull’essere, possiamo convergere con le riflessioni dell’impermanenza buddista: siamo polvere di stelle, figli del big bang, il big bang stesso è frutto di uno stato precedente della materia; insomma tutto è noi e noi siamo tutto. Da un punto di vista fisico l’essere è materia, la materia è e non facciamo difficoltà a pensare, anche da un punto di vista cosmologico, che è da sempre. Il problema dunque è che il cosa dell’essere evidentemente non può provenire e destinarsi al ni-ente (se è), tuttavia il come dell’essere, cioè sul suo divenire, non può che diversificarsi e mutare. L’annoso paradosso filosofico dell’essere e del divenire che il tempo porta con sé è un dato di fatto che trova spiegazione più sull’ordine del discorso in cui viene discusso, che non sulla sua intrinseca e globale razionalità. Quando mi riferisco all’ordine del discorso intendo che il paradigma che vede il ni-ente come inesistente è altrettanto vero del fatto che vi sono cose che nascono e muoiono e quindi che non sono più la stessa cosa, che cessano di esistere e sono connotate dalla finitezza. Da un punto di vista generale tutto è tutto, ogni cosa è materia e la materia è ogni cosa, ma da un punto di vista contingente vi sono diverse manifestazioni della stessa cosa. Dunque, noi come soggettività fisica siamo eterni se ci vediamo come materia nel processo del tempo (come vuole Serverino: perché dovremmo cercare una salvezza se non c’è alcun nulla verso cui andare?), siamo però innegabilmente mortali e finiti se ci pensiamo come singolarità coscienti. L’ordine del discorso ci permette di evadere dall’assurdo e di interagire con il paradosso, cercando in esso prospettive di senso. D’altra parte, riprendendo la distinzione tra fatti e valori, possiamo assoggettare nei fatti il cosa dell’essere, la sua definizione in alternativa al niente, ovvero la sua oggettiva e oggettivante eslusività: solo l’essere è necessariamente e non può non essere. Nei valori possiamo ricondurre il come, ovvero la qualificazione di come quell’essere, nel divenire, si manifesta. Allora, se nei nostri discorsi la distinzione tra fatti e valori si intreccia, non può che coesistere anche il piano ambivalente dell’essere nel tempo; ovvero l’evidenza che l’essere è sempre tale e che il non essere non è, ma anche l’esperienza che quel medesimo essere è trasformazione, per cui ciò che era non è più allo stesso modo. Da una vista dall’alto, quantificatorio, il mondo è altamente razionale e lineare ma anche caotico, antinomico e lacerato da contraddizioni: è tutto. Al contrario, da un punto di vista del discorso particolare (qualificante la contingenza) i fattori e gli elementi si assestano per assumere un disegno circostanziato, dove l’assurdo può essere meglio separato dal resto. Seguendo tale ragionamento, l’essere è necessario nella misura in cui esiste, la libertà però è necessaria alle diverse manifestazioni dell’essere nel tempo. Allora, si dirà, qual è la relazione tra necessità e libertà? Le cose sono segnate dall’una o dall’altra? Il punto è: da nessuna delle due, dipende dall’ordine del discorso. La libertà domina nel tempo e si spiega in quest’ultimo, la necessità dell’essere è tale perché l’essere, prima di occuparci del fatto che si trasformi e divenga, semplicemente c’è. Di nuovo, la libertà è davvero tale solo se ammette una delle sue infinite eventualità, tra cui anche il fatto che non sia: quindi fino a che punto la libertà è? Che non sia una nozione assurda perché contraddittoria? Senz’altro da un punto di vista generale (il cosa) la libertà è tutte le possibilità dell’essere (la contraddizione del caos), ma da un punto di vista particolare (il come) ha senso parlare di libertà in relazione al sistema (e alle regole) a cui si applica.

    In fondo questa è l’esperienza di senso comune dell’uomo: interpretare. Ovvero: intercettare, isolare, circostanziare sprazzi di senso razionale dall’anonima realtà delle cose, per cui noi risultiamo indifferenti e indifferenziati.

    L’INTERPRETAZIONE

    Il mistero è meno inquietante del fatuo tentativo di eliminarlo attraverso spiegazioni stupide. La filosofia onesta non pretende di spiegare il mistero, ma tenta di circoscriverlo. (Nicolàs Gòmez Dàvila)

    L’ermeneutica non fa altro che dirti quanto è incerta la tua conoscenza, incerto il sapere. Non fa altro che darti un modesto spazio entro cui dire. Ci ricorda di un’umiltà intellettuale che impara in opposizione all’assolutismo, in virtù dell’indeterminazione. Insomma, non fa altro che inserirti all’interno dell’esistenza disilludendo l’impressione di poterla dominare estinguendo da essa ogni mistero. Quindi, voler uscire dal senso del mistero, dall’ignoto, vuol dire uscire fuori dall’interpretazione.

    Come accennato, l’oggetto di questo scritto è un incontro, ma cos’è l’incontro? Incontrarsi è anche interpretare, ovvero partorire un significato, stabilire un rapporto dialogico aperto alla comprensione del significato altro. Perché si possa realizzare un incontro di questo tipo, il cui frutto è un significato del comunicare, è necessaria la consapevolezza, un atto di comprensione della propria identità e situazione: l’esserci. In assenza di un agente del dialogo non c’è dialogo, ma ci sono diversi contesti del comunicare, infatti, si dirà: come è possibile porre in rapporto dialogico il mio io con il mondo? Se per mondo intendiamo tutto ciò che è fuori il soggetto, allora non si tratta di una precisa consapevolezza ma di un dato di fatto fin troppo generico. In realtà la prospettiva dialogica risiede proprio nel fatto che l’uomo è al tempo stesso un soggetto inserito nelle cose, quindi egli stesso mondo nel mondo. Allora, più chiaramente, cos’è il mondo? L’altro culturale, quindi il rapporto interculturale, l’altro intraculturale, cioè il rapporto interpersonale con chi condivide la nostra stessa appartenenza; l’altro naturale e cosmologico, cioè il complesso di elementi naturali che rendono all’uomo il suo contesto di vita biologica.

    Qual è, quindi, la relazione tra interpretare ed incontrarsi? Non esiste interpretazione in assenza di incontro, il primo ci svela il secondo, di conseguenza comunicare non è solo trasmettere significati, ma è trasmettere significati all’interno di un rapporto significativo. In altre parole: i significati veicolati nel comunicare sono contenuti nel significato dell’incontro.

    A me pare di vedere due assi portanti del rapporto io – mondo: da un lato il mondo che si presenta a noi, quindi ci presenta di fronte ad esso. Si tratta dell’esperienza, cioè un movimento prevalentemente dall’universo a noi. La nostra posizione qui è più passiva perché rispondiamo all’esterno, perché ci troviamo immersi nel mondo, ci siamo trovati in questa situazione. Nondimeno, c’è un secondo asse che va da me al mondo: il pensiero. Questo però è esso stesso esperienza, frutto dell’esperienza. Di conseguenza c’è un intreccio incessante tra esperienza e pensiero, un connettersi indispensabile per la vita della realtà. Inoltre viviamo delle relazioni orizzontali o interne, per così dire, che vanno dall’esperienza al pensiero, e viceversa. Il pensiero che si muove verso l’esperienza, per diventare esperienza, è in genere un pensiero rivolto al futuro: sono le idealizzazioni, le aspettative, i sogni. Le esperienze che tendono a diventare pensieri sono più dei ricordi. Infatti il pensiero è definito come un movimento di attività verso il mondo, entro cui cerchiamo di organizzarlo, definirlo. L’esperienza è spiegata più per il suo carattere di attività del mondo, che si spinge a noi per offrirci le possibilità di consumare quell’organizzazione e quell’interpretazione di esso, attraverso i pensieri. In questo modo, incontrare (cioè vivere) il presente, si gioca sulla sua interpretazione alle cui basi c’è il passato e il futuro. Il tutto si svolge in un indissociabile intreccio: le esperienze, attraverso i ricordi, condizionano le aspettative e idealizzazioni future; i pensieri rivolti al presente e al futuro alterano non di rado la natura delle esperienze passate in forma di ricordi, facendo così di un vissuto un pensiero, e di un pensiero un’esperienza, attraverso la sua anticipazione. Per assumere consapevolezza, ed eventualmente modificare il proprio assetto cognitivo, è opportuno riconoscere che cambiando approccio verso i ricordi si cambia approccio anche verso

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