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Il cerchio si chiude: Il passato ritorna 3
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E-book304 pagine4 ore

Il cerchio si chiude: Il passato ritorna 3

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Romance - romanzo (254 pagine) - Il terzo romanzo della straordinaria trilogia "Il passato ritorna"


1857.  Morti i genitori  per colpa  del mal sottile che miete decine di vittime, Raniero, ultimo discendente del suo casato, entra nel corpo dei Cacciatori di Garibaldi e partecipa all’impresa dei Mille. Rosa è la figlia di un vecchio garibaldino, ed è una giovane popolana dal carattere forte e deciso. Raniero se ne innamora e Rosa lo ricambia. Ma la guerra li divide e li costringe a inseguirsi da lontano. Quando si ritrovano nella Rocca del Biancospino, il fantasma della trisavola Elettra si manifesta con prepotenza, cercando di frapporsi al loro amore e al loro desiderio di avere un figlio. Consapevoli del pericolo che corrono, Rosa e Raniero lotteranno perché la loro progenie non patisca le ire di Elettra.


Paola Picasso ha esordito come autrice di libri per bambini editi da La Scuola di Brescia e rimasti come letture nelle classi elementari fino a poco tempo fa. Ha scritto anche una serie di favole per la De Agostini e alcuni romanzi per adolescenti per la Capitol. In seguito, passata per motivi intuibili al rosa, ha lavorato per Curcio, per Cino Del Duca, per Universo, per Fanucci, per Aliberti, per Mondadori, che ha pubblicato diversi suoi romanzi nella collana Grandi Storici, e per Harlequin Mondadori, con la quale collabora ancora come autrice e come traduttrice. In totale ha scritto circa duecento romanzi rosa e così tanti racconti da averne perso il conto, ma spera che la fantasia, forse unica ancora di salvezza, non la abbandoni fino alla fine. Per Delos Digital ha pubblicato nella collana Passioni Romantiche i racconti Questione di pelle, La scelta e Il sole dell'anima.

LinguaItaliano
Data di uscita5 set 2017
ISBN9788825403206
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    Anteprima del libro

    Il cerchio si chiude - Paola Picasso

    9788825403008

    Nei romanzi precedenti

    Libro primo – La torre antica

    Oliviero Branciforte, marchese della Rocca del Biancospino, un castello vicino a Gradara e a San Leo, è un uomo pieno d’amarezza. La moglie che gli è stata imposta, Elettra, si è suicidata buttandosi dalla torre del suo castello, ma il suo spirito non l’ha abbandonato. Per dare un erede al casato, Oliviero sposa in seconde nozze Lucia Beltrame, una giovane di umili natali che inaspettatamente esercita su di lui un fascino irresistibile. Oliviero lotta per resisterle, ma Lucia lo ammalierà prima esercitando su di lui una violenta attrazione sessuale e poi con le sue doti morali e caratteriali.

    In quel periodo si formano i primi gruppi di Carbonari e Oliviero, grande irredentista, vi si iscrive e correrà gravissimi pericoli. Lucia, confinata nel suo castello, sente spesso la presenza ostile di Elettra. Comprende il motivo di quella persecuzione il giorno in cui trova il diario della defunta e scopre che la donna, rimasta incinta, ha abortito per non dare una soddisfazione al marito che la ignora. In seguito, non sopportando il rimorso, si è uccisa. Ma perché non trova pace? Che cosa vuole? Lucia non lo scoprirà. Rimasta incinta e trovata una profonda intesa con il marito, torna ad Ancona nel palazzo di famiglia mentre Elettra, dalla cima della torre del castello, la Rocca del Biancospino, sorride con scherno, certa di poter ottenere quello che vuole.

    Libro secondo – L’oscura minaccia

    Morto il padre Oliviero in uno scontro con gli austriaci, Tancredi Branciforte, suo erede, giura di vendicarlo. Entra nella Giovane Italia mazziniana e si distingue per ardimento, ma tradito da colui che mira a sposare la bella Giuditta di cui Tancredi è innamorato, viene gettato in una prigione.

    Scopertasi incinta, Giuditta viene mandata dal padre nel convento delle Clarisse di Osimo dove, da quando è rimasta vedova, vive Lucia, la madre di Tancredi, e le due donne diventano inseparabili. Alla nascita di un bambino, Raniero, è presente anche il padre, fuggito dal carcere. I due si sposano e si rifugiano nella Rocca del Biancospino mentre l’Italia intera è scossa da guerre e insurrezioni.

    Anche qui lo spettro di Elettra appare spesso, anima tenebrosa e vendicativa, e quando il piccolo Raniero salirà sulla torre con un amico, tenterà di rapirlo.

    Ad Ancora, dopo l’invasione di Napoleone, è tornato il Papa e la città sembra tranquilla. La coppia vi torna con il bambino ed Elettra, dall’alto della torre, li osserva e ride. Per lei il tempo non ha valore. Può aspettare…

    Prologo

    Marche, 1857

    Era l’ora quieta del crepuscolo e, nell’ombra che si faceva più densa, la mole del Castello del Biancospino appariva cupa e severa. Raniero Branciforte, conte della Gherardina e nuovo Marchese della Rocca del Biancospino, ritto sulla cima della torre, abbassò lo sguardo sul piccolo camposanto racchiuso da vecchi filari di pioppi sul fianco sinistro del maniero.

    Dopo molti anni di abbandono, Lauro, l’attuale guardiano del castello e suo amico d’infanzia, l’aveva sistemato, pulendo i sentieri dalle erbacce e mettendo a dimora delle nuove piante.

    Laggiù, sotto delle semplici lapidi bianche, giacevano alcuni dei suoi antenati, i cui nomi incisi nella pietra sfidavano il passare dei secoli. Di lato, in un angolo riparato dal vento e vegliato dai pioppi, era stata eretta tre anni prima una piccola cappella dentro la quale, in un unico sarcofago, riposavano i suoi genitori.

    Una nuova malattia di cui si aveva consapevolezza, il mal sottile, aveva colpito Raniero pochi anni prima e Giuditta, nonostante il pericolo del contagio, l’aveva vegliato notte e giorno, ammalandosi lei pure. La morte aveva portato via Tancredi e Giuditta, ma non era riuscita a separarli. I due coniugi avevano cessato di vivere a distanza di poche ore l’uno dall’altro, uniti nell’ora del trapasso come lo erano stati in vita, e Raniero, che in quel periodo si trovava a Torino, non aveva nemmeno potuto vederli un’ultima volta.

    Di tutta la sua famiglia gli era rimasta solo nonna Lucia, che si stava avviando verso gli ottant’anni circondata dall’affetto e dalle cure delle buone suore del Convento delle Clarisse di Osimo, che l’avevano accolta molti anni prima.

    Nonna Lucia, folti capelli candidi, ossa fragili e volto segnato dai colpi che il destino le aveva inferto, conservava una mente lucidissima e una forza morale indomita. Era una fiaccola nel buio, un’inesauribile fonte di affetto e di sostegno.

    Cessato il pericolo di contagio, Raniero era tornato nelle Marche e aveva ordinato che il palazzo di famiglia e il castello fossero parati a lutto. Solo pochi giorni prima, allo scadere del terzo anno, aveva chiesto a Lauro e a sua moglie Alba di staccare i paramenti funebri dalle finestre e di dare aria alle stanze. La vita riprendeva, ma per lui, ardente d’amor patrio, membro dei Cacciatori delle Alpi, corpo costituito da Giuseppe Garibaldi, si profilavano anni di battaglie e di scontri sanguinosi.

    Raniero sospirò e, staccandosi dal parapetto smerlato, volse intorno lo sguardo. Nel punto in cui si trovava in quel momento, molti anni prima, quando era ancora piccolo, una presenza incorporea, simile a un fluttuante fumo bianco, aveva cercato di rapirlo. Era stato il suo amico Lauro a farlo ritrovare. Erano stati sua madre e suo padre a soccorrerlo e a rassicurarlo, spiegandogli che probabilmente aveva sognato.

    Lui si era tranquillizzato, ma anni dopo, quando sua madre gli aveva raccontato che nel loro castello abitava il fantasma di Elettra, la prima moglie di suo nonno, morta suicida, e che quello spirito tormentato perseguitava tutti i membri della loro famiglia per vendicarsi dei torti che a suo dire aveva subito, collegare lo spettro allo strano fatto che gli era successo da piccolo, era stato facile come inserire una tavola mancante in un puzzle.

    Volgendosi verso la cerchia delle colline che la notte stava inghiottendo, Raniero frugò le ombre con lo sguardo.

    – Non mi hai avuto allora, Elettra, spirito inquieto, e non mi avrai mai – gridò. – Vado a combattere e dubito che tornerò.

    Una ventata improvvisa fece frusciare le fronde degli alberi, un corvo apparve dal buio e prese a volteggiare sul suo capo, gracchiando.

    Uomo sciocco, io so ciò che tu ignori. Il futuro non ha segreti, per me. Alla fine otterrò ciò che voglio, sussurrò una voce senza suono.

    Raniero rabbrividì, poi un’impennata di rabbia gli fece levare il pugno contro il cielo. – Mai! – gridò. – Mai!

    Nel profondo silenzio in cui si spense la sua voce, echeggiò una risata sinistra.

    1

    Erano i primi di maggio del 1860, ma quell’anno la primavera stentava ad annunciarsi e il gruppo di uomini riuniti in una piazzuola nei pressi del porto di Genova, guardava corrucciato il mare sferzato da un vento rabbioso.

    Altri uomini giunti da ogni parte d’Italia per rispondere all’appello dell’Eroe dei due Mondi erano raccolti in punti diversi della città, e tutti attendevano ordini.

    – Garibaldi sta aspettando dei rinforzi – borbottò Salvo Ruini, un giovane marchigiano amico di Raniero. – Speriamo che ci porti buone notizie. Se Cavour e i Savoia non ci sosterranno in questa impresa, non avremo speranze.

    – Il Generale sa quello che fa – rispose Raniero sedendosi per terra e posando il suo vecchio fucile a percussione contro un muretto di pietra viva che riparava a stento dagli spruzzi delle onde. – I volontari sono molto numerosi, ma riconosco che solo la metà è armata in modo conveniente.

    – Abbiamo sempre la risorsa delle baionette. Molte volte l’assalto all’arma bianca è stato risolutivo – intervenne Luigi Raspi, ardente garibaldino. – Inoltre abbiamo dei comandanti egregi…

    – Bixio è impulsivo, facile all’ira. Garibaldi deve tenerlo a bada – borbottò un anziano di nome Nino, accucciato contro un muretto. – Si lancia in ogni impresa con un coraggio che rasenta la temerarietà – spiegò accarezzandosi la lunga barba grigia. – A San Fermo, il 27 maggio del 59… lo ricordo bene perché io, essendo un fante, ero appiedato… lo vidi lanciarsi contro le postazioni nemiche, precedendo i suoi uomini. Non restò ucciso solo perché il suo cavallo, spaventato dallo scoppio di una cannonata, s’impennò e lo disarcionò.

    – Quindi è una testa calda – commentò un compagno.

    – Sì, ma intelligente, veloce, intrepido e trascinatore. In certe situazioni servono degli uomini come lui.

    – Così pensano solo quegli ambiziosi che aspirano a diventare degli eroi e si buttano a capofitto in qualunque impresa – commentò con acidità Ivo Restagni, un anconetano aggregatosi di recente all’esercito un po’ raffazzonato dei garibaldini. – Per diventare un buon soldato bisogna adoperare il cervello, non la foga.

    – Quindi, secondo te, durante uno scontro sanguinoso un combattente farebbe bene a nascondersi? – domandò Nino, socchiudendo gli occhi.

    – Perché no? In seguito sarà di sicuro più utile da vivo che da morto.

    Seguì un borbottio e uno scuotere di teste, ma Ivo mantenne inalterata la sua espressione boriosa.

    – Quella canaglia doveva proprio capitare nella nostra squadra? – borbottò Salvo sottovoce, arretrando fino a trovarsi accanto a Raniero.

    – È stato un tiro mancino del destino – rispose Raniero. – Conosco Ivo da anni e sono al corrente delle sue malefatte. Alcuni anni or sono dissero che aveva violentato una ragazza ma che non fu denunciato perché si offrì di sposarla. Di recente era stato accusato di furti e di aggressioni e lui, per sfuggire alla galera, si è arruolato.

    – Cerchiamo di tenerlo alla larga – concluse Salvo, corrucciato.

    Stavano cominciando a cadere delle piccole gocce di pioggia quando da una tettoia che sporgeva dal palazzo in fondo alla piazzetta giunse una voce femminile.

    – Entrate, soldati! Bagnarvi non vi farà ottenere una medaglia, mentre io vi offrirò una zuppa calda. Muovetevi!

    – È Rosa, la figlia di Leonardo Bardoni, detto il Leone, un piemontese che segue Garibaldi dal 1948 e si batté con lui a Luino e a Varese – spiegò Ivo, guardando Rosa con un sorriso lascivo. – Una gran bella pupa, non c’è che dire.

    – E Rosa segue lui – commentò l’anziano. – Di tutta la famiglia le è rimasto solo il padre e ha giurato che non lo abbandonerà un solo istante. Sua madre morì di tifo petecchiale quando lei aveva otto anni e da allora Rosa è diventata l’ombra di Leonardo. Ha imparato a sparare, a caricare i fucili e a cavalcare come un uomo. Ricordo che quando ci accampavamo, si avvicinava a quelli che sapevano leggere e scrivere e li tormentava perché le insegnassero. Che ragazza!

    – Gran bella figliola, ma rustica e pungente come il fiore di cui porta il nome – commentò Luigi Raspi, incamminandosi verso la tettoia. – Se uno di noi osa farle un complimento, sfodera gli artigli, poi lo sbrana e se lo mangia in un boccone. Ivo ne sa qualcosa, vero?

    L’interpellato scrollò le spalle. – Un detto dice: chi disprezza, compra.

    Infastidito dalla sua arroganza, Raniero lo ignorò. – Dunque, volendo, non dovrei dirle che è bella? – domandò a Luigi in tono scherzoso.

    – Evitalo, se vuoi conservare i tuoi begli occhi azzurri.

    Raniero rise, lo sguardo fisso sulla ragazza che stava preparando la cena e si muoveva con l’agilità di uno scoiattolo. Da molti giorni la osservava, attratto dalla sua bellezza tzigana, dalla grazia innata delle sue movenze, dalla schiettezza con cui si esprimeva.

    Era raro che una ragazza così giovane fosse tanto sicura di sé. Rosa si districava tra centinaia di uomini con estrema disinvoltura. Le bastava uno sguardo dei suoi occhi nerissimi e lucenti per mettere al suo posto anche il più sfrontato.

    Peccato che non guardasse mai nella sua direzione, se non di sfuggita, si rammaricò. Era come se volesse evitare qualsiasi tipo di rapporto con lui. Come se lo sfuggisse.

    Perché? La curiosità di capire il motivo del suo comportamento l’aveva spinto a osservarla, a studiarla e… ad apprezzarla. Non solo la sua bellezza bruna lo ammaliava, non solo la sua elusività stuzzicava il suo orgoglio di maschio, l’interesse che provava per lei era molto più profondo, nasceva da un quid impalpabile, un misto di impulsi emotivi quanto carnali.

    Stava ancora riflettendo su quello strano fenomeno quando entrò in un androne fumoso e, mescolato ai compagni, si avvicinò alla piccola leonessa affaccendata davanti a un calderone da cui usciva una nuvola di vapore.

    Aveva conosciuto Rosa a Torino, durante un raduno, ma aveva scambiato con lei poche parole. L’impressione che aveva ricevuto era stata quella di una ragazza intrepida, sveglia e molto schietta.

    Quando le aveva detto che era troppo giovane per mescolarsi a dei soldati rozzi e sboccati, la sua risposta era stata bruciante.

    – Ho diciotto anni e ho speso ogni giorno della mia vita in mezzo a bifolchi peggiori. Le parolacce non mi fanno paura. Quello che m’interessa è il coraggio e la lealtà di un uomo! – Poi l’aveva piantato in asso per farsi largo tra decine di divise lacere e avvicinarsi a un palco improvvisato dal quale concionava Paolo Fabrizi, un acceso fautore dell’unità d’Italia.

    Di lei gli erano rimasti impressi gli occhi, due carboni ardenti, chiusi tra ciglia nerissime, il nasetto impertinente e la bocca carnosa.

    In quel momento il viso di Rosa era arrossato dal calore. Lunghe ciocche di capelli corvini le cadevano attorcigliandosi sulla fronte e sugli occhi e lei le scostava con l’avambraccio tornito, sbuffando d’impazienza. Benché fosse minuta, dal suo corpo snello si sprigionava un’energia indomabile.

    Raniero si fermò a guardarla con un sorriso sulle labbra. Gocce di sudore le scivolavano dentro lo scollo di un semplice abito nero che, benché malfatto, metteva in evidenza la vita sottile e i seni turgidi, perfetti per colmare le mani di un uomo. Se Rosa era la loro vivandiera, oltre a una zuppa avrebbe regalato parecchi sogni conturbanti alla marmaglia che la circondava.

    – Dove hai trovato il cibo che stai cuocendo? – le domandò Licinio, un vecchio soldato privo di un occhio, cercando di sbirciare dentro il calderone.

    – Perlustrando la campagna si trovano molte cose commestibili, vecchio – rispose Rosa respingendo la treccia che le era scivolata su una spalla. – Inoltre Ida, la moglie dell’oste che gestisce la Tana del Lupo, dietro l’angolo, mi ha concesso di cucinare in questo androne dove un tempo riparavano la vacca e l’asino e mi ha prestato il paiolo e la legna.

    – Dall’odore che permea l’aria avevo sospettato che fosse una stalla – commentò Raniero, ridendo.

    La ragazza si voltò con mossa fulminea e lo trafisse con uno sguardo fiammeggiante. – Se il lezzo degli animali non ti aggrada, puoi restare all’aperto, soldato. Altrimenti taci e siediti per terra, come i tuoi compagni.

    – Non intendevo offenderti – si scusò Raniero.

    – Non offendi me. Offendi la provvidenza. Se abbiamo questo riparo lo dobbiamo a un patriota. Arnolfo è il padrone dell’osteria a cui si accede dalla strada di fianco alla piazza. Ci ha aperto questo androne a suo rischio e pericolo. Dovresti essergliene grato. – Tacque di colpo, quasi pentendosi di quello sfogo. Mescolò ancora una volta la zuppa. Poi si girò verso i soldati e sollevò il mestolo di legno. – Il rancio è pronto! – annunciò con la sua voce argentina. – Fatevi sotto con le vostre gavette, uomini!

    Ivo Restagni fu il primo ad accorrere. Fingendo di porgere la sua gavetta, si strofinò contro il suo fianco. Rosa non batté ciglio. Spostò di colpo il bacino, colpendogli lo stomaco, e l’uomo, imprecando tra i denti, fu costretto ad arretrare.

    Licinio Calvi, un contadino ligure, arruolatosi di recente e ancora in abiti da lavoro, arrivò in quel momento, rotolando una botte.

    – Vino per tutti, ragazzi! – annunciò.

    Tra le grida di giubilo, si levò la voce imperiosa di Rosa: – Ben fatto, soldato, ma il vino lo amministrerò io. Spingi qui quella botte. Non voglio ubriachi, qui dentro.

    – Rosa… – tentò suo padre, andandole vicino.

    Leonardo Bardoni era un pezzo d’uomo grande e grosso che la sovrastava di tutta la testa, ma lei non si scompose. Indicandogli di tornare a sedersi, gli voltò le spalle. – Lasciate fare a me, babbo – rispose. – In battaglia comanda il Generale Garibaldi. Tra le pentole comando io.

    Gli uomini risero e ubbidienti si misero in fila, porgendo la gavetta e una tazza di latta per ricevere la zuppa e il vino.

    Avuta la sua porzione, Raniero andò a sedersi sotto la tettoia. Piovigginava ancora e l’aria, benché pregna d’umidità, era più respirabile rispetto a quella dell’androne. Negli ambienti chiusi, il tanfo del sudore, di corpi non lavati, di divise sudice, prendeva alla gola.

    Gli uomini si erano buttati sul cibo e quel minestrone reso denso da una gran quantità di patate e di carote, per il momento aveva saziato la loro fame. Alcuni sonnecchiavano con il mento sul petto. Altri conversavano sottovoce e coloro che avevano trovato lo spazio si erano distesi sul pavimento di terra battuta e dormivano saporitamente.

    Raniero li invidiò. La tensione a cui tutti erano sottoposti gli rendeva difficile addormentarsi. Eppure sapeva quanto importante fosse il riposo. Se la mente non è intorpidita, la mano è più lesta e la reazione più immediata. Ricordava ancora come, arrivando dopo marce forzate sotto Varese, nel maggio del 54 avesse rischiato di rimanere accerchiato da un gruppo di soldati austriaci perché, stanco com’era, non si era accorto del pericolo.

    – Ancora un po’ di vino, soldato?

    Raniero si voltò. Rosa gli mostrava una brocca sbrecciata colma a metà.

    – Ti ringrazio, ma preferisco non annebbiarmi la mente. Potremmo essere chiamati all’azione da un momento all’altro.

    La ragazza sbatté uno straccio sul pavimento per togliere dei sassolini misti a fango e si sedette a gambe incrociate. – Tutti affermano che tenteremo uno sbarco in Sicilia, ma nessuno sa quando avverrà – borbottò.

    Benché sorpreso da quell’approccio inaspettato, Raniero non lo diede a vedere.

    – Sono decisioni che spettano al generale. È un grande stratega, quindi saprà cogliere il momento giusto.

    – Nel frattempo si è assicurato due navi – commentò Rosa. – La Piemonte e la Lombardo.

    Raniero si stupì. L’azione con cui un gruppo di uomini era entrato in possesso dei due vapori era stata fulminea e misteriosa. – Come fai a saperlo?

    – Quando la gente parla, io ascolto – rispose lei, imperterrita. – Alcuni dicono che i piroscafi sono stati comprati con i soldi dei massoni inglesi, che hanno tutto l’interesse a liberare la Sicilia dai Borboni. Altri, che sono state rubate. Quale che sia la verità, è il risultato che conta. – Un sorriso rapido ma luminoso come un raggio di sole le disegnò due fossette sulle guance. – Sbarcheremo in Sicilia. Non vedo l’ora di arrivarci.

    – Conti d’imbarcarti? – Raniero le rivolse uno sguardo interdetto. – Il Generale non ha mai accolto delle donne a bordo.

    – Per una ha fatto eccezione, quindi può farla per due, altrimenti mi camufferò da mozzo.

    In effetti, pensò lui osservando la sua figura minuta, il travestimento sarebbe potuto riuscire. – E per chi avrebbe fatto questa eccezione?

    Rosa lo fissò intensamente, quasi volesse valutare il suo grado di lealtà. – Per il momento è un segreto, quindi non devi rivelarlo a nessuno.

    – Non ne farò parola – promise lui.

    Ancora incerta, la ragazza si succhiò il labbro inferiore e lo sbirciò di sottecchi. Quel giovane le sembrava diverso dagli altri ed era stata proprio quella diversità a farla sentire a disagio. Sapeva come trattare la gente di bassa lega, gli sfrontati e gli sbruffoni come Ivo, ma lui… lui aveva l’aria di un principe.

    Oltre a essere di una bellezza straordinaria, era serio, educato, riservato, e i compagni lo trattavano con rispetto.

    La prima volta che l’aveva visto a Torino in mezzo a una folla vociante, era rimasta colpita dal suo aspetto. Più alto della folla, atletico, elegante benché vestisse una divisa impolverata, le era sembrato uno di quegli antichi eroi di cui aveva visto alcune statue al museo civico. Poi, quando aveva incrociato il suo sguardo, gli occhi azzurro indaco, limpidi ma penetranti, le avevano causato una vertigine che l’aveva costretta a voltarsi e a scappare.

    Non aveva mai provato un turbamento così forte. Del resto, per difendersi dalle numerose insidie, aveva sempre eretto intorno a sé un muro tanto alto che pochi avevano tentato di scavalcarlo. E quei pochi, una volta arrivati davanti a lei, si erano trovati a dover respingere una piccola furia.

    Era stato suo padre, veterano di due guerre d’indipendenza, a dirle di non fidarsi di nessuno e di evitare ogni contatto con il sesso forte, perché gli uomini tra cui sarebbe vissuta erano reduci da battaglie, da privazioni, e cercavano solo un facile sfogo.

    Mantenere le distanze da tutti i commilitoni di suo padre non le era stato difficile. Nessuno aveva attirato il suo sguardo. Nessuno le aveva dato l’incomprensibile desiderio di ravviargli i capelli come le era successo con lui.

    Da quel giorno a Torino aveva pensato a lui molte volte, chiedendosi se l’avrebbe mai rivisto e adesso lui era lì, in carne e ossa, tangibile e concreto, non sfuggente come le appariva in sogno.

    Alla fine annuì, ma pur cedendo, mantenne dei modi bruschi. – Voglio fidarmi di te, garibaldino. Si tratta di Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi. Ha compiuto molte azioni eroiche ed è una donna di grande coraggio. È giunta a Genova di recente con dei dispacci segreti, contenenti le istruzioni per l’insurrezione da consegnare a Giacomo Agresta. Ma non è la prima volta che ha fatto da corriere per gli esuli italiani.

    – La conosci? – domandò Raniero.

    – L’ho vista da lontano. Ha un aspetto piacevole, ma banale. A guardarla non si direbbe che sia un’eroina. È stato mio padre a raccontarmi che Rosalia ha inviato al Generale la richiesta di poter seguire la spedizione e che lui le ha accordato il permesso, avvertendola che correrà dei gravi pericoli.

    – Pericoli che sei disposta ad affrontare anche tu – commentò Raniero.

    – Ci sono abituata da anni – rispose lei con una scrollata di spalle. – Dove va mio padre, vado anch’io.

    – Rosa la testarda – commentò lui.

    – Meglio dire la determinata. Tu conosci il mio nome. Il tuo qual è?

    – Raniero.

    – E poi? – insistette lei.

    – Perché vuoi saperlo?

    La ragazza si strinse nelle spalle. – Per distinguerti dagli altri Ranieri.

    – Non ne ho visti molti in giro – replicò lui, restio a rivelarle il nome del suo casato.

    – Potrebbero sempre spuntare – contestò Rosa. – Ma se non vuoi dirmelo, non importa. Lo scoprirò comunque.

    Raniero dovette ridere e si arrese. – Branciforte. Contenta?

    – E da dove vieni?

    – Da Ancona. E tu?

    – Sono torinese da generazioni. – Rosa riprese a succhiarsi il labbro inferiore, vezzo che lui avrebbe imparato a considerare un segno inquietante. – Mio padre mi ha raccontato di un Branciforte anconetano morto da eroe durante i primi moti della Carboneria. Sebbene fosse un nobile, era un

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