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Paolo VI, un ritratto spirituale
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Paolo VI, un ritratto spirituale

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Quale radice spirituale ha alimentato la vita, la fede, il servizio alla Chiesa del beato Paolo VI? Il Ritratto spirituale cerca di rispondere a questo interrogativo ripercorrendo i testi montiniani di carattere più personale, oltre a quelli più noti del suo magistero. Vengono così in luce i temi fondamentali della sua spiritualità: la scoperta del- la vocazione, il legame con l’apostolo Paolo, i maestri spirituali che l’hanno ispirato, la direzione spirituale, l’educazione della coscienza, la fede, la preghiera liturgica, il ministero pastorale, la Chiesa e la povertà, la cultura, la forma cristiana e la meditazione sulla sua vita consegnata nel Pensiero alla morte. In quest’ultimo testo è lo stesso Paolo VI ad offrire una prospettiva spirituale sintetica sulla propria vita di uomo, di credente e di pastore, di cui i capitoli del volume intendono esplorare le dimensioni e la profondità.
LanguageItaliano
Release dateOct 20, 2017
ISBN9788838246098
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    Paolo VI, un ritratto spirituale - Claudio Stercal

    CLAUDIO STERCAL

    PAOLO VI

    Un ritratto spirituale

    © 2016 by

    Istituto Paolo VI - Brescia

    Edizioni Studium – Roma

    ISBN: 9788838246098

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    DORA CASTENETTO

    VOCAZIONE: DONO E MISTERO

    IL DIVENIRE DELLA VOCAZIONE

    NEL TOTALE ABBANDONO LA RICERCA DELLA VOLONTÀ DI DIO

    I PASSI DEL CAMMINO

    ARCIVESCOVO DI MILANO

    PAPA PAOLO VI

    A MODO DI SINTESI: LE PIETRE MILIARI DI UN ITINERARIO SPIRITUALE

    ANGELO MAFFEIS

    CONOSCERE DIO

    VIVERE IN CRISTO

    LO SPIRITO FORMA IN NOI L’IMMAGINE DI CRISTO

    IL CORPO ECCLESIALE

    IL MINISTERO APOSTOLICO

    CONCLUSIONE

    EZIO BOLIS

    SANT’AGOSTINO, MAESTRO NELLA RICERCA DI DIO

    SAN BENEDETTO, MAESTRO DI VITA INTERIORE E DI PREGHIERA LITURGICA

    SAN FILIPPO NERI E LA LETIZIA SPIRITUALE APPRESA NELL’ORATORIO FILIPPINO

    SANT’AMBROGIO, MAESTRO ESEMPLARE NEL SERVIZIO EPISCOPALE

    SAN FRANCESCO DI SALES, MAESTRO DI VITA CRISTIANA

    CONCLUSIONE

    CRISTIANO PASSONI

    LA DOMANDA ESSENZIALE

    AFFIORAMENTI

    L’ESTASI E IL TERRORE D’ESSERE SCELTO

    LETTERE DI «AMICIZIA SPIRITUALE»

    «IERI – OGGI – DOMANI»: RITRATTO DI UNA VITA

    LUCIANO CAIMI

    UN RICCO (E PRIVILEGIATO) ITINERARIO FORMATIVO

    PER UNA «COSCIENZA UNIVERSITARIA» CRISTIANA

    DALLA SEGRETERIA DI STATO ALLA CATTEDRA DI SANT’AMBROGIO E SAN CARLO

    PER UNA COSCIENZA CRISTIANA MATURA: INVITI E RICHIAMI DI PAOLO VI

    CONCLUSIONE

    GIUSEPPE ANGELINI

    ANTONIO MONTANARI

    «ERO COME IN ESTASI». IL FASCINO DELLA LITURGIA BENEDETTINA

    CHIESA E LITURGIA NELLA FORMAZIONE DEL GIOVANE MONTINI

    NELLA VICENDA LITURGICA SI RIFLETTE LA VITA

    LA LITURGIA RISPONDE ALLE ESIGENZE SPIRITUALI DELL’UOMO MODERNO

    L’IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE LITURGICA NELLA VITA DEL CRISTIANO

    BRUNO SEVESO

    IL FILO ROSSO

    INDICATORI DI PERCORSO

    SNODI NEVRALGICI

    CESARE VAIANI

    TESTI SULLA POVERTÀ NEGLI ANNI GIOVANILI

    TESTI SULLA POVERTÀ DURANTE L’EPISCOPATO MILANESE

    TESTI SULLA POVERTÀ DURANTE IL PONTIFICATO

    LA POVERTÀ PERSONALE DI GIOVANNI BATTISTA MONTINI

    CONCLUSIONE

    GIACOMO CANOBBIO

    GLI ANNI DELLA FORMAZIONE

    ATTIVITÀ INTELLETTUALE E CARITÀ

    L’UNIVERSITÀ «LUOGO SIMBOLICO» DELLA FORMAZIONE

    DALLA CULTURA ALLE CULTURE

    DIRE IL VANGELO NELLE CULTURE

    EVANGELIZZAZIONE DELLE CULTURE

    CONCLUSIONE

    PIERANGELO SEQUERI

    IL PASSAGGIO FRA LE OMBRE DELLA LUCE CREATURALE

    LA BELLEZZA PERDUTA DELL’IMMANENZA: PURIFICAZIONE

    L’ARTE E IL RISCATTO SPIRITUALE DELLA CREATURA DEI

    L’EREDITÀ SPIRITUALE DELLA POETICA CRISTIANA DI PAOLO VI

    CLAUDIO STERCAL

    1. ORIGINE E SENSO DEL TESTO

    2. STRUTTURA E TEMI

    3. UNO SGUARDO SINTETICO

    INDICE DEI NOMI

    Introduzione del

    Card. Gianfranco Ravasi

    A cura di

    Claudio Stercal

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica

    e di adattamento totale o parziale,

    con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi.

    INTRODUZIONE

    «Ci vuole tempo prima che una persona trovi il suo volto. Non si nasce già con un viso intimo ben delineato. Lo si acquista col fluire del tempo, in una lenta e paziente opera». Questa considerazione di uno dei maggiori scrittori mitteleuropei ebrei del Novecento, l’austriaco Joseph Roth, nel suo romanzo Fuga senza fine (1927), può essere assunta a epigrafe ideale di questo ritratto spirituale del beato Paolo VI, disegnato da tante mani diverse e distribuito proprio lungo l’itinerario dell’intera biografia storica e interiore di papa Montini. Dovendo presentare, sulla soglia del volume, i tratti di quel volto in esso abbozzato, tra i due generi letterari possibili aperti davanti a me – quelli della prefazione generica e sintetica oppure dell’introduzione analitica –, ho preferito optare per quest’ultima, a costo di apparire didascalico. Sarà come delineare una mappa preliminare ove si intravedono i percorsi, spesso molto ramificati, così da permettere poi un viaggio testuale reale nei vari orizzonti, ricchi di spunti tematici suggestivi, descritti in queste pagine.

    L’orizzonte interiore, personale ed ecclesiale

    Si parte naturalmente dalla sorgente del fiume simbolico della vita: è la vocazione e la formazione iniziale che lascerà, però, un’impronta all’interno dell’intera esistenza di Montini. È Dora Castenetto a tracciare questa esperienza di base, documentata dal ricco epistolario, in gran parte edito, con i familiari e con i padri oratoriani Giulio Bevilacqua e soprattutto Paolo Caresana, il direttore spirituale con cui fu in corrispondenza per tutta la vita (1915-1973). I punti nodali sono netti e rilevanti: il riconoscimento dell’iniziativa di Dio nella decisione di farsi sacerdote; un forte cristocentrismo, cioè la consapevolezza di un incontro reale con la persona di Gesù attraverso la sua Parola; l’amore alla Chiesa e l’ubbidienza ad essa come atto d’amore, senza rinunciare tuttavia a un’autonomia di giudizio; la formazione alla verità vissuta come missione nel mondo e per il mondo, nella tensione di coniugare i criteri della fede con quelli della contemporaneità (soprattutto negli anni in cui fu assistente ecclesiastico della fuci); preghiera, raccoglimento, silenzio adorante, che sono stati il tessuto connettivo di ogni attività.

    Importante fu il legame con la famiglia (il padre Giorgio, la madre Giuditta, i fratelli Lodovico e Francesco, la nonna Francesca), il «nido» da cui acquisì la pietà solida, la vivacità intellettuale e l’impegno nella società. Particolarmente suggestivi i passi delle lettere a padre Caresana in occasione degli snodi fondamentali della sua vita: l’ingresso in seminario (1916), l’ordinazione diaconale e sacerdotale (1920), l’ingresso alla Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici (1921), che avrebbe segnato l’indirizzo della sua vita, la prima destinazione alla Nunziatura Apostolica di Varsavia (1923). Questi passi, leggibili come una sorta di «giornale dell’anima», mettono a nudo l’animo del giovane Montini e i dilemmi interiori, come il problema del rapporto tra autonomia e obbedienza, tra obbedienza attiva e/o passiva, che egli risolve col ricorso alla mediazione della Chiesa attraverso il servizio di un’autorità spirituale.

    Sarà questa a rasserenarlo nei momenti della decisione, in cui sente drammatico il dilemma della scelta (un aspetto ritenuto peculiare nell’immagine che ci si è fatti di questo pontefice, dalla fede cristallina ma che appare talvolta tormentata). Emblematico il passo di una lettera scritta a padre Caresana (nel 1919 alla vigilia dell’ordinazione), in cui cita Paul Verlaine ( Final ) e l’ Oratio universalis di Clemente XI ( post Missam): «J’ai l’extase et j’ai la terreur d’être choisi! […]. Volo quod vis, volo quia vis, volo quomodo vis, volo quamdiu vis. Che il Signore voglia in me e contro di me. Questo è stato per me un segno di sicurezza nella vocazione, voler mio malgrado, voler l’opposto di quello che l’uomo vuole».

    Giunge, così, la grande svolta del 21 giugno 1963, il giorno dell’elezione a pontefice. È Angelo Maffeis, nel suo saggio dedicato al legame di papa Montini con l’ apostolo Paolo, a individuare le ragioni di questo nesso, a partire dalla scelta del nome di «Paolo VI». Una scelta spiegata dallo stesso pontefice nel discorso per la cerimonia dell’incoronazione (30 giugno 1963) e nell’ultima omelia nella solennità dei santi Pietro e Paolo (29 giugno 1978). Nel primo delinea il suo programma di pontificato come opera missionaria affinché il Vangelo possa giungere fino ai confini della terra; nella seconda suggella il suo ministero con le stesse parole del testamento di Paolo: Fidem servavi (2 Tim 4, 7). Ma la familiarità coi testi paolini che si riscontra in Montini denota una conoscenza che va oltre gli studi teologici, considerato, oltretutto, il sospetto antimodernista che ancora gravava sulla lettura diretta dei testi biblici. L’assidua meditazione delle lettere paoline è documentata invece da una serie di appunti stesi in quattro quaderni tra il 1929 e il 1933 (editi nel 2003).

    Tale meditazione, intrecciandosi alle riflessioni di carattere spirituale, ecclesiale e pastorale che accompagnano la sua attività di assistente ecclesiastico generale della fuci (1925-1933), mettono in luce temi che segneranno in modo indelebile tutto l’itinerario umano, spirituale ed ecclesiale di Giovanni Battista Montini. Questi sono i nuclei tematici individuati da Maffeis: «La conoscenza di Dio, la vita in Cristo, l’opera dello Spirito che configura a Cristo il credente, il corpo ecclesiale, le virtù del ministero apostolico […]. È, dunque, un confronto serrato con il testo biblico quello che traspare dalle note sulle lettere di Paolo e un intenso dialogo con l’apostolo, alla scuola del quale il giovane Montini si pone per apprendere il nucleo essenziale dell’annuncio cristiano, le vie da percorrere alla ricerca di un dialogo con la cultura del tempo e i fondamenti della vita spirituale e del ministero pastorale».

    Un ultimo tema paolino presente negli appunti giovanili rivela una tonalità insospettata a chi abbia osservato Montini in modo superficiale, eppure profondamente radicata nella sua spiritualità: la gioia e la pace interiore. Commentando la lettera ai Filippesi («Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» 4, 4), osserva: «La gioia è un risultato spirituale e interiormente sensibile della fede e della grazia e come queste sono di per sé stabili e sovrani doni così fanno scorrere nell’anima inesauribile vena di consolazione».

    Una componente fondamentale della formazione della persona è quella delle guide interiori, «i referenti spirituali» per usare un’espressione del teologo Giovanni Moioli. Sono gli scrittori e i santi che attraverso le opere o la loro autorevolezza hanno interpretato il loro tempo diventando punti di riferimento per ogni epoca e modelli per una visione unitaria e sintetica dell’esperienza di fede. Questi maestri spirituali di Paolo VI sono stati individuati da Ezio Bolis nel suo saggio e sono Benedetto e soprattutto Agostino, negli anni giovanili della formazione e del ministero tra gli studenti e gli universitari; Ambrogio, come paradigma dell’episcopato ambrosiano, e soprattutto Francesco di Sales.

    La frequentazione dell’Oratorio di Santa Maria della Pace a Brescia con padre Caresana e padre Bevilacqua, suscitò in Montini l’interesse per Agostino e gli fece scoprire la spiritualità della letizia filippina che ispirerà l’esortazione apostolica Gaudete in Domino (1975) e comparirà persino nel Pensiero alla morte, forse la sua pagina spirituale più celebre. Dalla frequentazione di una comunità di monaci di Chiari (esuli dalla Francia in seguito alle leggi di separazione e poi trasferitisi a Hautecombe in Alta Savoia) derivò la scoperta della spiritualità benedettina – legata anche al suo interesse per la liturgia e il canto gregoriano –, che affiora nel discorso di dedicazione della ricostruita chiesa di Montecassino (24 ottobre 1964).

    Soprattutto è viva nella spiritualità di Montini la presenza di san Francesco di Sales – indagata per la prima volta da Bolis con ampiezza – fin dall’ambiente familiare intriso di spirito salesiano fatto di devozione e di letture, per farsi più mirato negli anni del ministero sacerdotale ed episcopale (e petrino). L’autore mette a fuoco i tratti distintivi del temperamento spirituale di questo santo nella vita interiore e nel ministero del papa che rivela una crescente attenzione a mostrarne la «modernità»: «Nessuno più e meglio del Sales, tra i recenti Dottori della Chiesa, ha saputo con il profondo intuito della sua sagacia, prevenire le deliberazioni del Concilio. Egli sarà di aiuto con l’esempio della vita, con l’abbondanza di una dottrina pura e sana, e con il suo sicuro metodo di spiritualità, aperto alla cristiana perfezione di persone di ogni stato e condizione» (lettera apostolica Sabaudiae gemma, 1967). In sintesi si può dire che «il programma spirituale appreso dai suoi maestri si nutre poi di fiducia nella natura umana e di amore per l’arte, si caratterizza per l’equilibrio del rapporto tra uomo e Dio, tra natura e grazia, ha una forte ispirazione cristocentrica e manifesta una calda passione per la Chiesa».

    È facile a questo punto accostare al tema dei maestri quello della direzione spirituale sviluppato da Cristiano Passoni, in continuità con tutti i saggi precedenti. Alla base si può porre la confessione autobiografica del Pensiero alla morte : «Povera storia della mia vita, intessuta, per un verso, dall’ordito di singolari e innumerevoli benefici, derivanti da un’ineffabile bontà […]; e, per l’altro, attraversata da una trama di misere azioni, che si preferirebbe non ricordare, tanto sono manchevoli, imperfette, sbagliate, insipienti, ridicole». La domanda su di sé – «Io, chi sono?» – attraversa tutta la vita di Montini, documentata dal suo imponente carteggio, di cui Passoni analizza anzitutto tre «affioramenti» della primissima giovinezza (lettere al direttore spirituale padre Caresana e al fratello Lodovico, 1915-1916), dove compaiono l’«estasi e il terrore d’essere scelto», come scriverà nel 1919 sempre a padre Caresana.

    Un singolare risvolto di questi aspetti si trova anche nel Montini direttore di anime: l’abitudine all’introspezione lo rende capace «di sintonizzarsi sulla vita dell’interlocutore, offrendo risposte lontane dalla retorica, nella ricerca di uno sforzo continuo di ascolto dell’altro, ultimamente frutto dell’ascolto di sé». È quanto emerge dalle numerose lettere di «amicizia spirituale» che vanno dagli anni dell’adolescenza a quelli della maturità, nelle quali cerca anche conforto, come nella lettera all’amico oratoriano Carlo Manziana (poi vescovo) nell’Epifania del 1933, dopo aver rassegnato le dimissioni da assistente generale della fuci a seguito degli attacchi alla sua guida: «Subisco l’ambiente romano, nel quale vi sono ricchissimi motivi di vita cristiana – chi ne dubita? –, ma vi sono in pratica tali difficoltà a trarre dalla convivenza romana conforto ad agire ed amare, che si ha l’impressione d’averne l’animo calcificato, intimidito, desideroso d’isolamento, di non rischiare nulla, di non pensare più ad altro che ad un regolare quieto vivere».

    Nella luce della formazione spirituale un aspetto molto delicato e decisivo è quello dell’ educazione della coscienza interiore, il «sacrario» della persona come amerà definirla il Concilio Vaticano II: Luciano Caimi cerca di visitare questo spazio spirituale di Montini mostrandone non solo l’aspetto intimo e personale ma anche la proposta formativa da lui elaborata. E lo fa a partire dal suo impegno pastorale nel mondo universitario. La meta da raggiungere è quella di creare un’unità interiore tra cultura e fede. L’errore da evitare è duplice: disgiungere la pietà dal sapere e distaccare il credente dal pensante (o critico). Si evita, così, l’appiattimento della fede in un’esperienza meramente storico-psicologica. Tommaso d’Aquino e Agostino sono le due stelle che guidano in questo percorso educativo.

    Suggestiva è la seguente dichiarazione programmatica: «Formare coscienze capaci di una forte testimonianza cristiana, alimentata dalla Sacra Scrittura e dalla liturgia, rifuggente da devozionismi e libera da emozioni superficiali, intima e personale, di respiro tuttavia non individualistico, ma comunitario ed ecclesiale, che guarda al mondo senza timori, senza rancori, senza complessi di inferiorità, che ha in Cristo il suo centro vitale». Questa impostazione, che è personale oltre che comunitaria, continua ad essere sviluppata per tutto l’arco di tempo vissuto da Montini nella Segreteria di Stato fino all’episcopato milanese. Di questo orizzonte ampio, Caimi offre un disegno articolato e vivace nel quale si individuano alcune traiettorie significative, come l’attenzione ai nuovi orientamenti teologici (Chenu, Adam, Journet, Congar, Thils) e socio-culturali (l’ Umanesimo integrale di Maritain), oppure il rilievo da assegnare al laicato cattolico, la consapevolezza dell’evoluzione storico-civile in corso, il mutamento antropologico familiare e sociale.

    Particolare cura è riservata da Montini al tema dei giovani, invitati a ritornare a «pensare a Dio» facendo della «religione spirito e vita». Originali sono le sue classificazioni delle tipologie giovanili: cinematografica, sportiva, utilitaria, gaudente. Una sorta di quattro punti cardinali che nella lettera pastorale milanese Su l’educazione liturgica (1958) vengono curiosamente ritrascritti così: i ribelli senza causa, i vitelloni (l’omonimo film di Fellini era apparso nel 1953), gli impegnati, i disponibili a costruire. Rimane, comunque, centrale il rimando all’educazione della coscienza morale, registrando con grande sensibilità l’avviarsi di un processo di metamorfosi sociale e culturale e di secolarizzazione.

    Questo fenomeno globale diventa il quadro di riferimento del magistero pontificio di Paolo VI, soprattutto con le encicliche Ecclesiam Suam e Populorum progressio. Caimi svolge un ampio vaglio delle molteplici proposte avanzate dal papa in quel periodo sul tema della coscienza, soprattutto nei confronti dei giovani, travolti dalla contestazione e dalla massificazione. Interessante è la nuova classificazione delineata dal pontefice: dai giovani dal «comportamento zero», estranei alla fede, agli «uomini canna», indifferenti e superficiali, fino ai giovani coerenti con la loro scelta cristiana. L’ Evangelii nuntiandi è un testo fondamentale al riguardo, capace di intrecciare tra loro i grandi temi antropologici della coscienza personale, della verità, della libertà, della vita comunitaria, evitando le secche del soggettivismo autoreferenziale ma anche dei condizionamenti estrinseci. L’insufficienza della categoria «esperienza» adottata come esclusiva rivela la costante premura di papa Montini per una formazione «simbolica», cioè unitaria e integrale e non integristica, ove fede e ragione, coscienza e dettato evangelico si incrocino e si abbraccino.

    Temi teologici, pastorali e culturali

    Eccoci ora, dopo un lungo itinerario nell’orizzonte interiore vissuto e proposto da Montini, a una sequenza di temi specifici, tutti di forte impatto teologico, pastorale e culturale. È naturale iniziare col tema della fede, un soggetto «radicale», come scrive l’autore del saggio ad essa dedicato, Giuseppe Angelini: «La fede è per tutti i cristiani addirittura la radice della vita. Lo è di necessità, non per una scelta. Proprio perché è una radice, non dovrebbe troppo sorprendere ch’essa sia destinata a rimanere nascosta. Le radici, infatti, sono sempre nascoste, sotto terra». E tuttavia egli aggiunge: «Nel caso di Paolo VI la fede non è propriamente nascosta. Non che sia esibita, ma certo è confessata, spesso e con vigore; è addirittura rivendicata, protestata con forza […], per alcuni tratti addirittura ossessiva».

    L’esperienza cristiana di papa Montini si manifesta, infatti, nella forma tipica che essa assume in epoca moderna: egli è un papa decisamente moderno. I suoi maestri, oltre ai già riconosciuti Paolo e Agostino, sono Blaise Pascal, tutti i rappresentanti di quello che Angelini chiama il «cattolicesimo tragico», per i quali Dio è fondamentalmente nascosto (come il seme delle parabole evangeliche del Regno o la radice sopra evocata) ma produce per gli umili un’ineffabile gioia evangelica (Georges Bernanos). La modernità di Montini è data anche dal fatto che la sua «meditazione […] si sofferma non tanto sui singoli articoli del Simbolo, quanto sul verbo che sta al suo inizio: Io credo…», è cioè una riflessione sull’atto di fede del soggetto.

    Non stupisce quindi che la professione di fede pronunciata a conclusione dell’«Anno della Fede» (1968) assuma la forma di una preghiera e non di affermazioni categoriche. Anche riguardo alla questione del Catechismo Olandese (1966) sottoposto a una Commissione cardinalizia, non pare che il papa sia entrato nella determinazione delle formule con cui professare la fede oggettiva, interessato com’era da sempre, fin dagli anni dell’attività pastorale, al suo nesso con la fede soggettiva e con le sue implicazioni morali, pur tenendo fermo il fondamento oggettivo del credere, come testimoniano i suoi discorsi: «Non per nulla un credente si definisce un fedele. È incluso in questo termine un duplice significato: primo, di fermezza, di stabilità, di fortezza, e poi di coerenza, di sequela, di operosità; statico dunque, e dinamico» (udienza generale dell’11 ottobre 1972).

    L’esperienza di fede per Montini è originariamente cristologica: Cristo conosce colui che chiama meglio di quanto costui non conosca se stesso. Egli fa propria fin nel Pensiero alla morte, documento capitale per comprendere la fede di Montini/Paolo VI, l’espressione di Pietro: Tu scis quia amo te. A questo proposito è suggestivo quanto affermava il cardinale arcivescovo di Monaco di Baviera Joseph Ratzinger nell’omelia in cattedrale il 10 agosto 1978, appena quattro giorni dopo la morte del papa, avvenuta il giorno della Trasfigurazione del Signore: «Chi lo ha incontrato negli ultimi anni ha potuto sperimentare in modo diretto la straordinaria metamorfosi della fede, la sua forza trasfigurante. Si poteva vedere quanto l’uomo, che per sua natura era un’intellettuale, si consegnava giorno dopo giorno a Cristo, come si lasciava cambiare, trasformare, purificare da lui, e come ciò lo rendeva sempre più libero, sempre più profondo, sempre più buono, perspicace e semplice».

    Spontaneo è, a questo punto, introdurre il legame di Montini con la li turgia, approfondito da Antonio Montanari. L’autorevolezza dimostrata da Paolo VI nella promozione e affermazione della riforma liturgica conciliare non è stata frutto di improvvisazione. La sua nota sensibilità liturgica affonda le sue radici nell’esperienza folgorante che ebbe da adolescente nel 1913 frequentando la già evocata comunità benedettina di Chiari. Si formò, però, in modo più consapevole grazie alla frequentazione a Brescia di padre Bevilacqua, che aveva studiato a Lovanio, alla lettura di testi capitali, fra cui Karl Adam ( L’essenza del cattolicesimo, 1924, tradotto nel 1930) e Romano Guardini ( Lo spirito della liturgia e I santi segni, tradotti nel 1930 e 1931), e alla corrispondenza con l’abate dom Emanuele Caronti, fondatore della «Rivista Liturgica».

    Trentenne, nell’estate del 1928, Montini compì un tour nelle abbazie belghe e tedesche note per il contributo al Movimento liturgico – Maredsous, Saint-André a Bruges, Maria Laach, Beuron – a seguito del quale scrisse un articolo sulla rivista «Studium» (1929). Negli anni in cui fu assistente della fuci (1924-1933) fu costante la sua preoccupazione per la formazione liturgica dei giovani come fondamento della vita spirituale (significativa era la rubrica Vita liturgica nella rivista «Azione Fucina», 1930-1931). Questa sensibilità si potenziò negli anni dell’episcopato milanese (1954-1963), come emerge nel discorso di apertura della Settimana liturgica diocesana di Verona (14 settembre 1957) a dieci anni dalla Mediator Dei, in cui è anticipata gran parte dei temi del Concilio: «Oggi si vuole appunto far capire al popolo fedele il senso espressivo del rito liturgico che, chiaro forse all ’origine, non fu più tale col mutare dei tempi; […] i simboli devono essere spiegati e capiti; i riti devono riassumere la loro funzione di linguaggio animato e drammatico».

    In connessione intima con la liturgia è da porre lo specifico di un vescovo e di un pontefice, cioè il ministero pastorale. È ciò che fa Bruno Seve so che propone sostanzialmente una sorta di mappa interpretativa. Il «filo rosso» di questo impegno è da individuare nel continuo tentativo di mediazione tra l’eredità dei due papi predecessori, quella più ierocratica di Pio XII e quella in dialogo con la modernità di Giovanni XXIII, cercando di comporre in armonia quelle due polarità e i relativi corollari: dottrina e azione pastorale, sacralità e storia, riflessione teologica e sollecitudine ecclesiale e sociale, contenuto e significato, pensiero e prassi, teologia e magistero, pastori e fedeli.

    Questa linea programmatica è stata attuata attraverso un progetto scandito da alcuni «indicatori di percorso». Innanzitutto si ha l’applicazione del messaggio globale del Concilio Vaticano II che coinvolge sia il ministero pastorale sia il sacerdozio comune dei fedeli. C’è, poi, in secondo luogo l’aggiornamento che coniuga i valori eterni della verità cristiana con la realtà dinamica della storia umana, evitando così l’immobilità delle forme e dei modelli ma anche la loro decadenza e dispersione nel flusso contingente della stessa storia. È per quest’ultima esigenza di equilibrio che Paolo VI, dopo aver combattuto l’atteggiamento refrattario all’incarnazione del messaggio cristiano nel vissuto storico, si preoccupa di tracciare i confini netti tra ciò che è perenne e ciò che può essere adattato ai mutamenti culturali.

    Un terzo indicatore è da cercare nella categoria «segni dei tempi», cioè nella decifrazione all’interno della trama storica del progetto e dell’azione di Dio, così che la Chiesa collabori all’edificazione del Regno in sintonia e in simbiosi con l’opera divina. Infine, è il dialogo il quarto asse della missione pastorale di Paolo VI, un incontro mite e fiducioso ma anche chiaro e prudente con l’umanità, coi credenti in Dio, coi fratelli cristiani separati. Tutti questi indicatori di percorso – Concilio, aggiornamento, segni dei tempi, dialogo – vengono dal papa applicati ad alcuni snodi nevralgici del ministero pastorale.

    Ampio spazio ottiene, così, l’approfondimento della fede attraverso una serie di encicliche fondamentali che affrontano l’ecclesiologia, la dottrina eucaristica, il ministero sacerdotale, la vita religiosa, l’evangelizzazione. Nell’ambito morale spicca l’impegno per la difesa della vita umana ma anche la promozione dei popoli in via di sviluppo. A livello culturale generale la sottolineatura della cattolicità, mai intesa come uniformità globalizzante, spinge il papa a impegnarsi nella questione dell’adattamento del Vangelo alle varie culture, in particolare a quella africana. Un’inculturazione che si attua nel pluralismo delle espressioni ma anche nell’unità della sostanza, nella varietà delle civiltà ma anche nella custodia dell’integrità del patrimonio cristiano.

    Con Cesare Vaiani si passa a una dimensione insieme esistenziale e pastorale, quella della povertà evangelica. L’autore si affida in particolare a due testi inediti del 1927 e del 1935-1936 destinati agli universitari della fuci e alle Conferenze della Società di San Vincenzo de’ Paoli, nei quali il tema viene declinato sia sul versante personale sia su quello ecclesiale. Coerentemente con l’impostazione cristologica della sua spiritualità, il fondamento della povertà è riconosciuto da Montini nel mistero della spogliazione di Cristo (2 Cor 8, 9) e nell’esigenza della sua imitazione. La povertà permette di ritrovare la giusta gerarchia delle realtà, mettendo al primo posto il Regno e liberando dalla schiavitù del possesso. Emerge, così, la formazione antropologica montiniana di impronta personalistica, che coltiva la dimensione dello spirito accanto a quella dell’esperienza concreta. La libertà e la gioia che sboccia dalla povertà hanno il loro modello in san Francesco d’Assisi.

    Il discorso sulla povertà si connette, poi, a quelli sul lavoro e sulla carità/solidarietà, conseguenti all’analisi che Montini fa dei mutamenti economici e delle tensioni sociali del suo tempo. È ciò che emerge, ad esempio, nella lettera pastorale per la Quaresima del 1963 intitolata I cristiani e il benessere temporale. La povertà – che, secondo la testimonianza di mons. Pasquale Macchi, Montini praticava personalmente in modo eroico – è l’estrema eredità che egli lascia alla Chiesa nella conclusione del Pensiero alla morte : «E alla Chiesa […] che dirò? […] abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo».

    Eccoci poi di fronte a un tema capitale nella vicenda umana ed ecclesiale di Paolo VI, quello della cultura, affidato a Giacomo Canobbio. A livello personale l’educazione culturale del giovane Giovanni Battista era stata segnata dal vivace ambiente familiare (col padre giornalista), non si era formata regolarmente né in Università né in seminario a causa della salute cagionevole, e si era alimentata negli anni con le letture di Rosmini (allora all’«Indice»), Newman, Semeria, Sertillanges e la «Revue des jeunes» esponenti di quel cattolicesimo «aperto», che egli aveva scoperto nell’Oratorio bresciano. Per Montini – secondo Gabriele De Rosa – la cultura non è fine a sé stessa, ma è intesa come preparazione a una più profonda vita spirituale, come emerge negli scritti del periodo «fucino».

    Fondamentale è la conoscenza del tomismo aperto di Jacques Maritain, dapprima mediato attraverso le opere ( Introduzione generale alla filosofia; Trois réformateurs, che egli traduce per Morcelliana) e poi diretto dal 1945, essendo entrambi accomunati dalla ricerca della soluzione al problema del rapporto tra fede e modernità. Il giovane Montini assistente della fuci attribuisce all’Università Cattolica un compito decisivo nella formazione di una cultura cattolica significativa per il nostro tempo e si rammarica che la formazione teologica non venga più impartita nelle Università statali.

    Paolo VI è ricordato dalla storiografia teologico-pastorale per aver posto attenzione, delineando la missione pastorale della Chiesa, all’«evangelizzazione delle culture» (esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, che fa seguito al Sinodo del 1974 su «Evangelizzazione nel mondo contemporaneo»). La scelta del plurale («culture») denota la comprensione di un avvenuto passaggio da una concezione umanistica a una concezione antropologica della cultura. Si rivela, in questo, un’assimilazione della Gaudium et spes conciliare (n. 62) che considerava la cultura come habitat delle persone e dei popoli e, quindi, come luogo nel quale la Chiesa si deve radicare: «Il Vangelo, e quindi l ’evangelizzazione, non si identificano certo con la cultura, e sono indipendenti rispetto a tutte le culture. Tuttavia il Regno […] non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane. Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna» ( Evangelii nuntiandi, n. 20).

    Nell’orizzonte culturale brilla in modo netto la presenza dell’ arte, sorella della stessa esperienza spirituale. È Pierangelo Sequeri a indagare ampiamente questo aspetto suggestivo. Secondo l’autore, la novità del pensiero di Montini/Paolo VI «risiede essenzialmente nella sperimentazione linguistica di un pensare poetico della verità della fede, che riporta alla sua trasparenza la res della fede, disincagliandola elegantemente dalle fasce soffocanti di una pigra gergalità metafisica, che lascia intendere l’abitudine alla parola non più pensata e non più viva di una mera comunicazio ne intra-ecclesiastica».

    Questa prospettiva (che non è solo però di linguaggio) si applica sia alla definizione della vita spirituale sia al pensiero sull’arte contemporanea, due dimensioni che Montini avvertì come «convergenti» fin dagli scritti degli anni 1930. «Una segreta parentela unisce certamente i mistici e i veri poeti […] [essi] cercano la dimora più recondita dell’animo, il vertice dello spirito, il centro del cuore, dove gli uni sentono la presenza di Dio, mentre gli altri vi percepiscono – benché non intimamente compresa, ma piuttosto sospettata e in qualche modo intuita – la presenza di un dono dell’ " autore della bellezza " (Sap 13, 3)» (Paolo VI, Altissimi cantus, lettera apostolica nel VII centenario della nascita di Dante Alighieri [1965], n. 56).

    Il suo magistero si è da sempre preoccupato di proporre la trasmissione della fede in un linguaggio comprensibile all’uomo contemporaneo: «Lo fa con altissima cura di conservare intatta la regola della fede, e al tempo stesso la riporta all’essenza del suo contenuto, mostrando efficacemente che quel contenuto non si lascia sostituire dalla forma dottrinale: ossia che la verità della cosa di Dio è capace di toccarci nell’anima, oltre la formula». Per fare questo, Montini ha dovuto riconoscere – non senza esitazioni – nella creazione artistica e nella sua autonomia una via per arrivare a Dio: «Eppure questa ricerca fa paura […]. Se la mia ricerca va verso il regno dei sensi: come vi scoprirò il Soprasensibile? Se io cerco nel campo dell’esperienza, come vi raggiungerò l’Ineffabile? […]. I senza fede pregano così. I moderni pregano così» (in «Studium» 1930).

    «Non è, dunque, per nulla sorprendente che, in questa visione del nucleo centrale del pensiero e della spiritualità montiniana, appaia, come sponda di esercizio e luogo di riscontro, l’apertura di una nuova contemporaneità per l’arte sacra, da tempo colpevolmente disertata». Si comprende, dunque, quanto il papa dice – tra l’altro – nell’allocuzione agli esponenti delle Commissioni diocesane di Liturgia e di Arte sacra riuniti nel 1967: fuori dalle necessarie limitazioni implicate dalla liturgia, il gesto artistico «può rivendicare per sé una maggiore e, in un certo senso, completa libertà». In questo ambito sarebbe da evocare, quasi come ad emblema della sua ricerca, lo straordinario discorso che Paolo VI tenne il 7 maggio 1964 nella cornice della Cappella Sistina incontrando gli artisti. Ribadendo una naturale parentela tra fede e arte, egli affermava che la sfida ultima dell’artista è «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità».

    Papa Montini si rivela, perciò, anche come un intellettuale che ha tracciato praticamente da solo una nuova via per la Chiesa, per cui diventano spontanei alcuni interrogativi: «Come ha trovato, quest’uomo, la via di questa correlazione? Come ha plasmato – praticamente senza modello – un magistero di questa intonazione?». Sarebbe, dunque, importante raccogliere questa eredità senza ripeterla stancamente ma procedendo ulteriormente: «Fra lo spazio specificamente liturgico e quello puramente profano è nel frattempo cresciuto un ampio spessore della storia degli effetti, all’interno dei rapporti dell’arte con il sacro […]. Per questo dominio l’estetica non ha (quasi) teoria. E il cristianesimo non ha (quasi) teologia».

    Siamo ormai al suggello del nostro itinerario testuale nella sequenza dei dodici contributi di questo volume destinati a comporre i lineamenti di un ritratto spirituale di papa Montini. Essi, però, si trasformano anche in una sorta di costellazione tematica del messaggio e dell’esperienza cristiana. L’ideale sigillo all’intera raccolta è affidato al celebre Pensiero alla morte, spesso citato dai vari autori di questi saggi. Di esso Claudio Stercal offre una fine interpretazione, attenta anche alla dimensione letteraria . Scritto probabilmente fra il marzo 1965 e il febbraio 1966, non è un testo «sulla» morte ma «in vista della» morte, ed è in realtà «una delle riflessioni più mature e affascinanti, scritte sino ad oggi, sul senso della vita».

    È la rilettura sintetica della propria vita da parte di un pastore, e la cura con cui fu redatto non lascia dubbi sull’intenzione che il documento fosse reso pubblico dopo la morte. È, quindi, un testo capitale per individuare i tratti fondamentali della figura spirituale di Paolo VI: l’imminenza della fine; il dialogo personale con Dio; la gratitudine per i doni ricevuti e il pentimento per le mancanze commesse; «l ’ansia di profittare dell’undicesima ora, la fretta di fare qualche cosa d’importante prima che sia troppo tardi»; l ’unione indefettibile con Cristo; il riferimento a Pietro come modello del suo pontificato; il suo «dono d’amore alla Chiesa».

    Si individuano sullo sfondo l’ Apparecchio alla morte di sant’Alfonso Maria de Liguori e Pascal ( Le mystère de Jésus nei Pensieri, n. 553). L’urgenza che lo anima, tanto da renderlo quasi un « Nunc dimittis», va connesso – secondo mons. Pasquale Macchi – al periodo terminale del Concilio, che Paolo VI desiderava fortemente concludere. Scritto in uno stile personalissimo e antiretorico, intriso di riferimenti alla Scrittura, ai Padri e agli autori spirituali, senza rimandi espliciti alla filosofia e alla teologia, lo scritto documenta un aspetto della religiosità fondamentale per Montini: la sua dimensione personale e irripetibile, frutto di un percorso individuale. Tale aspetto si ritrova anche negli scritti pubblici, come nel celebre e già citato discorso agli artisti, di appena un anno o due (1964) prima della stesura del Pensiero, nella Cappella Sistina, in cui il papa – come si diceva – tracciava un parallelo fra spiritualità e ispirazione artistica: «Non si tratta più solo d’arte, ma di spiritualità. Bisogna entrare nella cella interiore di se stessi e dare al momento religioso, artisticamente vissuto, ciò che qui si esprime: una personalità, una voce cavata proprio dal profondo dell’animo».

    Giunti, così, al termine di questa nostra introduzione analitica alla raccolta molto significativa e suggestiva di saggi che ora si aprono davanti al lettore, desideriamo aggiungere una piccola nota a margine, quasi un post scriptum. Nel n. 70 del «Notiziario» dell’Istituto Paolo VI (dicembre 2015) è stata pubblicata una corrispondenza, per buona parte inedita, intercorsa tra Giovanni Battista Montini/Paolo VI e il famoso autore spirituale trappista Thomas Merton negli anni che vanno dal 1949 al 1968. Si tratta di una sorprendente documentazione epistolare di un legame quasi tra maestro e discepolo, accuratamente edito e interpretato da Mario Zaninelli. Un legame che si trasforma in amicizia e confidenza a cui Merton attinge anche per alcune scelte fondamentali della sua esperienza personale e monastica. Anche questo tratto così specifico della spiritualità di Montini, in dialogo con uno straordinario e originale testimone della ricerca di Dio nell’ascesa al monte della contemplazione, può idealmente completare il profilo del volto di Paolo VI, irradiato dalla luce dello Spirito di Dio.

    Card. Gianfranco Ravasi

    DORA CASTENETTO

    LA VOCAZIONE

    VOCAZIONE: DONO E MISTERO

    Non è facile tradurre in parole l’itinerario di una vocazione, qualunque essa sia. È come penetrare nel mistero profondo di una persona, nei meandri dell’anima: percepirne i sussulti, i desideri, le tentazioni fino a scoprire l’unità di una intuizione, che si fa decisione di una scelta che prenderà la vita.

    Si può leggere così l’itinerario di Giovanni Battista Montini, del giovane Battista, come è chiamato dai familiari e dagli amici, nella sua incessante ricerca della verità, fin dai tempi degli studi liceali, in cui gli stimoli delle varie discipline gli consentivano di aprire lo sguardo e la mente verso una verità «oltre», lasciandogli intravedere l’orizzonte dei misteri divini. La ricerca della verità e della felicità accompagna il germogliare della sua vocazione. C’è in lui, quasi prepotente, come scriverà in un testo del 1930, il bisogno di

    «Vedere! Vedere: cioè conoscere, subito, direttamente, facilmente. Conoscere tutto, conoscere Dio: questa è la vita, la vita vera, eterna [...]. E allora, cercavo vedere. Vedere direttamente, intuire. Nelle vie dello spirito questo non è dato che ai beati ed ai mistici. Gli altri vi tendono laboriosamente, penosamente; consolati da una lenta conquista di luce» [1] .

    È, la sua, una ricerca profonda. Una ricerca dello spirito, che non nasconde l’inquietudine e la consapevolezza di non poter imprigionare la conoscenza di Dio e dei suoi misteri nella pochezza e nella povertà dei limiti dell’intelligenza umana. La sua è intelligenza interrogante e interrogata. Come lo è la fede, che apre a orizzonti e a progetti di vita «alti», impegnativi, non comuni. Insieme sta il desiderio di contemplare e godere della bellezza. Lo scrive da Verolavecchia (Brescia) all’amico Andrea Trebeschi, il 29 settembre 1915, mentre assapora con gioia alcuni giorni di vacanza:

    «Io me ne sto godendo questi bei giorni di vacanza: incomincio finalmente a gustare la meravigliosa bellezza della natura trovandovi la mano del Creatore: se avessi visto in queste sere che luna! Non mi sarei stancato mai di guardarla: quante bellezze in questo mondo! Chissà nell’altro! [...]. Abbiamo tanto bisogno di avere intorno a noi la bellezza, ciò che ci piace, ciò che soddisfa la nostra povera anima, che quando troviamo una briciola di ciò che cercavamo non finiamo di contemplarla» [2] .

    Poi, come se il pensiero documentasse il sovrapporsi di uno stato d’animo, che si coniuga alla «sete continua di felicità», aggiunge il desiderio di saper «trovare la gioia nel sacrificio», di cui l’amico gli è stato testimone: «Ora ti ringrazio d’avermene tu tante volte dato l’esempio: prega perché il sacrificio nel Signore diventi la soavità, la dolcezza, il mio cibo quotidiano».

    È come manifestare la persuasione che non vi è felicità senza sacrificio, soprattutto per una vita di totale donazione a Dio, che egli intende abbracciare e che non può non essere connotata di rinuncia, di abnegazione. Lo scriverà con chiarezza, il 7 ottobre 1916 [3] , al fratello Lodovico, al quale manifesta la sua scelta, indugiando sull’aspetto del sacrificio, reso più caro e sopportabile per la ricchezza d’affetto dei suoi cari e degli amici. Vorrebbe sperimentare solo l’amore della chiamata del Signore che colma il cuore, ma non può tacere le «stigmate profonde e dolorose di male, di debolezza, d’ingratitudine», che accompagnano l’obbedienza cogente alla voce che lo chiama e non può essere che indice di felicità. Il sacrificio, dunque, conduce alla felicità. Nella stessa lettera scrive: «Perché attraversando un campo di sacrificio io arrivo alla felicità! Ecco la mia via, ecco la verità, il perché del mio abbandono, ecco la vita della mia vita. Oh! cos’è mai la felicità?».

    Pensieri di assoluta fiducia e gioia che sorreggono e alimentano l’intuizione della scelta del sacerdozio, pur in un vissuto in cui si compongono certezza e oscurità, paura e sgomento dinanzi all’arcano messaggio di Dio, difficile da decifrare, eppure assolutamente desiderato, capace di prospettare una vita nuova, che affondi nella fede e la illumini, lasciando che lui, il Signore Gesù, parli dentro l’anima. Pensieri che si troveranno anche quando Montini diventerà sacerdote, persuaso che la domanda della fede debba essere collocata non nell’arroganza della ragione ma nella sapienza di Dio comunicata ai piccoli (cfr Mt 11, 25). E ciò senza negare la possibilità di decifrare l’impronta di Dio nel volto delle cose terrestri. La sua ricerca si articola, perciò, nel bisogno di coniugare il valore del pensiero con l’affidamento a un Interlocutore, che lo invita, con amore, a seguirlo in modo radicale, possibile soltanto a chi è dato di «comprendere» (cfr Mt 19).

    Lasciarsi condurre dal singolare invito diverrà la decisione fondamentale, anche nei momenti in cui il «comprendere» potrà sembrare soltanto un balbettio dell’intelligenza e del cuore. E il disegno di un Altro, che pure plasma interamente la vita, sembra proporsi spesso informe, pur prendendo consistenza. Nell’alternanza di oscurità e di luce, di paura ed entusiasmo, che lo pongono davanti alla Parola che darà forma alla scelta del sacerdozio, Montini ha bisogno di conferme e di incoraggiamento.

    Nell’estate del 1913, a sedici anni, egli avverte i primi desideri di una consacrazione a Dio. Durante i suoi soggiorni a Chiari (Brescia) per la preparazione degli esami ginnasiali, ospite di mons. Domenico Menna, ha modo di frequentare la comunità benedettina di Sainte-Marie-Magdeleine di Marsiglia, che lì risiedeva, e di gustarne la spiritualità e la preghiera liturgica, rimanendone assai colpito tanto da rievocare durante il suo pontificato:

    «Ero il solo fedele presente, ma vi dico che ho provato un senso di estasi per la maniera con la quale celebravano le sacre cerimonie e soprattutto la delizia con cui sapevano cantare il canto gregoriano. Era un gregorianista di prim’ordine – ricordo il nome, ma non ho altra memoria, Jeannin – che suonava e riempiva la grande chiesa di armonie che sembravano essere colloquio fra cielo e terra. E questa impressione della preghiera, fatta direi per se stessa e da nessuno accolta e condivisa se non da quelli stessi che la proferivano e dal cielo a cui era rivolta, fu scolpita nella mia anima ancora molto giovanile e rimase uno degli argomenti e uno dei motivi per cui mi fu caro dare la mia vita al servizio del Signore» [4] .

    L’11 settembre dello stesso 1913 Giorgio Montini in una lettera invita il figlio a confidarsi con padre Paolo Caresana: «Mi pare buona cosa che Tu colga questa bella occasione per aprirTi col R.P. Caresana sui tuoi progetti per l’avvenire: egli è persona che può giovarTi di consiglio, e, in cose di alta importanza, i consigli di persone assennate e sante non sono mai inutili» [5] .

    Tra i primi, ai quali il giovane Battista confida il suo desiderio e la sua intenzione, sono due amici cari, compagni di scuola, Lionello Nardini e Andrea Trebeschi, con cui vive una comunione profonda. Con quest’ultimo, soprattutto, il giovane Montini svolge impegni intensissimi di carattere religioso e sociale, che non lo distraggono dalla decisione di farsi sacerdote, ma ne acuiscono piuttosto il significato apostolico e credente. Condivide con l’amico la disamina del problema religioso, della dimensione antropologica e sociale della fede, da testimoniare e proporre ai coetanei spesso in crisi. Anche questo impegno rafforza la confidenza e la condivisione; per cui si può ben comprendere l’apertura del cuore nel comunicare all’amico, nella lettera scritta il 30 novembre 1914, il suo progetto per l’avvenire:

    «Carissimo, oh, se tu sapessi quanto m’è dolce pensare ch’attraverso gli anni della mia vita avrò di fianco, lo spero, te come amico che comprenderà i miei ideali! Quali sono, domanderai, i tuoi ideali? In questi ultimi anni della mia vita, alcune volte quando ero costretto a rimanermene a casa dalla scuola, la mia mente s’è aperta in pensieri più seri. Una volta camminando di sera guardavo le stelle lucide del firmamento e procuravo che la mia mente fosse compresa dell’immensità del creato: capivo che tutti gli astri non erano che pulviscoli giranti rispetto all’immensità dello spazio, pure il pensiero d’essere confinato in questo mondo, per l’uomo così vasto, ma, in relazione cogli astri e collo spazio, vero atomo microscopico, e il vedere al di sopra di me migliaia di mondi ignoti rappresentanti per me bellezze e attrattive fantastiche e grandemente superiori a tutto ciò ch’è nel mondo, provavo un vivo desiderio d’una felicità non legata al misero fango della terra. E a me stesso davo questa risposta: Sei destinato ad esser assunto principe nel regno che governa il cielo [...]. Ecco dunque il mio ideale: la mia vita passerà rivolta in alto, e il dolore e la miseria non valgano a distrarla colle chimere di gloria e di piacere dal cammino verso la vita avvenire. Lo devo ripetere: m’è dolce pensare che tu mi sarai amico nella vita che m’attende piena di sacrificio» [6] .

    Si tratta di un rapporto spontaneo, di un’amicizia autentica, sostegno prezioso in un non facile discernimento.

    A Nardini scrive il 28 dicembre 1915: «Ti ringrazio pure delle preghiere che vuoi fare per me: non puoi immaginare quanto ciò mi faccia piacere, sapendo d’aver molto bisogno dell’aiuto del Cielo per poter camminare quella via che mi vien indicata con tanto amore» [7] . E il 26 ottobre 1916, dopo l’inizio del seminario:

    «Oggi è giovedì, quindi vacanza e la vacanza dà modo di ricordarsi degli amici lontani. Veramente il ricordo di te è poco facile s’allontani dalla mente e dal cuore, specialmente in questi giorni che per me sono i primi di una – vita nova –. Ho incominciato venerdì; anche questa è stata un’attenzione del Signore: ha voluto che nel giorno in cui si ricorda la sua Passione avessi anch’io a inaugurare il mio sacrificio: perciò da questa coincidenza puramente materiale e incidentale voglia la sua Bontà farne scaturire una coincidenza più reale, veramente santa, che mi faccia assomigliare a Lui, nostro modello, nostra unica forza per camminare sulla via del Cielo» [8] .

    Il cammino, dunque, sembra farsi più spedito e sicuro, anche se non vengono meno le inquietudini di una ricerca seria, spesso sofferta. Montini sa, non razionalmente, ma per fede, che Chi lo invita a seguirlo non delude, anche se l’attesa può essere lunga. È quanto affermerà, ormai papa, nella sua visita all’Università di Roma il 14 marzo 1964 con una parola di speranza: «C’è forse, già al prossimo crocicchio, Uno che vi aspetta» [9] . È la conferma che la vocazione è dono di un amore paziente, che sa sciogliere ogni trepidazione e paura.

    Il giovane Montini ha tuttavia bisogno di essere confermato in questa consapevolezza. Trova un sicuro appoggio in illuminati maestri ed educatori spirituali, che gli sono vicini. Tra essi padre Giulio Bevilacqua e, soprattutto, padre Paolo Caresana, religiosi filippini, dai quali assapora la straordinaria formazione cristiana e sociale nell’Oratorio della Pace di Brescia. Con tale comunità egli vive un legame profondo e privilegiato, pur accogliendo molti stimoli e preziosi elementi formativi anche da altre associazioni e movimenti, soprattutto dall’insegnamento dei padri gesuiti dell’Istituto Cesare Arici di Brescia, che aveva frequentato.

    La scelta per la sua guida spirituale è per padre Caresana, la cui sapienza si coniuga con una singolare paternità, sempre attuata nella relazione con il giovane Battista, ricca d’affetto e di vicinanza, radicata in una fede pura, senza retorica e senza presunzione. Ne è efficace testimonianza il ricchissimo carteggio [10] , come un tesoro prezioso, da cui trarre elementi importanti per chi chiede, o gestisce, un servizio di «direzione spirituale».

    Nella primavera del 1915 Battista si affida con fiducia sempre maggiore a padre Caresana e nell’agosto dello stesso anno, dal 17 al 20, vive con lui e con don Francesco Galloni alcuni giorni di ritiro spirituale presso l’eremo camaldolese di San Genesio, sul Monte di Brianza, e si orienta sempre più verso la via del sacerdozio. Qui, in un clima di silenzio e di contemplazione, alimentato anche dalla bellezza della Brianza e dallo scorrere dell’Adda, che dall’alto del colle si può ammirare, forse il giovane Montini ritrova la sua aspirazione alla bellezza e assapora il raccoglimento e la preghiera, nel cui grembo è più facile percepire la voce di Colui che lo chiama.

    Diventa consapevole della necessità della preghiera, da coltivare e vivere con fede vigile e operosa, con l’aiuto dei padri filippini. In essa egli si apre interiormente e profondamente all’ascolto di un invito singolare, al quale rispondere con fedeltà, non senza soffrire l’alternanza di gioia e di dubbi, come già aveva confidato a padre Caresana il 3 aprile: «Quest’anima mia tante volte stanca e affannata per un turbine d’idee, di progetti, di desideri, ora pacifica e lieta guarda ed esulta pensando alla Pasqua di Risurrezione» [11] .

    La mamma Giuditta Alghisi gli scrive il 18 agosto: «Tentiamo gettare un filo che ti raggiunga e ti porti il nostro saluto e ti dica quanto vorremmo saperti di lena e soddisfatto di codesto soggiorno così nuovo e così seducente per le anime come la tua». E il papà aggiunge: «Ti abbraccio, Battista mio, e ti auguro ogni benedizione» [12] .

    Il rapporto con il padre spirituale si va intensificando: si coglie in Battista un bisogno di ubbidienza autentica, che si fa dipendenza nella fede, ben distinta da quella psicologica, che può solo dire un bisogno di rassicurazione. Il suo è sempre l’atteggiamento di chi vive di fede, libero e lontano da ogni forma di autosufficienza e di presunta autonomia, radicalmente e cristianamente espropriato, nella ricerca e nell’interpretazione di un Disegno

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