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Dipinto
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Dipinto

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Se l’arte può catturare l’anima, che succede se una di queste anime fugge?

Quando la perita d’arte Anita Cassatt viene inviata a catalogare l’ampia collezione dell’artista solitario Leo Kubin, non è solo la gelida atmosfera della casa isolata a farla rabbrividire; è il silenzioso pubblico dei ritratti accumulati su ogni parete che la fissano, incluso il dipinto incompleto sul cavalletto del pittore. Un ritratto familiare in maniera inquietante.

L’avvocato di Kubin non ha condiviso le istruzioni dettagliate su come gestire i dipinti, e Anita e la sua squadra iniziano il loro lavoro ignari proprio delle informazioni necessarie per restare al sicuro. Al sicuro dai dipinti.

Disturbati, i soggetti dei ritratti escono dalle loro cornici, liberi infine dai confini della tela. E non hanno alcuna intenzione di tornarvi mai più; ci sono quadri da dipingere…

LanguageItaliano
Release dateOct 14, 2017
ISBN9781507194966
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    Dipinto - Kirsten McKenzie

    1

    «P uò andarsene fischiettando fino alla tomba, perché non guiderò fino a lì di nuovo. L’ultima volta ho sprecato ore ad andare e tornare, perciò può beatamente mandare i documenti con un corriere. Contattalo e diglielo». Alan Gates congedò la sua segretaria con uno scatto del polso, mormorando tra sé qualcosa sugli anziani presuntuosi che si rifiutavano di accettare la tecnologia. Come se lui avesse avuto il tempo di guidare fino alla costa per modificare il testamento di un idiota delirante. La lettera aveva schizzi di vernice ed era stata indirizzata a suo padre, che era morto e sepolto da ormai tre mesi, non proprio un approccio professionale .

    Ora che gestiva lui l’azienda di famiglia, le cose sarebbero cambiate. Niente più accontentare i poveri e assecondare gli anziani; la ditta aveva bisogno di una mano ferma e di clienti redditizi. Il pasticcio che suo padre si era lasciato dietro non avrebbe mai smesso di sorprenderlo. Per fortuna era morto quando era morto, finché c’era ancora qualcosa che si potesse salvare.

    Alma Montgomery espresse la sua insoddisfazione tirando su col naso mentre chiudeva la porta dell’ufficio di Alan. Suo padre si sarebbe rivoltato nella tomba se avesse saputo come il figlio trattava i clienti.

    Stretta nelle sue mani nodose c’era la lettera che Alan trovava così offensiva. Una lettera autografa di uno dei più antichi clienti della ditta, Leo Kubin. Lei non l’aveva mai incontrato nei trent’anni in cui aveva risposto al telefono e dattilografato documenti legali per il padre di Alan, e adesso per Alan stesso, ma aveva riconosciuto la lettera non appena era arrivata. Un lieve odore di trementina minerale impregnava la carta e un caleidoscopio di goccioline macchiava gli angoli e i bordi dello spesso documento.

    Nonostante la supposizione che fosse un uomo disordinato, come lei sapeva essere molti scapoli, i suoi pensieri erano chiaramente espressi nella lettera: malato terminale, voleva rimettere in ordine i suoi affari. Aveva incluso una risma di appunti, meno macchiati di vernice della lettera, ma senza dubbio vergati dalla stessa mano. La grafia era sottile, il risultato di un sistema scolastico ormai da tempo consegnato alle discariche. Pagina dopo pagina, indicava come gestire l’ampia collezione artistica di Kubin alla sua morte.

    Non era insolito che un appassionato collezionista lasciasse istruzioni per la gestione dei propri beni ma, sfogliando le pagine, Alma notò che alcune di queste sembravano bizzarre persino a lei. Ogni ritratto doveva essere chiuso in una cassa non appena rimosso dalla parete e non doveva essere lasciato appoggiato a un muro, poggiato su un tavolo o imballato con altri oggetti. Ogni ritratto doveva essere imballato separatamente e spedito alla National Portrait Gallery. Gli altri pezzi della collezione dovevano essere venduti, e il ricavato distribuito ai bisognosi. Date le dubbie pratiche amministrative di Alan Gates Junior, Alma non si sarebbe affatto stupita se avesse incluso sé stesso tra i bisognosi di cui si parlava nelle istruzioni di Kubin.

    Alma rimosse quell’ultima pagina, il riferimento ai bisognosi. Non veniva mai nulla di buono dalla distruzione di documenti legali, ma Alan aveva insistito per acquistare un distruggidocumenti in modo da potersi liberare meglio dei vecchi incartamenti. Con un sorriso amaro, infilò quella pagina nel macchinario. Tutta la collezione del signor Kubin poteva essere donata alla galleria. Loro erano più adatti a decidere cosa farne. In quei tempi di riduzioni fiscali, qualunque istituto d’arte pubblico poteva essere considerato una causa caritatevole. E, dopo tutto, quanti oggetti d’arte poteva avere un uomo solo a casa sua?

    Un piccolo necrologio apparve nel giornale locale per annunciare la morte di Leonard Kubin, pittore, ottantenne. Nessun familiare noto.

    Alan Gates Junior chiuse il giornale. Lo leggeva solo casomai avesse menzionato qualcuno dei suoi clienti. Liberare la ditta dei morti e degli indegni era un gradevole hobby e il compito banale di distruggere le loro pratiche lo sollevava. Quindi anche la pratica del signor Kubin avrebbe potuto essere eliminata ben presto, una volta finalizzata la vendita della sua casa e delle sue proprietà.

    Mentre chiamava Alma per farsi portare il fascicolo di Kubin, pensò alla parcella che la ditta poteva attendersi dalla vendita. Aveva un vago ricordo di una vasta collezione d’arte. Non aveva prestato molta attenzione all’epoca, ma gli uomini più asociali erano quelli che più probabilmente avevano messo da parte un Matisse, o una mezza dozzina di quadri a olio di Monet scomparsi da tempo. Gli occhi gli brillavano più delle scarpe italiane fatte a mano che aveva ai piedi. Avrebbe potuto essere un buon giorno di paga per la ditta, proprio così. Non tutto doveva necessariamente essere donato. Quell’uomo era stato anziano, la sua mente non era stata lucida. Meglio vendere tutti gli oggetti di valore e donare gli scarti. Magari far scivolare uno o due dei pezzi migliori nella sua collezione personale.

    Dopo aver istruito la vecchia zitella su cosa voleva che venisse predisposto per i beni del signor Kubin, Alan si fregò le mani. Da amante del golf, aveva calcolato che ben presto sarebbe stato in grado di passare al miglior club dalla parte opposta della città. La tassa di iscrizione aveva almeno cinque cifre in più rispetto a quanto pagava al momento, ma ben presto non sarebbe più stato un problema. Meritava di mescolarsi a una classe di persone più elevata rispetto a quella frequentata da suo padre. Era da lì che arrivavano i clienti danarosi, appena giunti dai prati ben curati del Bolton Hills Golf Club, e lui non vedeva l’ora.

    Contro ogni buon senso, Alma Montgomery scrisse la lettera al Servizio di Valutazione Fondi e Proprietà Nickleby, richiedendo i loro servizi per catalogare e vendere i beni del signor Kubin, e la lasciò sulla scrivania vuota di Alan perché la firmasse. Sul retro aveva allegato con una graffetta le istruzioni dettagliate di Kubin su come i ritratti dovessero essere trattati. Si massaggiò il petto, incerta se le facesse più male quello o le mani artritiche. Le dava fastidio da giorni. Era arrivato il momento di andare in pensione. Non c’era niente di bello nel lavorare per Alan Junior. Lo conosceva da quando era stato un ragazzino, un ragazzino a cui piacevano gli scherzi crudeli, i commenti maligni e tutto ciò che i soldi potevano comprare. No, la vita era troppo breve, non gli sarebbe mancata se se ne fosse andata. Avrebbe preferito una cosetta giovane e malleabile in minigonna e tacchi a spillo che ballonzolava per l’ufficio. Non lei, con le suole ortopediche e i pantaloni seri. Il giorno dopo gli avrebbe detto delle sue intenzioni.

    Chiudendo l’ufficio, Alma si fermò a prendere fiato. Si premette le mani sul petto, scoprendosi tutta sudata. La sensazione passò e lei si rimise in cammino, dirigendosi alla fermata del bus, ignara del fatto che non avrebbe mai più messo piede in ufficio.

    2

    Se Alan Gates Junior provava qualcosa per la morte improvvisa della sua segretaria, nessuno avrebbe potuto dirlo. Se ne stava da un lato dell’area di sepoltura, a spostare il peso da un piede all’altro, ansioso di andar via. Non interagì con i figli adulti di Alma, con la loro prole emotiva attaccata alle gambe. Non potevano lasciarli a casa? pensò quando uno di loro gli strattonò i pantaloni. Al massimo lo infastidiva che avesse scelto proprio quel momento per morire. Lui era lì a cercare di far crescere la ditta e potare i rami secchi e Alma, con la sua memoria enciclopedica dei loro clienti, lo aveva lasciato nelle peste. Come avrebbe dovuto ricordarsi chi erano, o se valesse la pena conservarli ?

    Non gli passò mai per la mente di prendere parte alla veglia. Doveva assumere una nuova segretaria, e aveva una ditta da gestire. Che quella gentucola andasse avanti con le sue piccole vite. Si allontanò velocemente dal capannello di gente in lutto e si infilò nella propria auto sportiva rossa senza alcuna preoccupazione o rispetto per la defunta, con la musica che esplodeva dallo stereo mentre usciva dal cimitero. Alma era già stata cancellata dalla sua mente.

    L’ufficio era stato in tumulto fin dalla sua morte. Posta ancora chiusa si accumulava in terra all’ingresso e la luce rossa dei messaggi sull’impianto telefonico lampeggiava costantemente, chiedendosi dove fosse Alma e perché non svuotasse la segreteria. Alan la disconnesse. Comunque non aveva idea di come svuotarla, era stato compito di Alma. Se qualcuno avesse avuto bisogno di lui, avrebbe potuto mandargli un’e-mail. Raccolse la posta e la gettò sulla sua scrivania. In che casino l’aveva lasciato. Dannata donna ingrata. E che spreco del suo tempo, ascoltare quel pastore rimbambito che continuava a parlare delle sue opere caritatevoli. Se aveva avuto abbastanza tempo per tutte quelle cose, allora non si era impegnata a sufficienza nel lavoro per lui. Una persona nuova in ufficio sarebbe stata un miglioramento.

    Seduto alla scrivania a far scattare la sua penna a sfera incisa, trovò l’incartamento che Alma gli aveva lasciato perché lo firmasse e spedisse a Nickleby. Lesse la lettera e gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite quando vide le istruzioni dettagliate che Alma aveva allegato. Non era necessario passarle a Nickleby. Avrebbero pensato che era pazzo se le avesse allegate. Quale persona sana di mente avrebbe richiesto che ogni dipinto venisse rimosso dalla parete su cui si trovava per essere immediatamente imballato? Non era il modo in cui un perito serio lavorava. Ogni pezzo avrebbe dovuto essere esaminato, fotografato, poi imballato nel modo meno costoso possibile dagli esperti. Gli scarti sarebbero stati scaricati alla National Portrait Gallery, e Nickleby avrebbe venduto tutto il resto, ovviamente prendendosi un’adeguata fetta del ricavato.

    Alan era stato una volta a casa di Kubin, subito dopo essersi fatto carico della ditta. Durante quella visita si era fatto l’irrefutabile opinione che quell’uomo fosse pazzo. Alan avrebbe potuto giurare di averlo sentito parlare con i ritratti sui muri mentre si aggirava in quella vecchia casa. Chiunque parlasse con tale familiarità a delle opere d’arte avrebbe dovuto essere consegnato a un ospedale psichiatrico. Non si era mai più preso il disturbo di guidare fino a quella vecchia casa fatiscente finché non era arrivato il momento di valutare la collezione. Chiaramente qualche costruttore l’avrebbe comprata e demolita. Lui avrebbe fatto così.

    E fu così che la lettera di Alma, senza le istruzioni dettagliate del signor Kubin, arrivò a Nickleby e atterrò sulla scrivania del perito junior Anita Cassatt.

    Studentessa d’arte in un’università di medio livello, Anita si era laureata col massimo dei voti, cosa che le aveva assicurato un posto nel Reparto di Valutazione di Nickleby. I suoi giorni erano riempiti dalla catalogazione di opere d’arte provenienti dalle migliori case. Opere minori di artisti moderatamente noti le passavano tra le mani ogni giorno. I pezzi migliori venivano gestiti dagli associati anziani. Quel lavoro era la perfetta base di partenza per una neolaureata, ma c’era un limite alla quantità di acquerelli di Edwin Fields e John Varley che poteva sopportare, e si stava stancando di panorami decorati con cavalli e mulini ad acqua.

    Come un dono dagli dei, un appunto era stato spillato alla lettera dal suo superiore, dicendole di valutare e catalogare la collezione di ritratti elencata nella lettera dell’avvocato.

    L’eccitazione la solleticava. Un lavoro sul posto, fuori dall’ufficio, un’ignota collezione di ritratti. Nessun accenno a paesaggi o scene di caccia. Anita inserì l’indirizzo nel suo computer. Una casa solitaria si materializzò sul suo schermo. Pareti di pietra grigia che facevano a gara con sporgenze di roccia, campi incolti che si allargavano dietro l’edificio e un oceano rabbioso che aggrediva le scogliere al di sotto. L’esterno della casa era privo dei decori tipici della maggioranza delle proprietà costiere di lusso.

    La stampante ronzò mentre stampava le indicazioni stradali, l’emozione riduceva ogni preoccupazione per la posizione remota della proprietà. Secondo la lettera dell’avvocato, le sole dimensioni della tenuta avrebbero richiesto che passasse lì diverse notti, ed erano stati presi accordi perché potesse sistemarvisi per tutto il tempo necessario. Fantastico, una minivacanza.

    Una conversazione a senso unico con l’avvocato finalizzò i suoi piani. Non le era stato affatto utile, e i suoi secchi aneddoti sul proprietario defunto erano del tutto inappropriati. Al pover’uomo stava venendo fatto un disservizio dal rappresentante legale che si era scelto. Si era sentita sporca dopo la conversazione, e si era pulita le mani sulla gonna dopo aver riattaccato.

    Nonostante il colloquio insoddisfacente con l’avvocato, il suo entusiasmo per il compito che le era stato assegnato risaliva in superficie. L’artista era stato un astro nascente negli anni cinquanta, aveva esposto i suoi ritratti a New York ottenendo un certo clamore, ma neppure Internet riusciva a dirle cosa gli fosse accaduto dopo. Non era un pittore che le fosse familiare, ed era scomparso dalle scene verso la fine degli anni cinquanta. Ogni volta che uno dei suoi oscuri ritratti appariva sul mercato, veniva acquistato anonimamente per poi non ricomparire mai più. Nickleby stessa ne aveva messi all’asta solo due negli ultimi cinquant’anni. Le immagini nei loro vecchi cataloghi erano più inquietanti delle fotografie in bianco e nero della giornata.

    C’erano poche immagini online. Stampò quelle che riuscì a trovare per confrontarle con ciò che avrebbe trovato sul posto. Non si poteva mai sapere che genere di accesso wi-fi potesse essere disponibile in un luogo tanto isolato, e il signor Kubin non era stato considerato abbastanza importante da essere incluso in qualcuno dei libri di riferimento che aveva infilato nella sua valigetta.

    «Tutto a posto, Anita?» le chiese Warren Taylor, il suo superiore, avvicinandosi alla scrivania. Un brav’uomo, esperto nel suo lavoro, colto e affabile. Una confluenza di attributi inedita in un superiore. Anita sapeva di essere fortunata.

    «Tutto a posto, grazie, Warren. Sarà divertente».

    «Sicura che ti stia bene restare lì per conto tuo per qualche giorno? È solo che non c’è nessun altro disponibile per raggiungerti prima di mercoledì, nella migliore delle ipotesi. Ho provato con gli altri reparti, ma…»

    «Va tutto bene», lo interruppe Anita. Notando la preoccupazione sul suo volto, aggiunse: «Sono una donna adulta. Va bene, davvero. Starò bene lì. È solo arte. Cosa potrebbe andare storto?»

    Warren rise. «Sì, sì, certo, beh, pensavo solo, be, sai cosa… e tu lì per conto tuo. Volevo esser certo che ti stesse bene, il fatto di startene lì per conto tuo. Comunque, ti raggiungeremo mercoledì pomeriggio o giovedì mattina al massimo per aiutarti a finire. Francamente sono rimasto sorpreso dalla quantità di pezzi nella casa, se gli appunti dell’avvocato sono accurati. Non vedo l’ora di vedere io stesso il posto. Assicurati di lasciarci qualcosa da fare, non cercare di fare tutto da sola. Non fa mai bene affrettare un lavoro». E se ne andò.

    Anita sperava che quella collezione sarebbe stata la sua fortuna. Cercò di non pensare alle preoccupazioni di Warren. Non serviva a nulla preoccuparsi. Se la sarebbe cavata bene da sola.

    3

    Dopo un viaggio in auto di tre ore con lo stereo che sparava i greatest hit dell’anno, Anita avanzò a fatica per l’ultima ora lungo una strada di ghiaia, dove solo pennacchi di polvere mostravano la strada percorsa e davanti non c’era nulla di invitante. Un incontro fin troppo ravvicinato con un antico trattore a un angolo l’aveva lasciata scossa, ed era arrivata alla casa da revival gotico di Leo Kubin col battito ancora accelerato e un velo di sudore sulla fronte .

    Appollaiata sulla brulla costa orientale spazzata dal vento, la casa non aveva vicini, se si escludevano gli animali selvatici che saltellavano nei campi incolti. Inalando la tonificante aria della costa, Anita scaricò la macchina. Con la valigetta rigonfia in una mano, controbilanciata dalla sua borsa per la notte nell’altra, iniziò l’ascesa verso la pesante porta di quercia.

    Alan Gates aprì la porta, e la sua espressione seccata si addolcì quando vide la sua età e il suo aspetto, anche se non per questo il suo atteggiamento migliorò. «Signorina Cassatt, mi aspettavo arrivasse più presto. Purtroppo ho un impegno precedente da onorare, quindi non ho tempo di mostrarle il posto. Sono certo che potrà cavarsela da sola. Una delle stanze di sopra è stata preparata per lei, e ci sono delle provviste in cucina. La contatterò domani per informarmi sui suoi progressi». Scuotendo una catena arrugginita legata alla ringhiera, sorrise. «C’era un cane, ma non si è più visto da quando il vecchio è morto. Probabilmente non lo vedrà ma, sa com’è, meglio tenere gli occhi aperti… ora deve scusarmi, sono davvero in ritardo per la partita». Con un evidente ammiccamento, e senza che Anita avesse detto una sola parola, si infilò il cappotto e uscì dalla porta verso il vialetto e l’unica altra auto presente, una macchina sportiva di lusso dal telaio basso, del tipo preferito dagli uomini di una certa età in tutto il mondo. Sembrava aver combattuto e perso una guerra contro la ghiaia del vialetto, c’era una grossa scheggia di pietra sul parabrezza.

    Anita guardò il pomposo avvocato manovrare la sua bestia lungo il viale finché non scomparve alla vista, col nervosismo che montava. Quell’uomo era tanto sgradevole di persona quanto lo era stato al telefono. Si voltò ed entrò in casa, ritrovandosi di fronte a un pubblico.

    Un pubblico di occhi, immortalati in ritratti che occupavano ogni parete. Ritratti a olio, schizzi, acquerelli. Ogni permutazione della pittura era appesa alle pareti dell’ingresso. Appesa in equilibrio precario, senza alcuna logica apparente nella disposizione. Nessuna coesione o sistema.

    Anita permise alla porta massiccia di chiudersi dietro di lei, col fiato intrappolato nei polmoni. Si girò come se fosse stata su una giostra, sopraffatta dal compito che aveva davanti e dalle centinaia di paia d’occhi che seguivano ogni sua mossa.

    Scuotendosi di dosso brandelli di apprensione che le appesantivano le spalle, e lasciando la borsa all’ingresso, si avviò ad esplorare la casa e, cosa più importante, a cercare un bagno. Ogni parete che superava era rivestita di ritratti. Alcuni eccezionali, molti ordinari, una piccola parte infantili nella loro semplicità. Anita sbirciò le firme mentre esplorava la casa, fermandosi davanti a uno che sapeva essere di Thomas Fairland. Ci sarebbe arrivata, a un certo punto, ma si prese un appunto mentale di catalogarlo tra i primi.

    Per fortuna, l‘unica stanza priva di ritratti era il bagno vecchio stile, per il suo incommensurabile sollievo. Non la solleticava l’idea di sedersi lì con una decina di paia d’occhi che la giudicavano.

    Occupatasi di quella piccola questione, iniziò a rilassarsi. Il suo livello di concentrazione aumentò ora che poteva genuinamente pensare alle opere d’arte che la circondavano. Particelle di polvere nuotavano come ubriache nei deboli raggi di luce che segnavano la strada da cui era arrivata. Tornata all’ingresso, Anita controllò il telefono. Doveva chiamare sua madre per dirle di essere arrivata sana e salva. Lei non avrebbe voluto che andasse fin lì da sola. "Spero che facciano in modo che ne valga la pena, almeno" erano state le sue esatte parole. Non c’era campo. Non era affatto sorprendente in un luogo tanto isolato, ma sentì comunque un accenno di panico. Non essere in grado di usare il telefono l’avrebbe tenuta ancorata alla realtà, ma sua madre non l’avrebbe mai perdonata. Tra loro c’era una regola non scritta per cui lei le faceva uno squillo ogni volta che arrivava da qualche parte. Si accigliò pensando alle condizioni in cui sarebbe stata sua madre al momento. L’avvocato era sparito prima che potesse chiedergli se ci fosse una qualche linea telefonica, o il wi-fi. L’avrebbe scoperto, e poi avrebbe dovuto trovare il modo di placare sua madre.

    Decidendo che sistemarsi prima della notte sarebbe stato un modo migliore di usare il suo tempo, raccolse i bagagli e salì lungo la scalinata decorata. Il leggero strato di polvere sul corrimano in legno era l’unico segno che la casa fosse vuota. Doveva ancora acquisire quel particolare odore di decadimento che avvolge una casa deserta, come se i tappeti fossero fatti di muffa stagnante e le tende fossero il paradiso delle carcasse di falena essiccate. Ci sarebbe arrivata presto, non appena l’acqua calda fosse stata spenta e l’elettricità staccata. Le tempeste invernali avrebbero staccato le tegole del tetto, e così la casa avrebbe accolto la neve e qualunque animale in cerca di rifugio.

    Scacciando quel pensiero dalla testa, si diresse verso l’unica porta aperta del corridoio, le sue borse più pesanti a ogni passo. Era chiaro che la stanza fosse la sua, con asciugamani stesi sul letto e un appunto indirizzato a lei sul tavolino vittoriano. Lasciando cadere i bagagli in mezzo alla stanza, la ispezionò con lo sguardo.

    Le parti visibili della carta da parati erano vecchie e sbiadite, con gli angoli che si staccavano dall’intonaco sbriciolato. Il resto delle pareti era ricoperto di quadri. Non erano tutti ritratti; sarebbe stato impossibile dormire, altrimenti. In quella stanza, la maggioranza dei dipinti erano panorami di mari in tempesta, con onde crudeli che sollevavano navi indifese per trascinarle nelle torbide profondità verso un destino ignoto. Non era rincuorante, ma neppure materiale da incubo.

    L’appunto era succinto quanto l’avvocato, neanche un saluto, partiva subito con un elenco puntato di cose che poteva e non poteva fare, parti della casa che erano off limits e disposizioni per chi doveva imballare e trasportare gli oggetti. Ne ignorò la maggior parte, era lì per fare il suo lavoro.

    Lo sguardo le andò agli unici ritratti nella stanza, una serie di quattro che erano stati appesi con una parvenza di ordine e montati in cornici identiche. Ognuno mostrava un bambino diverso ma dai tratti simili, con occhi azzurro chiaro e capelli color grano; solo la ragazza più giovane era leggermente diversa; gli occhi castano scuro, i capelli meno biondi, ma il viso sempre uscito dallo stesso stampo. Erano soggetti molto insoliti per un ritratto, non i soliti uomini dai volti seri in abiti inamidati o tenute militari. Erano quasi moderni nell’aspetto, le cornici più antiche dei dipinti. I loro volti davano l’idea che i sorrisi fossero rari quanto il sole in inverno, e altrettanto effimeri. La tristezza nei loro sguardi era stata squisitamente catturata dall’artista, anche se Anita avrebbe voluto che non fosse stato così abile. Preferiva che i bambini fossero felici, che avessero un’infanzia come la sua, con genitori amorevoli e vagonate di gioia.

    Voltando le spalle ai ritratti, prese dalla borsa i

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